ARTICOLI DI GILBERT ACHCAR

TRA RIVOLUZIONE E BARBARIE
settembre 2015
BANDIERE DI PROTESTA
luglio 2015
LA FINE DELL’IMPERO?
giugno 2015
SVILUPPI NEL MEDIORIENTE
settembre 2014
USCIRE DALLE LOGICHE BINARIE
febbraio 2014
ISRAELE RAFFORZA HAMAS
luglio 2014
COSA RESTA DELLA PRIMAVERA ARABE
Febbraio 2013
I PROGRESSISTI IN DIFFICOLTA’ IN EGITTO
novembre 2013
SIRIA TRA RIVOLUZIONE E CONTRORIVOLUZIONE
ottobre 2013
RIVOLUZIONE E GUERRA CIVILE IN SIRIA
agosto 2013
RIVOLUZIONE, CONTRORIVOLUZIONE E GUERRA CIVILE IN SIRIA
agosto2013
CONTINUAZIONE E DIFFICOLTA’ DEI PROCESSI RIVOLUZIONARI NEL MAGHREB E NEL MASHREK
settembre 2013
SVILUPPO E DIFFICOLTA’
luglio2013
GLI USA TEMONO IL COLLASSO DELLO STATO SIRIANO
agosto 2013
PRIME RIFLESSIONI SULLA DINAMICA DELLA RIVOLUZIONE EGIZIANA
luglio 2013
EGITTO, LA QUESTIONE SOCIALE ALLA RADICE DEI GRANDI SCONVOLGIMENTI POLITICI
luglio 2013
IL CAPITALISMO ESTREMO DEI FRATELLI MUSULMANI
giugno 2013
L’IMPERO IN DECLINO
febbraio 2013
RIVOLUZIONE PERMANENTE E RIVOLUZIONI ARABE
dicembre 2012
PRIMAVERA PER LA SINISTRA ARABA?
dicembre 2012
LIBERTA’ DI CRITICARE LA RELIGIONE
settembre 2012
TIMORI SULLA CADUTA DI ASSAD
aprile 2012
TUNISIA: OPPORTUNISTI E RIVOLUZIONARI
febbraio 2012
LA REGIONE ARABA A CHE PUNTO SONO LE RIVOLUZIONI?
gennaio 2012
LA SCINTILLA BOUAZIZI?
gennaio 2012
LA RIVOLUZIONE CONTINUA
novembre 2011
SIRIA:LA MILITARIZZAZIONE E L’ASSENZA DI STRATEGIA
novembre 2011
IL DISCORSO DI BARACK OBAMA SULLA LIBIA E I COMPITI DEGLI ANTIMPERIALISTI
marzo 2011
SVILUPPI IN LIBIA
marzo 2011
DOVE VA L’EGITTO
febbraio 2011
MAGHREB IN FIAMME
gennaio 2011
LIBANO:VERSO UNA NUOVA GUERRA CIVILE?
maggio 2008

ARABI E SHOAH

PALESTINESI E SHOAH
maggio 2014
GLI ARABI E LA SHOAH: «COMBATTERE LE CARICATURE SIMMETRICHE»
febbraio 2010
NEGAZIONE DELLA SHOAH…E NEGAZIONE DELLA NAKBA
novembre 2010

VARIE

I SIONISTI CRISTIANI
novembre 2012
MAI PIU’
maggio 2012
IN RICORDO DI MAXIME RODINSON
1986 – inverno 2004

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TRA RIVOLUZIONE E BARBARIE

Ospite della Università estiva del NPA, Gilbert Achcar è intervenuto, tra gli altri, al workshop dal titolo “Dalla primavera araba allo Stato islamico, che resta della rivolta araba?”.

Quattro anni dopo la caduta di Ben Ali, possiamo ancora continuare a parlare, come hai fatto nel tuo libro Le peuple veut di “rivolta araba”?

Certo. La rivolta araba si rifewriva all’anno 2011 che ha visto insieme sei rivolte e movimenti sociali in quasi tutti i paesi di lingua araba. Ma fin dall’inizio, ho sottolineato che questa rivolta è stata solo l’inizio di un lungo processo rivoluzionario: in questa prospettiva, il fatto che dal 2013 la regione è entrata in una fase di contro-rivoluzione (in particolare dal cambio di direzione della situazione in Siria, quando l’Iran ei suoi alleati libanesi e iracheni hanno salvato il regime di Assad e gli hanno permesso di pasdsare alla controffensiva) non rimuove nulla nelle fondamenta del processo rivoluzionario, in particolare quello che riguarda il blocco socio-economico.

E ‘chiaro che la regione ribolle con ciò che è recentemente accaduto in Iraq e in Libano, due paesi che erano stati meno colpiti di altri dall’onda d’urto del 2011. Nel corso delle ultime settimane, i due paesi sono stati testimoni di mobilitazioni di massa intorno a fratture che oppongono “il popolo”, nel senso del 2011, contro il governo, sulla base di precise richieste sociali. Siamo ancora dentro a questo processo rivoluzionario che è stato inaugurato nel 2011 e che, a mio parere, continuerà per diversi decenni, con alternanza di fasi rivoluzionarie o controrivoluzionarie secondo la stessa dialettica di tali processi.

Quali sono i principali attori della controrivoluzione?

La complessità della situazione regionale non c’è un soggetto controrivoluzionario omogeneo come si è conosciuto in situazioni classiche. Si consideri ad esempio la rivoluzione francese, quando la coalizione reazionaria in Europa, ha fatto lega contro di essa con le forze reazionarie francesi, il campo di ciò che potrebbe essere chiamato il vecchio regime è stato piuttosto omogeneo. Ma nel mondo arabo non è solo il vecchio regime, anche se naturalmente è il primo e la principale forza contro-rivoluzionaria. Ci sono anche l’opposizione reazionaria al vecchio tipo di regime che si è sviluppata nella regione, all’inizio come un antidoto alla radicalizzazione della sinistra, un antidoto che è stato favorito da quasi tutte le parti dal vecchio regime, ma più tardi, in molti paesi essa è entrata in conflitto aperto e talvolta cruento con questo vecchio regime.

Abbiamo poi, dal 2011, un processo rivoluzionario soggetto a due grandi ostacoli, da due forze controrivoluzionarie: i regimi da rovesciare, e forze islamiche che sorgono dai regimi reazionari come alternativa. L’assenza o la debolezza organizzativa del polo rivoluzionario composto dal movimento operaio e dalle forze progressiste o, se del caso, la loro debolezza politica, hanno lasciato la porta aperta alla competizione e allo scontro tra i poli reazionari, con un aumento di situazioni di guerra civile come in Siria, Libia e Yemen, o sotto una forma latente, ma altrettanto brutale, come in Bahrain ed Egitto.

Come giudica le azioni dei Paesi occidentali, con gli Stati Uniti in testa, nella regione? Alcuni attribuiscono, infatti, la maggior parte, se non tutte, le responsabilità dell’attuale situazione caotica, anche a rischio di cadere nel complotismo …

Lasciando da parte le teorie complottiste che arrivano ad attribuire l’ascesa alle macchinazioni degli Stati Uniti, le teorie sono generalmente fondate sulla visione fantasmagorica degli Stati Uniti come onnipotenti, esiste una percezione diffusa, anche in alcuni settori della sinistra , che gli Stati Uniti avrebbero alimentare il caos in Siria come hanno fatto in Libia. E’ un totale fraintendimento dell’attuale politica dell’amministrazione Obama, la cui pusillanimità si vede chiaramente nella questione siriana. Gli Stati Uniti dal 2011 sono al punto più basso della sua egemonia nella regione dal periodo d’oro 1990-1991. Hanno perso molto terreno, soprattutto a causa della catastrofe che l’Iraq stato per il loro progetto imperiale. La più grande ossessione dell’amministrazione Obama è quello di preservare l’apparato statale nella regione ed evitare proprio che si ripeta una situazione caotica come l’Iraq con lo smantellamento dello stato ba’athista con l’occupazione del 2003.

La cosa che potrebbe far pensare che la strategia degli Stati Uniti non avesse assimilato la lezione amara è stato l’intervento in Libia, ma questo punto di vista non tiene coto del fatto che questo intervento è stato per assumere il controllo della situazione di questo paese produttore di petrolio e di negoziare un compromesso con l’apparato statale, parte del quale aveva anche aderito al campo degli insortiquesta. E da questo punto di vista, il risultato dell’intervento in Libia è un altro disastro: il rovesciamento di Gheddafi come ha avuto luogo è stato per Washington un fiasco pesante, come dimostrato dai successivi sviluppi. Le cose sono andate molto più in là di quanto desiderato, dal momento che la NATO ha assistito impotente all’integrale smantelamento dello Stato libico, che ha fatto della Libia un paese senza stato, senza “monopolio della violenza fisica legittima”, con le milizie rivali che oggi si uccidono tra loro. In questo senso, si tratta chiaramente di una seconda sconfitta dopo l’Iraq, quello che non hanno capito i seguaci della teoria del complotto. Oggi, l’ossessione degli Stati Uniti, tra cui la Siria, è di negoziare e raggiungere dei compromessi tra i due poli del contatore regionale per ristabilizzare la situazione e ripristinare e consolidare gli Stati in grado di mantenere l’ordine.

A lungo termine, nella misura in cui non si tiene conto delle basi socio-economiche della rivolta, questa strategia è destinata al fallimento …

Questa politica di riconciliazione tra le due forze della controrivoluzione ha avuto successo finora solo in Tunisia, con un governo di coalizione tra Ennahda ei resti del vecchio regime, e ci sono intense trattative per impegni di questo tipo in Libia, Siria ed Egitto e Yemen. L’accordo nucleare con l’Iran è parte della stessa prospettiva.

Washington vuole conciliare tutta questa “buona società”, che ha in comune una profonda ostilità alle aspirazioni democratiche e sociali della “primavera araba” del 2011. Ma a lungo termine, è chiaro che questo è destinato al fallimento! L’alternativa si pone tra due termini: o un esito positivo del processo rivoluzionario positiva, cioè una rottura radicale nei livelli socio-economici e politici con la variante regionale del capitalismo, consentendo la regione di entrare in una nuova fase di sviluppo a lungo termine ; o quello che ho chiamato un paio di anni fa, uno “scontro di barbarie” con la politica di sviluppo di sintomi di putrefazione che il sedicente “Stato islamico” è oggi l’esempio più evidente.

2015/03/09

BANDIERE DI PROTESTA

La religione continua a produrre, con successo innegabile, ideologie combattive che contestano le condizioni sociali o politiche. Due di queste hanno di recente ricevuto molta attenzione: la teologia cristiana della liberazione e il fondamentalismo islamico. Un indizio per le loro nature si trova nella correlazione tra la loro nascita e il destino della sinistra laica nelle loro zone geografiche. La storia della teologia della liberazione è grosso modo parallela a quella della sinistra laica in America Latina, dove è considerata una componente della sinistra. Il fondamentalismo islamico, però, si è sviluppato nella maggior parte dei paesi con una maggioranza musulmana come concorrente della sinistra, e ha sostituito la sinistra nel cercare di incanalare la protesta contro quella che Marx definiva la “vera miseria”, e contro lo stato e la società considerate responsabili di questa. Queste opposte correlazioni indicano una profonda differenza tra i movimenti.

La Teologia della Liberazione è la principale incarnazione di ciò che Michael Löwy chiama una “affinità elettiva” tra il Cristianesimo e il socialismo (1), riunendo l’eredità del Cristianesimo originario (che si era affievolito, lasciando che diventasse un’ideologia istituzionalizzata di dominazione sociale) e l’utopismo “comunistico” (2). Spiega l’abilità del teologo Thomas Münzer di formulare, in termini cristiani, nel 1524-25, un programma per la rivolta contadina tedesca che Friedrich Engels ha descritto nel 1850 come “un’anticipazione del comunismo nella fantasia” (3).

La stessa affinità elettiva spiega perché l’ondata mondiale di radicalizzazione politica di sinistra che è iniziata negli anni ’60, poté assumere una dimensione cristiana – specialmente nelle nazioni periferiche dove la maggior parte delle persone erano cristiane, povere e oppresse. Questo è accaduto specialmente in America Latina, dove la rivoluzione cubana ha incoraggiato la radicalizzazione fin dagli anni ’60. C’era un’importante differenza tra questa moderna radicalizzazione e il movimento dei contadini tedeschi analizzato da Engels: in America Latina, l’utopismo cristiano “comunistico” era unito meno al desiderio per le passate forme comunitarie (sebbene ci fosse una dimensione di questo tipo tra i movimenti dei popoli indigeni) che alle moderne aspirazioni socialiste dei rivoluzionari marxisti latino-americani.

Opporsi al dominio occidentale

Il fondamentalismo islamico, d’altra parte traeva vantaggio dalla decomposizione del movimento progressista. A partire dagli anni ’70 con la fine del nazionalismo radicale della classe media (simboleggiata dalla morte di Gamal Abdel Nasser nel 1970, dopo la sua sconfitta a opera di Israele nella guerra del 1967), le forze reazionarie che usavano l’Islam come una bandiera ideologica si sono diffuse nella maggior parte dei paesi con maggioranza musulmana, fomentando le fiamme del fondamentalismo islamico per incenerire ciò che restava della sinistra. Riempirono il vuoto creato dal crollo della sinistra e presto si imposero come il principale vettore dell’opposizione più intensa alla dominazione occidentale; avevano incorporato questa opposizione dall’inizio, ma non la avevano evidenziata durante l’era nazionalista “laica”. Questa opposizione prevalse di nuovo, all’interno dell’Islam Sciita, dopo la rivoluzione Islamica del 1979 in Iran. E riguadagnò rilievo nell’ambito dell’Islam sciita negli anni ’90, quando distaccamenti armati di militanti sunniti fondamentalisti che prima avevano combattuto l’Unione Sovietica in Afghanistan, passarono a combattere gli Stati Uniti, dopo la sconfitta e le disintegrazione dell’Unione Sovietica, e come reazione al ritorno delle forze armate statunitensi in Medio Oriente, indotto dall’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq.

In questo modo, due generi di fondamentalismo islamico sono arrivati a coesistere in tutti i paesi a maggioranza musulmana, uno che collabora con gli interessi occidentali, l’altro ostile a questi. Il caposaldo del primo è l’Arabia Saudita, il più fondamentalista e oscurantista degli stati islamici. L’attuale genere principale anti-occidentale tra i sunniti, è rappresentato da Al-Qaida e dal suo ramo, il cosiddetto Stato Islamico (IS); il suo caposaldo all’interno dello sciismo è la Repubblica Islamica dell’Iran.

Entrambe le condividono una devozione a un’utopia medieval-reazionaria – un progetto immaginario e mitico di società rivolta al passato. Cercano di ristabilire la loro visione della società e dello stato della precedente storia islamica. In questo condividono una premessa formale con il riferimento della teologia della liberazione al Cristianesimo originale. Tuttavia il programma dei fondamentalisti islamici non è fatto di principi idealisti del “comunismo dell’amore”, derivante da una comunità oppressa, povera, ai margini della società, il cui fondatore è stato messo a morte dal potere temporale del suo tempo. E non è basata su qualche antica forma di proprietà condivisa, come è stata, in parte, la rivolta contadina tedesca del 16° secolo.

Un’utopia reazionaria

I fondamentalisti islamici si dedicano all’attuazione di un modello medievale di quasi 14 secoli fa, il cui fondatore – un mercante trasformatosi in profeta, signore della guerra e costruttore di uno stato e di un impero – morì all’apice del suo potere politico. Come succede in ogni tentativo di ripristinare un’antica società e un sistema di governo di classe, il progetto del fondamentalismo islamico equivale a un’utopia reazionaria.

Questo progetto ha un’ affinità elettiva con l’Islam ultra-ortodosso che è diventata la corrente dominante all’interno dell’Islam, appoggiata dal Regno Saudita. Questo Islam favorisce l’adesione letterale alla religione attraverso il suo culto del Corano, considerata la parola finale di Dio. Quello che nella maggior parte delle altre religioni è ora il fondamentalismo come approccio di minoranza – una dottrina che difende l’attuazione di un’interpretazione letterale delle scritture religiose – ha un ruolo chiave all’interno dell’ordinario Islam istituzionale. A causa dello specifico contenuto storico delle scritture, alle quali cerca di attenersi, l’Islam ultra-ortodosso favorisce dottrine che sostengono che l’adempimento fedele della religione richiede un governo basato sull’Islam, dal momento che il Profeta ha combattuto per stabilire uno stato di questo tipo. Per la stessa ragione, ricorrendo alla storia della guerra di espansione dell’Islam contro altri credi, l’Islam ultra-ortodosso è particolarmente favorevole alla lotta armata contro il dominio neo-musulmano.

Riconoscere l’affinità elettiva tra l’Islam ultra-ortodosso e l’utopismo medieval-reazionario, in contrasto con quella tra il Cristianesimo originario e l’utopismo comunistico, non impedisce di riconoscere tendenze in ognuno. Il Cristianesimo ha una lunga tradizione di dottrine reazionarie e fondamentaliste. Le scritture islamiche, invece, comprendono alcune reliquie egualitarie del periodo in cui i primi musulmani erano una comunità oppressa; queste sono state usate per ideare delle versioni socialiste dell’Islam.

Il fatto che ci siano differenti affinità elettive nel Cristianesimo e nell’Islam, non significa che lo sviluppo storico di ciascuno fluisse naturalmente insieme alla sua specifica affinità elettiva. Si è adattato alle configurazioni della società di classe con la quale ogni religione si è intrecciata – enormemente diversa dalla sua origine sociale nel Cristianesimo, meno nell’Islam. Per vari secoli, il Cristianesimo è stato meno progressista che l’Islam per molti aspetti. All’interno della Chiesa Cattolica continua la lotta tra una versione reazionaria dominante, rappresentata da Joseph Ratzinger (l’ex Papa Benedetto XVI) e i sostenitori della teologia della liberazione, che ha avuto nuova energia dalla recente radicalizzazione di sinistra in America Latina.

Comprendere le affinità

Riconoscere un’affinità elettiva tra Cristianesimo e socialismo, certamente non significa che il Cristianesimo storico fosse socialista. Analogamente, riconoscere un’affinità elettiva tra il corpus islamico e l’attuale utopismo medieval-reazionario del fondamentalismo islamico, non significa che l’Islam storico fosse fondamentalista – non lo era – o che i musulmani siano destinati al fondamentalismo qualsiasi siano le condizioni storiche.

Comunque, nel Cristianesimo (originario) e nell’Islam (che aderisce alla lettera della dottrina), questa consapevolezza è un indizio per la comprensione degli usi diversi di ogni uso storico di ogni religione come bandiera di protesta. Ci permette di capire il motivo per cui la teologia della liberazione ha potuto diventare così importante per la sinistra in America Latina, mentre tutti i tentativi di produrre una versione islamica d essa sono rimasti marginali. Ci aiuta anche a capire perché il fondamentalismo islamico è riuscito a diventare così importante tra le comunità musulmane e perché è arrivato a sostituirsi la sinistra con tanto successo nell’ incarnare il rifiuto del domino dell’Occidente, anche se in termini reazionari.

L’impressione orientalista ufficiale, ora estesa, che considera che il fondamentalismo islamico sia la “naturale” inclinazione astorica dei Musulmani, è una sciocchezza e trascura i fatti storici. Pochi decenni fa, uno dei più grandi partici comunisti del mondo – ufficialmente con una dottrina atea – esisteva nel paese con la più vasta popolazione musulmana del mondo – l’Indonesia. (Il partito fu violentemente stroncato dalle forze armate indonesiane appoggiate dagli Stati Uniti dopo il 1965). Alla fine degli anni ’50 e nei primi anni ’60, la principale organizzazione politica in Iraq, specialmente tra gli Sciiti nel sud del paese, non era guidata da un ecclesiastico, ma dal Partito Comunista. Nasser che ha presieduto la svolta socialista dell’Egitto nel 1961, era un credente sincero e un musulmano praticante (anche se è diventò un acerrimo nemico dei fondamentalisti). La sua influenza quando era all’apice del suo prestigio nei paesi arabi e oltre, rimane ineguagliata.

E’ necessario sistemare ogni uso dell’Islam, come per ogni altra religione, nelle concrete condizioni sociali e politiche in cui avviene. E’ anche necessario fare una chiara distinzione tra l’Islam come strumento ideologico di dominio di classe e genere e l’Islam come segno di identità di una minoranza oppressa – per esempio nei paesi occidentali. La lotta ideologica contro il fondamentalismo islamico – le sue idee sociali, morali e politiche, non i principi fondamentali dell’Islam come religione – dovrebbero rimanere una priorità per i progressisti tra le comunità musulmane. Ma c’è poco da obiettare riguardo alle idee sociali, morali e politiche della teologia cristiana della liberazione –tranne che la sua adesione al tabù cristiano sull’aborto – perfino da parte degli atei irriducibili della sinistra radicale.

4 luglio 2015

(1) Questo deriva da un concetto elaborato da Max Weber. Vedere Michael Löwy, The War of Gods: Religion and Politics in Latin America [La Guerra degli dei: religione e politica in America Latina], Verso, London/New York, 1996.

(2) “Comunistico” è usato qui per distinguere questo utopismo dalle dottrine comuniste formulate all’avvento del capitalismo industriale.

(3) Friedrich Engels, The Peasant War in Germany (1850) [La Guerra Contadina in Germania], in Marx-Engels Collected Works, [ Antologia di scritti di Marx ed Engels], vol 10, Lawrence and Wishart, London, pp 397-482.

Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

Originale: Le Monde Diplomatique

Traduzione di Maria Chiara Starace

LA FINE DELL’IMPERO?

La fine dell’impero? La violenza e l’egemonia degli Stati Uniti in Medio Oriente

La settimana scorsa, la rivista Foreign Policy, ha pubblicato un pezzo di Robert Kaplan che sosteneva che un brusco incremento di violenza nel mondo arabo era il risultato di un declino del ‘ruolo di grande potere dell’America nell’organizzare e stabilizzare la regione’, e anche un’eredità dell’imperialismo ottomano ed europeo. “L’imperialismo forse è passato di moda,” diceva il sottotitolo, “ma la storia dimostra che l’unica altra opzione è il tipo di caos che vediamo oggi.’” Queste dell’imperialismo statunitense sono comuni nelle discussioni ordinarie della nascita dell’ ISIS. Analogamente, all’inizio del 2014 il New York Times attribuiva la violenza in Iraq, Libano e Siria “alla comparsa di un Medio Oriente post–americano in cui nessun ha il potere o la volontà di contenere gli odi settari della regione.”

Il potere degli Stati Uniti in Medio Oriente è declinato, e se è così, questo fatto è responsabile dell’aumento della violenza? Tom Mills, di New Left Project, ha parlato con Gilbert Achcar , professore di Studi sullo sviluppo e di Relazioni internazionali alla London’s School di Studi Orientali e Africani (SOAS), dell’Università di Londra e autore, tra altri libri, di: The People Want: A Radical Exploration of the Arab Uprising [Il popolo lo vuole: un’indagine radicale dell’insurrezione araba].

Il controllo degli Stati Uniti sul Medio Oriente si sta indebolendo?

Sì, certamente, è da anni che si va indebolendo. Il picco dell’influenza degli Stati Uniti nella regione è stato raggiunto subito dopo la prima guerra degli Stati Uniti in Iraq nel 1991. Sullo sfondo della crisi terminale dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno colto l’opportunità fornita dall’invasione del Kuwait condotta da Saddam Hussein, per organizzare un massiccio dispiegamento militare nel 1990 e hanno dato il via a una guerra su larga scala nella regione. Anche il regime siriano, che fino ad allora era stato per la maggior parte un cliente dell’Unione Sovietica, aveva preso parte alla guerra condotta dagli Stati Uniti contro l’Iraq. A proposito, questo è un episodio che coloro che credono che il regime siriano sia “anti-imperialista”, tendono a dimenticare – proprio come dimenticano i suoi ripetuti attacchi violenti alle forze di sinistra e palestinesi e ai campi profughi in Libano durante la guerra 1975-1990.

Il picco dell’egemonia statunitense in Medio Oriente è stato quindi raggiunto all’inizio degli anni ’90. Bush senior e la sua amministrazione che governava in quel momento, hanno tentato di consolidarlo trattandolo per quello che era, ed è ancora considerato una fonte importante di tensione per gli interessi degli Stati Uniti nella regione: il conflitto Israelo-Palestinese. Per questo hanno avviato il cosiddetto “processo di pace” che è iniziato a Madrid, Spagna, nell’autunno del 1991. E’ stato poi portato avanti dall’amministrazione Clinton con gli accordi di Oslo tra l’OLP e Israele, firmati a Washington nel settembre 1993.

Tuttavia, ci sono state due importanti debolezze in questa configurazione. Un ostacolo percepito per il completamento dell’egemonia statunitense era l’Iran. L’altro, malgrado la guerra del 1991 era l’Iraq, perché gli Stati Uniti non erano stati in una posizione di invadere e occupare l’intero paese, compresa la sua capitale, e non avevano un’alternativa immediata a Saddam Hussein. L’hanno quindi lasciato al potere, permettendogli, subito dopo al fine del loro attacco nello stesso anno 1991, di schiacciare la ribellione che si stava svolgendo nell’Iraq meridionale. Questa insurrezione è stata considerata come una ribellione sciita che perciò poteva essere sfruttata dall’Iran. In quel periodo Washington ha anche permesso a Saddam Hussein di schiacciare l’insorgenza curda nell’Iraq settentrionale. E così gli Stati Uniti hanno lasciato al potere Saddam Hussein, anche se sotto in un regime di embargo criminale che era inteso a tenerlo sotto controllo e a impedirgli di ricostruire le sue forze militari.

Durante la presidenza Clinton, la CIA ha tentato più di una volta, per mezzo di operazioni segrete, di favorire un’alternativa a Saddam Hussein, ma ha fallito miseramente. Negli Stati Uniti è iniziata a salire la pressione per una nuova e più completa invasione dell’Iraq, una pressione capeggiata dalle stesse persone che in seguito sarebbero entrate nell’amministrazione di George W.Bush – persone coinvolte nel Progetto per il Nuovo Secolo Americano (Project for the New American Century). Il resto della storia è noto: gli attacchi dell’11 settembre hanno fornito un pretesto che è stato sfruttato dall’amministrazione Bush con bugie sui collegamenti tra Iraq e Al-Qaida e sulle armi di distruzione di massa, allo scopo di invadere e occupare l’Iraq nel 2003. Questo è andato avanti malgrado gli avvertimenti dei consiglieri all’interno degli establishment statunitense e britannico.

L’arroganza dell’amministrazione di George W. Bush ha provocato conseguenze negative non volute. L’invasione e l’occupazione – che erano intese come parte di uno schema per stabilire un pieno controllo senza alcun impedimento sulla regione del Golfo a causa della sua importanza strategica dovuta al petrolio – gli si è ritorta completamente contro. Dopo l’invasione, a partire del 2004, l’occupazione è diventata un problema importante per gli Stati Uniti. Nel 2006, il paese è esploso in una guerra civile tra sette religiose che gli Stati Uniti non sono stati in grado di controllare.

Il 2004, quindi, è il momento in cui l’influenza degli Stati Uniti ha cominciato a declinare?

Sì, il punto di svolta è stato il massacro di Fallujah perpetrato dalle truppe statunitensi, che hanno messo in grado Al-Qaida e altri elementi dell’insorgenza sunnita di reclutare un sacco di gente. Ha segnalato un chiaro cambiamento nelle aree sunnite arabe in Iraq contro gli Stati Uniti, che ha portato a una situazione disastrosa per Washington nel 2006. E’ stato allora che l’amministrazione Bush è stata costretta a cambiare la sua strategia sotto la pressione dell’establishment della politica estera degli Stati Uniti, appoggiato dal Congresso. La Commissione Baker-Hamilton, una commissione congressuale bipartisan, ha ideato una nuova strategia, il cosiddetto surge [la nuova strategia Usa basata sull’aumento delle truppe NdT]. Alla luce di questa nuova strategia, gli occupanti statunitensi si sono comprati le tribù arabe sunnite, rimuovendo la maggior parte della popolazione a cui Al-Qaida e gruppi analoghi attingevano.

E sono davvero riusciti quasi a sradicare Al-Qaida dall’Iraq nel 2008, preparando il terreno per il ritiro degli Stati Uniti da quel paese, dato che la sua occupazione era diventata molto impopolare in patria.

Obama era stato eletto con una promessa di ritiro dall’Iraq, completato alla fine del 2011, anche se nessuno degli obiettivi chiave era stato raggiunto. Il principale obiettivo non era la deposizione di Saddam Hussein – questa era la parte facile; era il controllo a lungo termine sull’Iraq e il suo petrolio. E questo non è stato realizzato. Il governo di Nouri al-Maliki, instaurato nel 2006, sotto Bush, è risultato essere altrettanto, se non più subordinato, a Teheran che a Washington. E con la partenza delle truppe nel 2011, l’equilibrio volgeva decisamente favore di Teheran. Riassumendo, gli Stati Uniti hanno lasciato l’Iraq sotto il controllo del suo principale nemico nella regione. E’ stato davvero un fallimento avvilente: ha screditato il potere degli Stati Uniti nell’intera regione e ha incoraggiato dovunque gli oppositori dell’egemonia statunitense. Nel 2011, perciò, l’influenza degli Stati Uniti nella regione ha raggiunto il suo punto più basso, dato che il ritiro delle truppe dall’Iraq è stato portato avanti mentre si svolgeva l’insurrezione Araba, che ha detronizzato alleati fondamentali degli Stati Uniti, specialmente Mubarak in Egitto. Gli Stati Uniti non si sono ancora ripresi da questo punto di massimo declino. La loro breve avventura in Libia, “con la guida dalle retrovie” si è conclusa con un altro fiasco macroscopico che ha soltanto aggravato questo indebolimento.

E questo ci porta alla domanda: questo declino dell’influenza statunitense ha provocato maggiore violenza nella regione, come sostengono molti commentatori?

La violenza nella regione non è nuova, ahimè. Semmai, il picco della violenza ha coinciso con il picco dell’egemonia degli Stati Uniti. Pensate alla violenza dell’attacco statunitense all’Iraq nel 1991, che ha riportato indietro quel paese all’Età della pietra, secondo quanto dice un inviato speciale dell’ONU. Pensate al devastante embargo imposto all’Iraq in seguito e che ha causato la morte di 90.000 persone , secondo le stime dell’ONU, ogni anno per 12 anni, mentre il paese era sotto bombardamenti quasi continui. E poi pensate al cambiamento dopo l’11 settembre , all’invasione e all’occupazione dell’Iraq. L’idea che sia stato il declino dell’influenza degli Stati Uniti che ha provocato l’aumento della violenza, apparirà allora quello che è realmente: un’affermazione completamente assurda.

Il fatto è che gli Stati Uniti sono principalmente responsabili dei livelli di violenza raggiunti in Medio Oriente. Questo non vuol dire che gli Stati Uniti siano i soli responsabili, né per scagionare i regimi arabi, neanche per trascurare il fallimento dei movimenti progressisti nella regione di fornire un’alternativa. La principale responsabilità, però, è sicuramente quella degli Stati Uniti.

Prima di tutto, gli Stati Uniti hanno coltivato regimi dispotici nella regione per diversi decenni, seminando perciò i semi della violenza; e hanno coltivato il tipo più estremo di fondamentalismo tramite la loro alleanza con il regno saudita, di gran lunga lo stato più repressivo, reazionario, antidemocratico e anti-femminista della terra. Gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo importante nello sconfiggere la radicalizzazione progressista, laica, nazionalista araba che era stata guidata dall’Egitto di Nasser, incoraggiando il fondamentalismo islamico come importante arma contro di essa.

Washington è anche responsabile di altissimi livelli di violenza tramite il suo appoggio incondizionato allo Stato di Israele. Infatti una svolta decisiva dei livelli di violenza nella regione è stata l’invasione del Libano condotta da Israele nel 1982. Potremmo continuare. In molti modi, perciò, gli Stati Uniti hanno sparso semi di violenza nella regione – una violenza alla quale hanno contribuito direttamente, con l’invasione e l’occupazione dell’Iraq nel 2003, la tortura ad Abu Ghraib e i tentativi di usare le divisioni tra sette religiose per controllare il paese, creando così le condizioni per tutto quello a cui assistiamo oggi.

Tutto questo ha creato il contesto più diretto per la nascita dell’ISIS. La diffusione del “marchio” più reazionario del fondamentalismo islamico e il livello di violenza in Iraq durante l’occupazione anglo-statunitense: questi sono i due principali fattori alle radici dell’ISIS. C’è però anche il fatto che gli Stati Uniti si sono rifiutati di armare la convenzionale opposizione siriana dato che è emersa dopo i primi mesi dell’insurrezione quando questa ha cominciato a trasformarsi in guerra civile, in risposta all’attacco omicida del regime, pienamente appoggiato dall’Iran e dalla Russia. Gli Stati Uniti si sono rifiutati di fornire all’iniziale opposizione siriana le armi di difesa che questa richiedeva, soprattutto armi antiaeree, e ha anche proibito ai suoi alleati nella regione di fornirle tali armi. Questo ha provocato ciò che vediamo adesso: un regime estremamente spietato che aveva totalmente mano libera di usare la sua potenza aerea nel modo più devastante e crudele contro la popolazione, oltre a una gamma completa di armi letali, comprese le armi chimiche. La cosiddetta ‘linea rossa’ di Obama quando si trattava di armi chimiche era usata soltanto per rassicurare Israele. Washington ha, però, soltanto contemplato la Siria che veniva distrutta, creandovi la netta sensazione che gli Stati Uniti e Israele sono entrambi molto contenti di vedere la Siria fatta a pezzi. La violenza del regime siriano supportato dall’Iran, è stato il più importante motivo della crescita dell’ISIS in Siria, ed è stata controbilanciata dalla politica settaria anti-sunnita del governo di Maliki in Iraq, appoggiato dall’Iran. La violenza sconvolgente genera violenza sconvolgente tramite un aumento fino agli estremi che porta a quello che alcuni anni fa ho chiamato “lo scontro di barbarie”, uno scontro in cui gli Stati Uniti sono i principali colpevoli e protagonisti.

Tratto da: www.znetitaly.altervista.org/

Originale: New Left Project

Traduzione di Maria Chiara Starace

SVILUPPI NEL MEDIORIENTE

L’assalto a Gaza e gli sviluppi nella regione
Di Gilbert Achcar e Brian Ashley della rivista sudafricana Amandla! nell’agosto 2014.

Amandla!: Quali sono, secondo lei, i fattori che hanno dato origine al più recente assalto a Gaza e perché è successo in questo periodo? Perché ha assunto questa forma eccezionalmente brutale?Gilbert Achcar: L’intensificarsi della brutalità non è una cosa nuova: si accompagna alla lunga deriva della società e della linea di condotta israeliana verso l’estrema destra. Il partito Likud, la forza principale nell’estrema destra sionista, è andato al potere nel1977e ha portato, pochi anni dopo, nel 1982, alla criminale invasione del Libano, culminata nel massacro di Sabra e Shatila – la più sanguinaria delle guerre israeliane fino a quel momento. E stata superata allora una soglia di orrore e brutalità contro le popolazioni civili. Questa però è stata soppiantata per intensità di distruzione e di violenza dall’attacco del 2006 contro il Libano. E poi abbiamo avuto l’attacco a Gaza durato dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009, che è stato ugualmente brutale e ancora più sanguinario, contro i civili, data la densità di popolazione a Gaza e la loro impossibilità di scappare dalla Striscia.L’assalto più recente a Gaza si inserisce bene in questo modello in evoluzione di sempre crescente brutalità e violenza e anche di crescente disprezzo di Israele per l’opinione pubblica globale. Precedenti tentativi di conservare un’immagine di Israele “che cerca la pace” sono una vecchia storia; i governi israeliani adesso si sentono autorizzati a usare il linguaggio della forza brutale nell’età della cosiddetta Guerra al Terrore (WOT – War on Terror). Questa prospettiva del dopo 11 settembre, appoggiata dagli Stati Uniti, ha dato il via libera per un puro terrorismo di stato israeliano e per la brutalità di stato in nome della lotta al terrore.In quanto alla vera ragione dell’attuale assalto a Gaza, è stata l’esasperazione del governo di Netanyahu per la riconciliazione tra Hamas e Fatah e anche il fatto che tale riconciliazione è stata in realtà bene accolta, anche se non molto esplicitamente, dai governi occidentali, compresa Washington. Questa esasperazione del governo israeliano non è causata dal fatto che Hamas si stia “radicalizzando” in qualche modo, ma, al contrario, perché – a causa della svolta degli eventi in Egitto fin dal 2013 – ha dovuto “annacquare” la sua linea politica e fare un sacco di concessioni sulla strada della riconciliazione con l’Autorità Palestinese (AP) della Cisgiordania. La verità è che il governo di Israele si sente molto più a proprio agio con un panorama palestinese diviso e con un Hamas moderato. Fin dall’accordo di Oslo del 1993, ilvero gioco dell’estrema destra nel governo israeliano è stato sempre quello di indebolire i palestinesi “moderati”, da Arafat ad Abbas, e di spingere verso una radicalizzazione che beneficia Hamas – quest’ultimo è il “nemico preferito” fino a quando può essere facilmente demonizzato, dato che rende la loro relazione con gli Stati Uniti e l’Europa molto più consensuale e riduce la pressione occidentale su di loro. Ricordate che l’assalto più brutale a Gaza/Hamas è arrivato dopo che il movimento islamico è passato dagli attacchi suicidi all’azione politica, compresa la sua partecipazione alle elezioni del 2006, dopo averle rifiutate per molti anni in quanto illegittime rispetto alla lotta armata.

Amandla!: Quali sarebbero stati gli obiettivi che avrebbero fatto in modo che la brutalità dell’assalto avrebbe spinto sicuramente tutti i palestinesi a stare più vicini?
GA: Il suo scopo è stato di provocare una rinnovata radicalizzazione di Hamas creando ancora un divario tra il movimento islamico e l’Autorità Palestinese. In effetti la distanza tra i due all’inizio è aumentata con l’assalto – e al riguardo questo sembrava che per un po’ stesse raggiungendo il suo scopo. Però il risentimento che ha creato tra tutti i palestinesi, è tale che l’Autorità Palestinese ha dovuto esprimere solidarietà a Gaza guidat da Hamas. Il governo israeliano se ne infischia dei sentimenti dei palestinesi. Essenzialmente voleva silurare la campagna per le iniziative di pace da parte palestinese: calcolava che, di fronte alla brutalità israeliana, Hamas avrebbe considerato che non poteva più andare avanti con moderazione e compromessi, come avevano fatto proprio prima del recente assalto. Per ironia, il governo israeliano teme le iniziative di pace palestinesi più di quanto tema i razzi lanciati da Gaza: quello che più di tutto non sopportano sono tutte le mosse palestinesi che possono essere ben accette ai governi occidentali e appoggiate da Washington, anche se tiepidamente.
Per i loro scopi, possono cogliere qualsiasi pretesto, come hanno fatto nel caso attuale dei tre adolescenti israeliani sequestrati e assassinati in Cisgiordania. Hanno immediatamente accusato Hamas senza nessuna prova, esattamente come nel 2001 l’amministrazione Bush aveva accusato l’Iraq di essere dietro all’11 settembre: un pretesto per obiettivi premeditati. Hanno colto il triplo assassinio come un’occasione di arrestare di nuovo un gran numero di quei prigionieri politici palestinesi che erano stati rilasciati in cambio del soldato israeliano Gilad Shalit tenuto come prigioniero di guerra a Gaza. Questa è stata ovviamente una campagna premeditata di arresto: il governo israeliano aveva rilasciato questi uomini con grande riluttanza e stava aspettando il primo pretesto per arrestarli di nuovo per dire ai palestinesi che, qualsiasi cosa facciano in questo senso, è inutile perché Israele finirà per ritirare qualsiasi concessione che possa avere fatto in seguito a delle pressioni.
E’ quindi così che è cominciata. E poi il governo di Netanyahu è passato al pretesto del lancio dei razzi, dopo aver di proposito esacerbato le tensioni con il suo brutale comportamento in Cisgiordania con il pretesto di cercare i tre adolescenti. Questa brutalità ha naturalmente portato a reazioni di rabbia dei palestinesi. Israele ha preso tale rabbia come pretesto per lanciare il suo brutale attacco del tutto “sproporzionato” senza alcun tipo di inibizione morale – a parte gli avvisi del tutto ipocriti fatti 6 minuti prima di distruggere e far crollare gli edifici civili su chi vi abitava, nel cuore della notte!

Amandla!:Israele ha raggiunto qualcuno dei suoi obiettivi con questo assalto? Ne viene fuori più debole o più forte? E che dire delle vittime dell’esercito israeliano?
GA: Gli israeliani hanno sofferto perdite perché hanno voluto dimostrare che erano disposti a entrare a Gaza per ripristinare la loro ”credibilità” in quanto potenza militare. Limitarsi a colpire da lontano sarebbe stato considerato un segno di debolezza: ognuno sa che non c’è paragone tra i razzi fatti a mano che escono da Gaza e la formidabile potenza di fuoco di Israele. Il governo israeliano aveva bisogno di ripristinare la perduta “credibilità” coinvolgendo le truppe sul terreno, ma questo ha un prezzo alto perché non si possono impegnare truppe in un contesto urbano ostile senza rischiare di avere delle vittime.
In realtà la cosa peggiore per la parte israeliana, di gran lunga peggiore che soffrire delle perdite, è avere soldati presi come prigionieri di guerra (quelli che chiamano “ostaggi”). Hanno quindi escogitato una nuova strategia per minimizzare quel rischio: ogni volta che un soldato israeliano è sotto la minaccia di essere fatto prigioniero, attaccano in forze con l’alto rischio di uccidere il prigioniero. Preferiscono quindi uccidere i loro soldati che vederli presi prigionieri per un successivo scambio con prigionieri politici palestinesi. Quella di Israele è la politica della pura forza. Non hanno alcun desiderio di pace. Vogliono soltanto schiacciare i palestinesi con la loro superiorità militare, vogliono terrorizzarli: si comportano come uno stato terrorista nell’intero e pieno significato della parola. Credono soltanto nel dominio militare, nella completa supremazia militare.

Amandla!:Con questo assalto, gli israeliani sono riusciti abbastanza a terrorizzare la gente, ma non hanno sottomesso nessuno, e hanno provocato un enorme reazione di protesta a livello internazionale. Possiamo quindi dire che questa missione ha provocato l’effetto contrario?
GA: Non nelle menti del blocco di potere di estrema destra che attualmente governa Israele. Questo potrebbe essere considerato come un problema importante dalla vecchia generazione di sionisti. Però quello che si va svolgendo sotto forma di guerra al terrore è l’idea che combattere un nemico orribile giustifica il ricorso a tutti i generi di orribili mezzi. E l’attuale governo israeliano di estrema destra è l’incarnazione estrema di questa logica.
Gli israeliani semplicemente non si preoccupano dell’opinione pubblica in generale. Naturalmente quello di cui si preoccuperebbero è l’opinione pubblica degli Stati Uniti dato che influenza il comportamento del governo statunitense, ma, in quel senso, Netanyahu si è comportato apertamente come un giocatore scaltro nella politica statunitense, cercando in modo molto diretto di sfruttare le divisioni politiche all’interno degli Stati Uniti, “arruffianandosi” la destra repubblicana, ecc. Ed è stato molto efficace in questo gioco, ancora più facilmente in quanto Obama è davvero il maggior “smidollato” specialmente in rapporto a Israele. E Hillary Clinton che è estremamente probabile sarà candidata nel 2016 con un’alta possibilità di diventare il prossimo presidente, ha di recente pienamente avallato la politica di Netanyahu. Per lui questo è ciò che conta. Non gli importa dell’opinione pubblica, delle petizioni degli intellettuali e simili.

Amandla!: Sembra che più il governo si comporta in modo brutale, da irriducibile, e più di destra, più forte è l’appoggio degli israeliani. Sembra che praticamente non ci sia alcuna voce di opposizione.
GA: Sì, in effetti anche questo è un lato spaventoso della storia. E’ di nuovo la nevrosi della Guerra al Terrore, in questo caso la demonizzazione di Hamas e lo stupido argomento dei razzi da Gaza. Molti di quegli israeliani che partecipavano alle dimostrazioni nel 1982, ora appoggiano la guerra fatta dal loro governo in nome dell’opposizione al “terrore”. Il fattore Hamas è molto importante in questo senso. Sharon aveva fatto ogni cosa che poteva per indebolire, screditare e distruggere Yasser Arafat, mettendo in grado Hamas di costruire di consolidare il sostegno tra i palestinesi. Ha provocato i palestinesi deliberatamente e ripetutamente, sapendo che questo avrebbe portato a restrizioni specialmente da parte di gruppi come Hamas. Poi ogni volta lo avrebbe preso come pretesto per aumentare l’oppressione nei confronti dei palestinesi e alimentare il ciclo di violenza che avvantaggia sia Hamas, dalla parte palestinese che lui stesso, cioè Ariel Sharon, dalla parte israeliana. Queste dialettiche di estremi promosse dall’estrema destra palestinese sono state continue. Abbas è si è spinto molto lontano nell’arrendersi alle condizioni di Stati Uniti/Israele, tuttavia gli israeliani continuano a screditarlo perché, come già detto, il governo di Israele non vuole nessun “partner per la pace”, semplicemente non vuole la pace. Punto.

Amandla!:Quale impatto ha avuto in generale il conflitto Israele/Palestina sulla situazione politica in Medio Oriente?
GA: Fondamentalmente è un fattore tra altri fattori di radicalizzazione nel mondo arabo. Il risentimento popolare si sta accumulando rapidamente davanti allo svolgersi di molteplici tragedie, specialmente la tragedia in Siria che fa sembrare piccole tutte le altre. La verità è che perfino durante l’assalto a Gaza ci sono state più persone uccise ogni giorno in Siria che a Gaza. E il fatto che si permetta che questo continui ha creato un risentimento così profondo tra i siriani, che ha molto facilitato l’ascesa dell’ISIS, un’organizzazione fanatica ultra fondamentalista, paragonata alla quale il ramo locale di Al-Qaida ora sembra moderato.

Amandla!:Questo risentimento e questa radicalizzazione porteranno sempre all’aumento dei fondamentalisti piuttosto che di forze laiche democratiche che vengono alla ribalta?
GA: La radicalizzazione e il risentimento non portano di per sé allo sviluppo di questa o di quella forza; dipende tutto dai fattori soggettivi esistenti che possono interagire con i fattori obiettivi di radicalizzazione. Nel 2011 questa regione si è imbarcata in quello che si chiama un processo rivoluzionario a lungo termine che andrà avanti per decenni. Un processo rivoluzionario non è mai lineare: non è una serie di vittorie successive fino a quando non si vede la bandiera rossa sventolare su qualche palazzo. Può diventare molto difficile e attraversare terribili momenti controrivoluzionari. La tendenza dominante nella regione araba attualmente è controrivoluzionaria, specialmente con gli sviluppi in Siria (la capacità di resistenza del regime di Assad) e in Egitto (Sisi) e con la diffusione dell’ISIS. Questa, però, è soltanto una fase in un processo a lungo termine.
Questa fase è stata resa possibile dal fallimento delle potenziali forze di destra presenti nella regione di agire in modo indipendente nel costruire un’alternativa a entrambi i vecchi regimi e alle forze islamiche. I vecchi regimi e l’opposizione islamica fondamentalista sono entrambe forze contro-rivoluzionarie. Se non ci sarà la comparsa di un terzo polo, una forza popolare progressista in grado di costituire un’alternativa, rimarremo bloccati in questa duplicità e nella dialettica di spostarci all’estremità su entrambe le parti. Il vecchi regime diventa più cattivo (Sisi in realtà è peggiore di Mubarak) e l’opposizione fondamentalista islamica diventa più cattiva (sicuramente l’ISIS è molto peggiore di qualsiasi cosa rappresentava la Fratellanza Musulmana). Quindi quello che fondamentalmente abbiamo è una dialettica di estremi di radicalizzazione da entrambe le parti di una duplicità controrivoluzionaria in assenza di un’alternativa popolare progressista.

Amandla!:Non c’era un’alternativa quando le masse di gente in Tunisia e in Egitto sono scese nelle strade come movimento democratico, laico?
GA: La potenzialità c’è ancora – non soltanto teorica, ma reale. Sicuramente varia da paese a paese. In Tunisia è impersonata dal centro sindacale, l’UGTT Unione Generale Tunisina del Lavoro) che è di gran lunga la forza politica e sociale organizzata del paese più importante del paese. Il problema qui è un problema di strategia.
La stessa cosa vale per l’Egitto: c’è un grosso e importante potenziale che abbiamo intravisto nel 2012 quando il candidato nasseriano nazionalista di sinistra è arrivato terzo alle elezioni presidenziali con quasi 5 milioni di voti. Questo ha dimostrato un enorme potenziale, paragonabile per dimensioni a entrambi i campi della controrivoluzione rappresentati dal vecchio regime, da una parte, e dalla Fratellanza Musulmana dall’altra. E tuttavia questa occasione è stata sprecata dai nasseriani di sinistra egiziani quando sono passati dalla loro alleanza del 2011 con la Fratellanza Musulmana a un’alleanza con Sisi nel 2013. Però il potenziale esiste ancora e i giovani sono ancora radicalizzati; non hanno votato per Sisi, e questo è di importanza cruciale. La partecipazione alle recenti elezioni presidenziali è stata così scarsa che le hanno dovute prolungare di un giorno per mobilitare probabili elettori, nello sforzo di dare credibilità al grottesco 95% di Sisi.
In Siria, i locali Comitati di coordinamento che hanno guidato l’insurrezione nella sua prima fase, hanno rappresentato un potenziale progressista molto importante che però si è dissolto quando questi stessi comitati hanno riconosciuto il cosiddetto Consiglio Nazionale, istituito a Istanbul e dominato dall’interno dalla Fratellanza Musulmana Siriana e dall’esterno da Qatar e Turchia. Da allora la situazione siriana si trova presa tra un’opposizione ufficiale inefficiente e corrotta e un regime molto brutale; questo ha provocato la comparsa di un’opposizione islamica più radicale rappresentata da una miriade di gruppi, il più importante dei quali è ora l’ISIS.
Così, le aspirazioni della rivoluzione siriana sono state schiacciate tra questi due poli controrivoluzionari – da una parte il regime e dall’altra i fondamentalisti islamici fanatici. Ma il potenziale è ancora lì, con diecine di migliaia di persone, specialmente giovani, che si oppongono al regime da una prospettiva progressista. Il regime ha arrestato migliaia di quei giovani progressisti che stavano organizzando l’insurrezione nella sua fase iniziale mentre allo stesso tempo rilasciava i jihadisti detenuti in carcere. Lo stesso regime siriano ha incoraggiato con ogni mezzo possibile la comparsa e la predominanza della tendenza della linea dura islamica nell’opposizione. Questo sta bene al regime, esattamente come una radicalizzazione Islamica tra i palestinesi sta bene all’estrema destra di Israele. Stanno entrambi facendo lo stesso gioco di potenziare i loro “nemici preferiti”.

Amandla!: E una parte sta avendo ora la meglio nel conflitto?
GA: Due anni fa Assad era sul punto di essere sconfitto, e questo avveniva quando l’Iran ha deciso di andare oltre il sostegno materiale e di intervenire massicciamente sul terreno inviano delle truppe per appoggiare il regime. A causa del fattore linguistico, hanno mandato truppe arabe dai satelliti settari nella regione: Hezbollah dal Libano e Asa’ib Ahl al-Haq dall’Iraq. Queste forze hanno aiutato il regime a lanciare una controffensiva che ha avuto successo e a riguadagnare il terreno che aveva perduto fino ad allora. Tuttavia il fenomeno ISIS sta creando dei limiti all’Iran e ai suoi alleati che ora devono combattere su due fronti, sia in Siria che in Iraq. Oltre a combattere l’opposizione tradizionale siriana, devono ora contrastare la diffusione dell’ISIS in Iraq che è un’ importante roccaforte di influenza iraniana nella regione. La dispersione delle forze appoggiate dall’Iran ha provocato l’insorgere di segni di sfinimento all’interno del regime siriano la cui affidabile base militare settaria è relativamente ridotta.
Quindi, malgrado tutte le apparenze, il regime siriano sta attualmente incontrando di nuovo delle difficoltà, ma sta invocando più che mai l’argomento della Guerra al Terrore per allontanare la prospettiva di un accresciuto appoggio dell’Occidente all’opposizione tradizionale. Fondamentalmente, il regime siriano gareggia con l’opposizione tradizionale nel cercare di convincere le potenze occidentali che sono i loro migliori alleati nella Guerra al Terrore! Si possono vedere qui delle analogie con il regime siriano, il regime egiziano e il governo di Israele. Parlano tutti la stessa lingua, quella della Guerra al Terrore, ed è in nome di questa guerra che chiedono di avere carta bianca per tutti i tipi di violenza. Dicono a Washington: “Siamo i vostri migliori amici, appoggiarci sarà nel vostro miglior interesse.”

Amandla!: L’atteggiamento degli Stati Uniti verso la comparsa dell’ISIS è di contenimento piuttosto che di sradicamento?
GA: La sua scelta dei termini è corretta. Finora quello che ha prevalso è stato il contenimento: gli Stati Uniti sono intervenuti per fermare l’avanzata dell’ISIS, ma non vogliono andare oltre il contenimento prima di raggiungere un obiettivo politico. Washington ha considerato questa esplosione dell’ISIS come una leva per liberarsi di Maliki e di ridurre l’influenza dell’Iran in Iraq. Maliqi era in effetti diventato sempre più dipendente dall’Iran, e le tensioni tra lui e Washington erano aumentate costantemente fino dalla fine della presenza militare diretta in Iraq nel 2011. I rapporti di Maliki con gli Stati Uniti si sono deteriorate a tal punto che è andato a Mosca per discutere di un accordo riguardante le armi. Tra parentesi, Sisi sta facendola stessa cosa, come gesto di protesta contro la riluttanza degli Stati Uniti ad appoggiarlo pienamente. Si può quindi vedere quanto terreno Washington stia perdendo nella regione. Tuttavia, dato che l’ISIS è in Iraq, lo stato iracheno ha bisogno degli Stati Uniti. Dipende dal sostegno militare degli Stati Uniti, perché il suo esercito era stato ricostruito con gli armamenti degli Stati Uniti dopo l’invasione del 2003, e un sacco di questi sono caduti nelle mani dell’ISIS. Gli Stati Uniti hanno posto condizioni per accrescere il loro appoggio allo stato iracheno, a iniziare dalla partenza di Maliki. Hanno avuto quello che volevano: Malki si è dimesso ed è stato sostituito.
Washington sta ora tentando di ripetere quello che ha fatto nel 2006 dopo aver perduto terreno in confronto di al-Qaeda. A quel punto gli Stati Uniti hanno “comprato” le tribù sunnite, proprio i gruppi tra i quali Al-Qaida si stava sviluppando. Washington è perfino riuscita a trasformare le tribù sunnite in alleati degli Stati Uniti, riuscendo così praticamente a sradicare Al-Qaida in Iraq. Quello che vediamo oggi è una replica della stessa strategia: le tribù sunnite sono state completamente alienate dall’atteggiamento settario di Maliki, appoggiato dall’Iran. Si è quindi accumulato molto risentimento tra di loro perché si erano allineati con l’ISIS quando ha fatto irruzione. Il problema è che non è l’ISIS da sola che ha preso il controllo di vaste aree dell’Iraq, ma l’ISIS alleata con le forze arabo-sunnite: tribù, avanzi del partito Baath di Saddam Hussein, e altri. Questo è quanto è avvenuto in Iraq in precedenza, dopo il massacro di Falluja nel 2004, quando i Sunniti sono diventati così emarginati che hanno fatto entrare Al-Qaida, e li hanno appoggiati fino a quando Washington ha cambiato la sua strategia. Vediamo ora una replica dello stesso scenario, con le tribù sunnite che questa volta hanno fatto entrare l’ISIS e con Washington che vuole rinnovare la strategia dell’alleanza con loro. Per questo hanno avuto bisogno di liberarsi di Maliki. Questo scopo ora è stato raggiunto e vediamo come si svolgerà la prossima fase.
8 settembre 2014
Da: www.znetitaly.org
Traduzione di Maria Chiara Starace

USCIRE DALLE LOGICHE BINARIE

di Gilbert Achcar Pubblichiamo la traduzione di un passo dell’intervento tenuto presso l’Università di Paris- Ouest Nanterre nel febbraio 2014. La relazione completa “Bilan et perspectives du soulèvament arabe” si può trovare nella nostra sezione Video

Questo processo rivoluzionario, deve far fronte ad una complessità molto particolare nel senso che deve affrontare in tutta la regione non una, ma due controrivoluzioni.
Due forme della controrivoluzione che hanno origine nel bastione della reazione regionale che è il Consiglio di Cooperazione del Golfo, ossia le monarchie petrolifere.

Quindi vi sono due controrivoluzioni: i vecchi regimi, l’ordine regionale che esisteva prima del 2011, che si difende, e il tentativo di recupero da parte integralista del processo rivoluzionario. Con scelte differenti fra le monarchie petrolifere: i sauditi sono essenzialmente al fianco dei vecchi regimi, il Qatar, vista l’alleanza con i Fratelli Musulmani, da molti anni, ha giocato la carta del recupero integralista del processo rivoluzionario. In tutti e due casi si tenta di preservare lo “Stato profondo”, per usare l’espressione in voga nella regione.

Con l’imperialismo occidentale, in particolare gli Stati Uniti che sono di gran lunga tra gli Stati occidentali la potenza dominante nella regione, che si muove tra le due possibilità: la conservazione finché possibile dei vecchi regimi, laddove è possibile, e il recupero del processo rivoluzionario per mezzo degli Emirati e del Qatar e quindi attraverso i Fratelli Musulmani. L’obiettivo e la finalità di tutto questo è di rinchiudere il processo rivoluzionario in una logica binaria che è in realtà una logica controrivoluzionaria.

Questa logica binaria è quella dell’opposizione tra la continuazione dei vecchi regimi e la deriva integralista del processo rivoluzionario. Questa logica è in atto anche presso una certa sinistra e un certo “antimperialismo” che io non esito a definire “il progressismo degli imbecilli”.

È una visione che ignora la questione sociale, la questione di classe e i differenti aspetti dell’emancipazione sociale, riducendo tutta la vicenda a questa logica binaria perché opponendosi all’imperialismo sostiene chiunque sembra essere nel mirino degli Stati Uniti, o in generale delle potenze occidentali. In passato vi sono stati casi di chi, in modo minoritario e marginale, a partire da questa “logica binaria” dell’antimperialismo ha potuto trovare delle qualità progressiste nei Fratelli Musulmani (ma questo è stato assai minoritario, mentre vi sono state più illusioni sull’Iran). Oggi vi è il fenomeno inverso: il sostegno ai vecchi regimi in nome dell’antimperialismo spesso intriso di islamofobia, in questo caso, perché si rappresenta la cospirazione imperialista riducendola a quello che io chiamo il “recupero integralista”. Ci sono stati ammiratori di Gheddafi, ci sono degli ammiratori di Bashar al Assad e degli ammiratori di Sissi e purtroppo una buona parte della sinistra egiziana si è avviata su questa strada assolutamente disastrosa.

Questa è una eredità di quello che era il “campismo” dei tempi dell’Unione Sovietica con chi crede che Putin è l’erede di Lenin e Stalin e che continua ad esserci qualcosa di antimperialista nella Russia attuale mentre, qualsiasi criterio si prenda per giudicare la natura sociale di questo regime, dal capitalismo selvaggio che si sviluppa e sul piano della natura politica (l’autoritarismo, il machismo, l’omofobia, etc.) per molti aspetti la Russia di oggi è uno degli Stati capitalistici fra i più reazionari.

Per concludere vorrei dire che pensare l’emancipazione presuppone pensarla al di là della questione imperialista. Definire il proprio atteggiamento non in base a quello dell’altro, quindi dell’imperialismo, ma in funzione della natura sociopolitica dei movimenti e dei compiti che si prefiggono e in base della natura delle forze impegnate nella lotta e in funzione degli obiettivi di emancipazione nella loro diversità. È essenziale uscire da questa logica binaria, campista, e nello spazio arabofono uscire dallo scontro binario che fa il gioco dell’imperialismo come catena definitiva del processo in corso. Uscire da questa logica binaria per creare una terza forza popolare, operaia, giovane, femminista, etc. che si collochi lontano dal vecchio regime (è assolutamente necessario) e dalle forze integraliste reazionarie che sono state create dagli stessi vecchi regimi. Solo a questa condizione il processo rivoluzionario, iniziato nel 2011, potrà arrivare a delle soluzioni all’altezza delle speranze che ha fatto nascere…

traduzione di Cinzia Nachira

ISRAELE RAFFORZA HAMAS

Intervista di Gilbert Achcar. Invece di indebolire Hamas, l’offensiva israeliana rafforza i suoi legami con la popolazione palestinese e rischia di provocare una spinta jihadista nella diaspora.

D.: Quali erano le condizioni in cui Hamas si trovava prima dell’offensiva israeliana?

R.: Hamas aveva un atteggiamento di disponibilità. Ciò si è concretizzato nella riconciliazione con l’Autorità Nazionale Palestinese e nell’accettazione di un governo di unità, mentre quest’ultimo non era paritario. Hamas realmente non vi era rappresentato e le posizioni assunte si allineavano con quelle di Mahmud Abbas (Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, ndr). Questo atteggiamento era motivato dalla precaria situazione del movimento, soprattutto dopo gli ultimi eventi in Egitto. Dopo il rovesciamento di Mohamed Morsi (l’ex presidente, islamista, ndr), il nuovo potere militare al governo è ostile a Hamas a causa dei suoi legami con i Fratelli Musulmani che hanno subito una repressione peggiore che sotto Mubarak.

D.: La posizione di Hamas favorevole all’opposizione in Siria, ha contribuito al suo isolamento dal momento che in questo modo il movimento palestinese si è trovato contro l’Iran che rappresentava un importante sostegno finanziario?

R.: Il regime siriano per Hamas non rappresenta granché, l’Iran è più importante. Vi è stato un netto raffreddamento dei rapporti, ma Hamas sta tentando una riconciliazione. La questione finanziaria è il vero motivo per cui Hamas ha raggiunto l’accordo con Ramallah (capitale amministrativa dell’Autorità Palestinese, ndr) e una delle conseguenze avrebbe dovuto essere il pagamento dei salari dei funzionari di Gaza. Israele ha bloccato tutto questo dimostrando la sua ferrea opposizione fin dall’inizio. L’offensiva israeliana, quindi, non è assolutamente una risposta ad una qualsiasi radicalizzazione dei palestinesi o di Hamas. Al contrario, è un’offensiva contro le concessioni fatte da Hamas e contro la riconciliazione palestinese.

D.: In effetti si ha l’impressione che Netanyahu abbia sfruttato l’uccisione dei tre adolescenti israeliani, il 12 giugno…

R.: Il governo Netanyahu ha colto questa occasione per dichiarare Hamas colpevole, senza averne la pur minima prova. L’obiettivo era quello di arrestare nuovamente gran parte dei militanti liberati nello scambio con il soldato Gilad Shalit (il soldato israeliano detenuto da Hamas e infine liberato in cambio di circa mille detenuti politici palestinesi nel 2011, ndr).

D.: Come accade spesso in simili circostanze, l’offensiva israeliana rafforzerà i rapporti tra Hamas e la popolazione di Gaza?

R.: Vi è del rancore accumulato contro Hamas, cosa che è perfettamente comprensibile. La popolazione attribuisce i propri problemi e la propria miseria alla presenza di Hamas soprattutto dopo il voltafaccia egiziano. Per la popolazione di Gaza l’Egitto è fondamentale. E sapere che i propri governanti sono la nuova bestia nera per il regime del Cairo non è sicuramente una cosa rassicurante. Ma al contrario, la popolazione di Gaza vede bene che l’offensiva israeliana è avvenuta nello stesso momento in cui Hamas dava inizio a quella svolta che tutti speravano. Ossia la riconciliazione e un cambiamento fondamentale, su una linea più moderata, per mettere fine all’asfissia che ormai veniva considerata da moltissimo tempo un destino ineluttabile.

D.: Alcuni media tendono ad confondere Hamas e la nebulosa islamista. Non sarebbe necessario ricordare che, nonostante la sua natura conservatrice e reazionaria, questo movimento, ha anche un radicamento reale nella storia palestinese recente?

R.: Sì, è la stessa differenza che esiste, per esempio, tra i Fratelli Musulmani in Egitto e Al Qaida o lo Stato Islamico (L’IS, movimento che è all’origine del califfato sul territorio siriano e iracheno, ndr). Vi è una distinzione evidente tra dei movimenti di massa che hanno un approccio essenzialmente politico e delle organizzazioni fondate sulla violenza e che non esitano a ricorrere al terrorismo.

D.: Hamas è rappresentato da molti media come un corpo estraneo all’interno della popolazione civile palestinese. Ma tuttavia è nato da questa…

R.: Come tutte le organizzazioni di massa. Hamas recluta per un verso grazie all’ideologia e per un altro verso grazie ai tanti servizi sociali che offre. Poiché recluta, come ogni opposizione politica, in funzione del malcontento contro il nemico e contro dei rivali che non sono più convincenti, come è stato il caso dell’OLP. Hamas è nato con la prima Intifada, nel 1987, a causa del discredito dell’OLP, espulso dal Libano e riconciliato con la Giordania. Il fallimento di Oslo, evidente a partire dalla metà degli anni ’90 e la frustrazione generata da tutto questo hanno ancor più contribuito successivamente al suo radicamento. Nello stesso modo, il discredito che subisce Mahmud Abbas, che tuttavia è andato molto oltre in termini di capitolazione e l’umiliazione che Israele gli infligge malgrado tutto, ha favorito Hamas.

D.: Non vi è il rischio che emergano o anche che prolifichino delle nebulose jihadiste, meno preoccupate delle sorti dei palestinesi e che potrebbero agganciarsi ad un movimento come lo Stato Islamico?

R.: Sì, esiste questa possibilità ma non tanto nei territori palestinesi. Perché una rete terroristica non ha i mezzi per potersi stabilirsi, né a Gaza né in Cisgiordania. Tra le autorità locali e l’occupazione israeliana, questi non sono territori immensi. Mentre tra i palestinesi della diaspora, quelli dei campi profughi, questi movimenti sono attraenti. Palestinesi in Siria o in Giordania hanno potuto raggiungere lo Stato Islamico. Israele è un fattore di radicalizzazione. Il suo governo sembra avere per motto: “dopo di me il diluvio”. Non si preoccupa di agire sul lungo termine, per il futuro stesso dei figli di Israele. Si stanno accumulando tensioni e, con la proliferazione delle armi di distruzione di massa, la probabilità di una catastrofe impossibile da descrivere. Seminano il vento di una tempesta che rischia di essere terribile per tutti.

Intervista realizzata da Denis Sieffert e Margaux Wartelle

Traduzione dal francese di Cinzia Nachira

COSA RESTA DELLA PRIMAVERA ARABA

È proprio dello spirito del tempo – del nostro tempo sempre più breve, sempre più miope – porre questa domanda sull’aria della canzone di Trenet «che cosa resta dei bei giorni?».

L’euforia del 2011 ha ceduto il posto alla melancolia dei delusi della rivoluzione, se non addirittura alla soddisfazione beata dei sostenitori del «vecchio regime», ostili fin dal primo momento alle rivolte con il pretesto che non avrebbero portato nulla di buono.

Iniziamo con quest’ultimo argomento: l’idea che il vecchio ordine, profondamente iniquo e dispotico, fosse uno scudo contro l’ «estremismo islamico», è sciocca quanto credere che l’alcolismo sia una profilassi contro la crisi della fede! L’emergere dell’ estremismo religioso che vediamo qui o lì è solamente la manifestazione di una tendenza in atto da decenni, prodotta sia direttamente che indirettamente da questo stesso ordine regionale che è imploso nel 2011.

Prediamo ad esempio il caso siriano: è evidente che la trasformazione delle forze armate, indotta da Hafez el-Assad, in guardia pretoriana del regime, fondata su un elemento confessionale minoritario, era tesa ad alimentare rancori confessionali in seno alla maggioranza. Immaginiamo che il presidente egiziano sia copto, che la sua famiglia domini l’economia del Paese, che i tre quarti degli ufficiali dell’esercito egiziano siano anch’essi copti e che i corpi scelti dell’esercito egiziano lo siano totalmente. Ci meraviglieremmo di vedere «l’integralismo islamico» dilagare in Egitto? La proporzione degli alauiti in Siria è paragonabile a quella dei copti in Egitto, ossia circa un decimo della popolazione.

Bisogna essere assai mal informati per ignorare che il regime di Bashar el-Assad ha deliberatamente alimentato il jihadismo sunnita siriano, sia facilitandone l’intervento in Iraq all’epoca dell’occupazione americana, sia liberando i suoi militanti dalle prigioni siriane nel 2011, nello stesso momento in cui il regime reprimeva brutalmente e arrestava a migliaia i democratici della rivolta siriana.

In realtà, la proliferazione degli estremisti integralisti in Medio Oriente è il prodotto diretto dell’eredità disastrosa delle dittature baasiste in Siria e in Iraq, nemiche tra loro, combinata con gli effetti non meno disastrosi dell’occupazione americana di quest’ultimo Paese e la concorrenza accanita che si fanno da decenni i due bastioni dell’integralismo islamico regionale: il regno wahhabita saudita e la repubblica khomeinista iraniana. Che questa proliferazione avvenga favorendo la profonda destabilizzazione che accompagna naturalmente ed inevitabilmente ogni rivolta politica è del tutto normale. Quando un ascesso viene inciso, esce il pus; è ben sciocco colui che crede sarebbe stato meglio lasciare intatto l’ascesso.

Torniamo alla domanda iniziale: cosa resta della Primavera araba? La risposta è semplice: il processo rivoluzionario regionale è ancora solo ai suoi inizi. Saranno necessari ancora diversi anni, forse anche diversi decenni, prima che l’onda d’urto che ha colpito in profondità l’ordine regionale irrimediabilmente corrotto arrivi ad una nuova stabilizzazione delle società arabe. È per questo motivo che la definizione «Primavera araba» era sbagliata fin dall’inizio: essendo ispirata dalla dolce illusione che la rivolta regionale fosse unicamente animata dalla sete di democrazia tale da poter essere soddisfatta da libere elezioni.

Ciò significa ignorare il motivo principale dell’esplosione del 2011, che è di ordine socioeconomico: questo motivo è il blocco dello sviluppo regionale da decenni che si è tradotto in tassi record della disoccupazione, in particolare tra i giovani e i laureati. Il corollario di questa constatazione è che il processo rivoluzionario iniziato nel 2011 terminerà quando sarà data una soluzione che permetta di uscire dall’impasse socioeconomico – una soluzione che potrà essere progressiva o regressiva, certamente, poiché la cosa migliore non è mai sicura, purtroppo, ma neanche la peggiore!

Per questo motivo «l’inverno islamista» in Tunisia ed in Egitto, nel quale gli uccelli del malaugurio si sono convinti di voler vedere la fine ultima del processo in questi due Paesi, è stato così breve. Il fallimento dei governi di Nahda e dei Fratelli Musulmani è stato determinato prima di tutto dalla loro incapacità di offrire una seppur minima soluzione al problema socioeconomico in un contesto di aggravamento della disoccupazione. Tale fallimento era prevedibile ed è stato previsto. Si può altrettanto prevedere che la restaurazione del vecchio regime in atto al Cairo per mano del generale Sissi fallirà per la stessa ragione, cause simili producono simili effetti e politiche economiche analoghe arriveranno a risultati uguali.

Perché la rivolta araba possa avere come sbocco una vera modernizzazione delle società arabe, occorrerà che emergano e si impongano nuove direzioni che rappresentino le aspirazioni progressiste dei milioni di giovani che si sono ribellati nel 2011. Solo a questa condizione il processo rivoluzionario ritroverà la sua via originale, ad eguale distanza dal vecchio regime e dalle opposizioni reazionarie che quest’ultimo ha generato.

Traduzione dal francese di Cinzia Nachira

I PROGRESSISTI IN DIFFICOLTA’ IN EGITTO

Il pericoloso e continuo altalenare dei progressisti tra il vecchio ordine ed i Fratelli a colloquio con Gilbert Achcar
In Egitto, si dibatte sugli avvenimenti del 30 giugno scorso. Era una rivoluzione o un colpo di Stato? Qual è la sua analisi?

Chiedersi se fosse una rivoluzione o un colpo di Stato mi pare rappresenti  un falso dibattito perché implicherebbe l’esistenza di una contraddizione radicale tra i due termini. A quel momento tale contraddizione non esisteva. Vi è stata una convergenza circostanziale di diversi elementi.
Penso innanzitutto che il 30 giugno sia esplosa una collera radicale di massa contro le azioni dei Fratelli durante la presidenza di Morsi, che si è manifestata nella forma di  un movimento democratico radicale sull’onda delle grandi rivolte regionali iniziate nei primi mesi del  2011. Le firme raccolte dai giovani di Tamarrod, l’invito a manifestare il 30 giugno per chiedere nuove elezioni presidenziali, tutto ciò rivela una democrazia che non ha nulla a che vedere con la democrazia formale assai diffusa e fondata sull’idea che la volontà popolare si eserciti solo attraverso il voto, un giorno solo ogni quattro o cinque anni, a seconda dei paesi. Una democrazia reale, invece, deve obbligatoriamente prevedere la revoca degli/delle eletti/e ed il  loro avvicendamento. Altrimenti l’eletto – ed ora è così in tutti i paesi del mondo – è libero di agire come gli pare, anche se tradisce tutte le promesse fatte al momento della sua elezione. Da questo punto di vista, il 30 giugno rappresenta una nuova tappa della rivoluzione egiziana ed anche un suo approfondimento.
La contestazione non tocca solo questo principio, poiché  in piazza e nelle strade sono confluite persone di ogni tipo: quelli che hanno manifestato per gridare la loro collera contro le condizioni di vita, contro la situazione economica e sociale, ma anche coloro che hanno manifestato per un ritorno al vecchio regime e che sono stati chiamati i “foulouls” [sostenitori del vecchio regime] pur riconoscendo che questa affermazione non è del tutto precisa poiché “lo Stato profondo” non è mai stato allontanato dal potere.
Si illudono coloro che hanno creduto che l’allontanamento di Tantaoui [presidente del Consiglio supremo delle Forze armate CSFA, dal febbraio 2011 all’agosto 2012] e di Sami Hafez Annan [vice presidente del CSFA],  e la  nomina di Sissi [attuale primo ministro della Difesa e “padrone” del governo], rappresenti un elemento di continuità con la fase della rivoluzione che ha preceduto l’avvento al potere di Morsi e che avrebbe portato al dominio di un  potere civile sulle istituzioni militari. L’ho d’altronde  spiegato nel mio libro [Le Peuple veut, Acte Sud].
Ciò detto, nel gennaio-febbraio 2011 abbiamo visto le illusioni popolari sull’esercito, con il profilarsi di ciò che in pratica è stato percepito come un colpo di Stato. Così come l’11 febbraio 2011, un colpo di Stato militare  ha condotto il CSFA alla confisca del  potere, allo stesso modo anche questa volta l’esercito ha effettuato un colpo di Stato, ma, avendo tratto insegnamento dell’esperienza precedente, ha preferito mettere dei civili in prima linea ben sapendo che l’uomo forte del regime egiziano attuale non è Hazem El Beblawi [primo ministro dal 9 luglio 2013], né Adly Monsour [presidente ad interim], ma Abdel Fattah Al-Sissi.

Come valuta la situazione attuale, quattro mesi dopo il 30 giugno?

La situazione attuale è quella di una transizione caratterizzata da un’enorme  instabilità, piena di contraddizioni. Apparentemente siamo in presenza di due schieramenti: quello del 30 giugno e quello dei Fratelli. In realtà quello del 30 giugno è assai variegato, esattamente come il movimento del gennaio-febbraio 2011 che ha raggruppato Fratelli musulmani, nasseriani, liberali, la sinistra ed anche numerosi indipendenti. L’opposizione a Mubarak e la volontà di cacciarlo era il solo punto di accordo. Al di là di questo, nulla accomunava queste forze  e lo si è potuto vedere in seguito quando i Fratelli e i salafiti si sono alleati con l’esercito per il referendum del marzo 2011 [modifiche della Costituzione] contro l’opposizione di sinistra e l’opposizione liberale.
I metodi di azione dei Fratelli, la loro volontà di esercitare il potere da soli , nonché di “fratellizzare” il paese, hanno portato ad una modifica della configurazione delle alleanze. Dopo il febbraio 2011 avevamo tre forze principali che erano l’esercito, i Fratelli e le opposizioni di sinistra e liberali in tutte le loro varianti. La terza forza ha intensificato la sua lotta contro i Fratelli, ma, non avendo  forza organizzativa autonoma per liberarsi di Morsi, ha dovuto contare sull’aiuto all’esercito per raggiungere il suo obiettivo.
Oggi, all’interno di questo schieramento le contraddizioni si  approfondiscono. Vediamo per esempio che aumentano le contraddizioni tra i giovani delle correnti popolari con il  progetto politico di candidare Hamdeen Sabbahi alle presidenziali e coloro che sostengono i vertici delle Forze armate e la loro propaganda sfrenata a favore di una candidatura Sissi.
Il problema è che una gran parte di liberali, di nasseriani, di gente di sinistra continua a credere ingenuamente che l’esercito abbia agito solo per sostenere la volontà del popolo e che i militari non hanno assolutamente alcuna voglia di esercitare il potere. Vedono l’esercito come vorrebbero che fosse e non come è realmente.

Si sta sviluppando un’enorme propaganda attorno al ruolo del generale Sissi: viene paragonato a Nasser, gli si chiede di candidarsi alle presidenziali. Pensa che possa rappresentare una via d’uscita alla situazione attuale?

Ad oggi non sappiamo se il ministro della Difesa si presenterà alle elezioni presidenziali o se preferirà esporsi meno, restando alla testa dell’istituzione militare; diventerebbe così l’uomo più potente del potere senza doversi immischiare nelle questioni  economiche e sociali. Se il generale Sissi si impadronisse della presidenza della Repubblica, sparirebbe il culto della sua persona: non siamo né nel 1952, né nel 1954. Nasser aveva conquistato un’enorme popolarità grazie ai grandi progressi economici, sociali e nazionali che aveva realizzato attraverso le nazionalizzazioni, i grandi progetti, l’educazione, la salute, ecc. È pur vero che tutto ciò è avvenuto nel quadro di una dittatura militare, ma non vi è alcun dubbio che   in molti ambiti, quella dittatura aveva assunto aspetti progressisti che spiegano la popolarità di Nasser.
Al giorno d’oggi tutto ciò non può assolutamente ripetersi perché da una decina d’anni l’apparato militare è il garante delle politiche economiche neoliberali, con l’appoggio dell’Arabia Saudita e degli Emirati per finanziare il paese. Di conseguenza, porta avanti politiche che non possono regolare la crisi sociale ed economica che attraversa oggi l’Egitto. Tutto ciò non gli  può portare una popolarità a lungo termine; quel che oggi noi osserviamo è un sentimento assai superficiale e artificiale che sparirà rapidamente alla prova del potere.

Come valuta il progetto dei militari? In altri termini, potranno realizzare un regime diverso da quello di Moubarak?

Impossibile, e per una ragione molto semplice: la grande differenza tra la rivoluzione del 1952 e la situazione attuale; qualsiasi paragone tra le due situazione ci pare stupido. Coloro che hanno diretto la rivoluzione del 1952 erano giovani ufficiali subalterni che hanno affiancato il generale Naguib, rappresentante degli ufficiali di grado più elevato. Nonostante i loro diversi orientamenti politici – nel movimento degli Ufficiali liberi vi erano i più diversi oppositori alla monarchia, dagli islamisti ai comunisti – i loro obiettivi, espressi da Nasser, poggiavano su un progetto di cambiamento radicale, un progetto prima di tutto nazionalista, che ha permesso di contrapporsi agli interessi delle grandi potenze come la Gran Bretagna, la Francia, gli Stati Uniti e in particolare Israele. Tutto questo in un mondo bipolare con la presenza dell’Unione sovietica alla quale Nasser si è appoggiato e che ha imitato in molti ambiti. Eravamo quindi confrontati con ufficiali di secondo grado che volevano servire la loro patria e il loro popolo, senza che si potesse dubitare della loro sincerità. Questa esperienza si è radicata negli anni ’50 fino all’adozione della  Carta dell’inizio degli anni 60, nella quale si è concretizzato il progetto di Nasser.
Oggi, a che punto siamo? Non siamo confrontati con un movimento di ufficiali subalterni che prendono le redini delle istituzioni, ma con un generale come Sissi e con i vertici attuali di quello stesso esercito che era uno dei pilastri essenziali del regime Moubarak. Sissi non è un ufficiale di secondo grado dell’era Moubarak, bensì il capo dei Servizi di informazione dell’esercito. Di fatto si tratta di uno Stato nello Stato, con attività economiche in settori che non hanno nulla a che fare con le questioni militari. Di conseguenza il paragone Nasser-Sissi non ha alcun senso, non hanno nulla in comune se non la loro comune appartenenza all’esercito. Coloro che si illudono su questo punto  rischiano di perdere le proprie  illusioni molto presto, allo stesso modo di tutti coloro che hanno creduto in Morsi. Infatti, val la pena ricordare che una gran parte della popolazione si faceva molte illusioni su Morsi; ebbene, sono svanite con una velocità stupefacente, in particolare poiché è stato incapace di rispondere ai bisogni delle masse: bisogni economici e sociali, nazionali e politici.

Sembra che il movimento popolare si stia indebolendo, ad eccezione delle manifestazioni dei Fratelli, e che la repressione statale stia ritornando in forze. Anche lei ha questa impressione?

Penso di poter affermare che la situazione non si stabilizzerà poiché in Egitto la crisi economica e sociale è importante e profonda, il che ci riconduce alla questione di fondo: perché abbiamo assistito ad una serie di esplosioni sociali nella regione? Il fatto è che il  dilagare della miseria è indescrivibile e il detonatore della rivolta araba, o piuttosto quella che io definisco un’ondata rivoluzionaria di lunga durata, ha le proprie radici in queste situazioni economiche e sociali. Non esiste possibilità di sviluppo economico, da cui deriva lo sviluppo continuo della disoccupazione su larga scala e in particolare di quella giovanile. Questa situazione non solo non ha trovato alcuna soluzione, ma, al contrario, tende ad aggravarsi di giorno in giorno. La ragione principale di questa stagnazione della crescita è il cedimento dei governi – a causa dei loro orientamenti neoliberali – al settore privato che non è assolutamente disposto a sostenere lo sviluppo economico. Negli anni ’50, dato che il settore privato non voleva svolgere questo compito, Nasser ha fatto in modo che se ne occupasse lo Stato. Come si può immaginare che le autorità militari di oggi abbiano un programma di questo tipo? Coloro che lo pensano sono degli illusi.

Se ritorniamo all’altro schieramento, quello dei Fratelli musulmani, in un primo tempo avevamo  pensato di assistere all’inizio della fine dell’islam politico; ora pare che siano riusciti ad assumere ancora una volta il loro ruolo di vittime. Cosa ne pensa?

Il comportamento dei militari contro la rivoluzione popolare ha permesso ai Fratelli di apparire come i rappresentanti della rivoluzione di gennaio. Si sono impossessati della bandiera della democrazia, le violenze subite in passato ha permesso loro di giocare questa carta.
Di fatto è chiaro che i Fratelli sono stati di una cecità politica sorprendente. Durante l’era Morsi, non hanno nemmeno tentato di costruire una coalizione nazionale ampia, coscienti che Morsi era stato eletto solo al secondo turno da elettori che hanno votato per lui solamente perché non volevano un ritorno al vecchio regime.
I Fratelli hanno agito in modo totalmente isolato, senza tener conto di nessuno, credendo che fosse giunto il loro momento e che Dio avrebbe vegliato su di loro: questo fatto li ha allontanati da tutti, compresi i salafiti. L’attuale direzione dei Fratelli, che rappresentano la corrente integralista della Confraternita, ha fornito un’illustrazione esemplare della propria stupidità politica. In particolare ha dimostrato di non possedere una  dose sufficiente di lucidità politica per valutare l’ampiezza delle manifestazioni del 30 giugno. Quando in Francia sono scoppiate le manifestazioni del maggio ’68 contro de Gaulle – personaggio storico di una levatura non paragonabile a Morsi – il Presidente ha indetto elezioni legislative anticipate, poi un referendum sul suo progetto politico. Ha perso e si è dimesso.
Questo tipo di proposte avrebbe permesso alla Confraternita di uscire dal vicolo cieco, ma Morsi si è aggrappato alla presidenza ribadendone la legittimità. Una volta destituito è apparso chiaro che la congiunzione delle forze armate con un potente movimento popolare era certamente molto più forte dei Fratelli. Nonostante questo i Fratelli si sono ostinati nel loro errore e nella loro cecità politica, invitando a continuare manifestazioni ridicole – il cui solo risultato è stato quello di aumentare il numero delle vittime  –  e chiedendo il ritorno di Morsi invece di far proprie le proposte di mediazione americane ed europee.

Qual è a breve termine il futuro dei Fratelli?

In Egitto qualsiasi tipo di potere che non sia fondato su un programma di cambiamento sociale ed economico, che riproduca la politica  svolta a suo tempo da Moubarak e portata avanti da Morsi, puntellandosi sulla monarchia saudita e sugli Stati Uniti, presto o tardi fallirà e dovrà affrontare la collera delle masse. A quel momento i Fratelli cercheranno di trarne profitto e  penso che sia quel che stanno aspettando.

La piazza crederà loro nuovamente?

Naturalmente è possibile, nella misura in cui i discorsi dei Fratelli verteranno sul fatto che non è stato dato loro un lasso di tempo sufficiente per applicare il loro progetto di rifondazione, che le loro politiche sono state oggetto di sabotaggi sotterranei e che il loro presidente sia stato destituito dopo un solo anno, ecc. Si tratta di un discorso che potrebbe apparire convincente in un contesto caratterizzato dallo scoppio di collera popolare contro il potere attuale e se non dovesse emergere sulla scena politica una forza d’opposizione diversa in grado di rappresentare le aspirazioni progressiste delle masse. Questa è la sola spiegazione logica che vedo alla base del loro atteggiamento attuale, altrimenti essa non avrebbe alcun senso.

Crede nella possibilità di un ricorso dei Fratelli ad una lotta armata e che lo scenario siriano possa riprodursi anche in Egitto?

Non lo credo. Quello scenario è troppo lontano dall’Egitto, in particolare poiché la struttura dello Stato siriano è completamente diversa. Per riproporre quello scenario, occorrerebbe immaginare che il presidente della Repubblica egiziana fosse cristiano, così come i possidenti ed i grandi capitalisti, che i tre quarti degli ufficiali fossero cristiani, che le forze speciali militari più importanti dell’esercito fossero interamente cristiane (graduati e ufficiali): questa è la situazione in Siria, con la sola differenza che coloro che occupano questi posti sono alauiti e non cristiani, tenendo conto che la proporzione di alauiti in Siria è più o meno corrispondente a quella dei cristiani in Egitto.
D’altronde non credo che i Fratelli sceglieranno un progetto di questo tipo, che sarebbe suicida  sotto ogni punto di vista. Si può prevedere che certi ambienti takfiristi [che considerano apostata ogni musulmano contrario al loro punto di vista] aderiranno come hanno fatto, per esempio, nel Sinai, ma non i Fratelli in quanto organizzazione. Fino ad oggi, i Fratelli hanno agito nei limiti degli accordi presi con l’esercito.
I Fratelli non ricorreranno alla lotta armata e l’esercito non liquiderà la Confraternita. I Fratelli attenderanno la prossima esplosione popolare suscitata dalla crisi economica e sociale non regolata, coscienti che coloro che in quel momento saranno all’opposizione conquisteranno una grande popolarità. Sarà allora che si potrà intravedere un pericolo immediato, a causa di questo continuo altalenare dei progressisti tra i due campi: quello  del vecchio ordinamento e quello dei Fratelli.
Per uscire da questa situazione sarebbe necessario che emergesse  un terzo schieramento  che riprendesse la parola d’ordine apparsa alla fine del regno del CSFA: “Né foulouls, né Fratelli…la rivoluzione è sempre in piazza”

Articolo apparso il 10 novembre 2013 sulla rivista Akhbar El Adab del Cairo. La traduzione in italiano, condotta su una versione francese di Hoda Ahmed (apparsa sul sito www.alencontre.org), è stata curata dalla redazione di Solidarietà del Cantone Ticino.

SIRIA TRA RIVOLUZIONE E CONTRORIVOLUZIONE

TC: Potrebbe valutare l’attuale stato delle insurrezioni arabe in generale prima di concentrarci specificamente sulla Siria?

GA: Ciò che sta accadendo ora è la conferma di quello si poteva dire fin dall’inizio, il fatto che ciò che è cominciato nel dicembre del 2010 in Tunisia. non era una ‘Primavera’ come i media la hanno definita, un breve periodo di cambiamento politico durante il quale vengono destituiti questo o quell’altro despota, aprendo la strada a una bella democrazia parlamentare, e basta.   Le insurrezioni sono state descritte come una ‘rivoluzione di Facebook’, un’altra di quelle ‘rivoluzioni  colorate’.   Io, per cominciare, ho insistito dall’inizio che questa era una rappresentazione errata della realtà. Quello che aveva iniziato a realizzarsi  nel 2011, era un processo rivoluzionario a lungo termine che si sarebbe  sviluppato in molti, molti anni, se non decenni, specialmente se teniamo conto della sua estensione geografica.

Da quella prospettiva, quello che ci è stata finora, è soltanto la prima fase del processo. In alcuni paesi si è riusciti ad andare oltre la prima fase del rovesciamento dei governi esistenti; è stato il caso di Egitto, Tunisia e Libia -i tre paesi dove i regimi sono stati deposti dalle insurrezioni. E potete vedere che questi paesi sono ancora in uno stato di trambusto, instabilità che è normale in  periodi rivoluzionari.

Chi è desideroso di credere che l’insurrezione araba sia finita che sia nata morta, si sono concentrati sulla vittoria iniziale delle forze islamiche nelle elezioni in Tunisia e in Egitto. Contro questi profeti di sciagure, ho messo in risalto il fatto che questo era di fatto inevitabile dal momento che le elezioni svoltesi poco dopo il rovesciamento del regime dispotico, potevano soltanto riflettere l’equilibrio delle forze organizzate che esistevano in questi paesi. Sostenevo che il periodo dei fondamentalisti islamici al potere non sarebbe durato a lungo, se consideralo le vere radici del processo rivoluzionario.

Il processo rivoluzionario a lungo termine è radicato nella realtà sociale della regione, caratterizzata da molti decenni di sviluppo bloccato – una percentuale di disoccupazione – specialmente quella giovanile, più alta che in qualsiasi altra regione del mondo, da diversi decenni. Queste sono stare le vere cause dell’esplosione, e fino a quando non ci si occupa di queste cause, il processo continuerà. Qualsiasi nuovo governo che non avrà soluzioni per questi problemi fondamentali, fallirà. Era prevedibile che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito: nel mio libro The People Want (La gente vuole] che naturalmente è stato scritto prima della deposizione di Morsi in Egitto, sostenevo che la Fratellanza Musulmana avrebbe fallito inevitabilmente. Ho scritto la stessa cosa a proposito  di Ennahda in Tunisia, che deve ora affrontare  un movimento di protesta molto forte che mette in dubbio il futuro del governo.

C’è quindi in corso  un processo in tutta la regione che, come qualsiasi altro processo rivoluzionario nella storia, ha i suoi alti e bassi, periodi di progressi e periodi di arretramenti – talvolta periodi ambigui. L’evento più ambiguo dell’intero processo finora, è stata la recente esperienza in Egitto dove abbiamo visto questa immensa mobilitazione di massa contro Morsi del 30 giugno, che è stata un’esperienza molto avanzata di democrazia da parte di un movimento di massa che chiedeva le dimissioni di un presidente eletto che aveva tradito le promesse che aveva fatto al popolo. Allo stesso tempo, però, e in questo sta, naturalmente,  l’ambiguità, si è avuto il colpo di stato militare e le diffuse illusioni che l’esercito potesse avere un ruolo progressista, compreso quello tra sezioni dominanti della ampia sinistra e anche tra i liberali.

TC: E quindi come si colloca la sua analisi della Siria in questo quadro generale di ciò che accade nella regione?

GA: Non può esserci alcun dubbio che quello che è cominciato in Siria nel 2011 fa parte dello stesso processo rivoluzionario che avviene in  altre nazioni. E’ parte dello stesso fenomeno ed è guidato dalle stesse cause fondamentali- di sviluppo in stallo, di disoccupazione e specialmente di disoccupazione giovanile. La Siria non fa certamente eccezione – infatti è uno dei casi più seri di crisi sociale ed economica della ragione. Questa situazione è stata provocata dalle politiche neo-liberali degli  Assad – padre e figlio – ma specialmente dal figlio da quando è arrivato al potere circa dodici anni fa, dopo al morte del padre.

La Siria è un paese che ha visto un massiccio impoverimento nello scorso decennio, specialmente nelle aree rurali; il livello di povertà è continuato ad aumentare e ha raggiunto un livello in cui quasi un terzo della popolazione era al di sotto della soglia nazionale di povertà e la disoccupazione era in aumento. Alla vigilia dell’insurrezione, le cifre ufficiali attenuate della disoccupazione erano il 15% totale e più di un terzo riguardava i giovani dell’età compresa tra i 15 e i 24 anni.

Tutto questo accadeva sullo sfondo di un’immensa disuguaglianza sociale, un regime molto corrotto in cui il cugino di Bashar Assad è diventato l’uomo più ricco del paese che controlla, come è opinione di molti – oltre metà dell’economia. E questo è soltanto un membro del clan al potere – in cui tutti i membri ottenevano enormi vantaggi materiali. Il clan funziona come una vera mafia, e  governa il paese da diversi decenni.

Questo costituisce la radice profonda  dell’esplosione, insieme al fatto che il regime siriano è uno dei più autoritari della regione. Paragonato alla Siria di Assad, l’Egitto di Mubarak  era un faro di democrazia e di libertà politica!

Non è stata quindi una sorpresa che dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia, lo Yemen, ecc., anche la Siria si sia unita al movimento. E, analogamente, non è stata una sorpresa, per quelli come me che conoscevano le caratteristiche del regime siriano, che il movimento non ottenesse quello che aveva  ottenuto in Tunisia e in Egitto grazie alle manifestazioni di massa.

Quello che è specifico di questo regime, è che il padre di Assad aveva rimodellato e ricostruito l’apparato statale, specialmente il suo nucleo duro – le forze armate – allo scopo di creare una guardia Pretoria per se stesso. L’esercito, specialmente le sue forze scelte, è legato al regime in vari modi, in maniera molto rilevante, per mezzo dell’uso del settarismo. Perfino le persone che non hanno mai sentito parlare prima della Siria, adesso sanno che il regime si basa su una minoranza nel paese – circa il 10% della popolazione: gli Alauiti.

Con un esercito  che è completamente leale nei confronti del regime, qualsiasi illusione (e all’inizio ci sono stare molte illusioni nel movimento) che questo potesse essere rovesciato soltanto per mezzo di dimostrazioni di massa, era falsa. In un certo senso era inevitabile che l’insurrezione si sarebbe trasformata in una guerra civile perché non c’è modo di rovesciare un regime di questa natura senza una guerra civile.

Nella storia delle rivoluzioni, quelle pacifiche sono realmente un’eccezione, non la regola. La maggior parte delle rivoluzioni, se non sono cominciate con una guerra civile, come la rivoluzione cinese, hanno provocato rapidamente guerre civili come quella francese, quella russa, ecc.

Detto questo, il regime siriano è soltanto una delle controrivoluzioni che affronta l’insurrezione siriana, anche se è di gran lunga la più letale. Una seconda controrivoluzione è costituita dalle monarchie del Golfo, il principale bastione reazionario nell’intera regione. Queste monarchie hanno reagito all’insurrezione araba nell’unico modo possibile per loro, specialmente dato che il loro padrino, l’imperialismo statunitense, non era nella posizione di intervenire come forza controrivoluzionaria contro le insurrezioni. Hanno perciò tentato di cooptarli, di recuperare il movimento. E per le monarchie del Golfo questo significava battersi per trasformare le rivoluzioni sociali e democratiche in movimenti guidati da forze che non sono una minaccia per loro dal punto di vista ideologico. Questo si può dire  per la Fratellanza Musulmana che è stata pesantemente appoggiata dell’Emirato del Qatar e anche per tutti i tipi di Salafiti – dai ‘moderati’ ai jihadisti – sostenuti dal regno saudita o per le varie reti Wahhbite- Salafite nei paesi del Golfo.

Queste monarchie hanno fatto del loro meglio  per aiutare e promuovere il risultato che è nei loro interessi  all’interno dell’insurrezione siriana, cioè trasformare la rivoluzione democratica – sarebbe una minaccia per loro – in una guerra tra sette. In questo caso si ha una vera convergenza tra loro e la prima controrivoluzione, cioè il regime.

All’inizio quello che si è avuto in Siria sono state le dimostrazioni, come in qualsiasi altra parte nella regione;  erano organizzate e guidate da giovani che che usavano i media sociali tramite la rete; erano mobilitazioni molte coraggiose con chiare richieste sociali, democratiche e antisettarie. Dal primo giorno, però, il regime ha sostenuto che erano guidati da Al Qaida, esattamente quello che immaginava Gheddafi in Libia; in entrambi i casi questo era un messaggio diretto all’Occidente. il regime diceva a Washington: “Non fate errori – siamo vostri amici,   combattiamo lo stesso nemico, combattiamo Al Qaida, quindi non dovreste prendere posizione contro di noi, ma invece appoggiarci.”

Il regime siriano ha fatto di più che intraprendere una guerra di propaganda – ha fatto uscire i jihadisti dalle carceri per sostenere lo sviluppo di questa corrente all’interno dell’insurrezione. Nell’opposizione siriana c’è una convinzione diffusa che il regime si infiltri e nei  gruppi di Al Qaida e che li manipoli. In effetti non è un’opinione inverosimile – certamente c’è un certo livello di coinvolgimento, anche se nessuno può quantificarlo.

C’è poi una terza forza controrivoluzionaria che opera contro l’insurrezione siriana: sono naturalmente, gli Stati Uniti, e aggiungerei anche Israele. Gli Stati Uniti sono controrivoluzionari nel pieno senso del termine per quanto riguardo la Siria e anche in relazione a tutte le altre nazioni nella regione. Washington non vuole che alcuno stato sia smantellato. Vuole quella che si chiama ‘una transizione ordinata’; il potere che cambia mani, ma nell’ambito di una continuità della struttura dello stato. A Washington e a Londra si continua a parlare delle ‘lezioni dell’Iraq’  e a spiegare che avevano sbagliato a smantellare lo stato Baathista. ‘Avremmo dovuto mantenere quello stato e avremmo dovuto soltanto rimuovere Saddam Hussein, e se lo avessimo fatto, non avremmo dovuto affrontare così tante difficoltà. ‘

Potreste chiedervi: e la Libia? Ebbene, prima della caduta di Gheddafi ho scritto un lungo articolo spiegando che l’intervento della NATO in Libia era un tentativo di cooptare l’insurrezione, di guidarla  e di gestirla mentre erano impegnati nei negoziati con Saif al-Islam, il figlio di Gheddafi che era considerato dall’Occidente il membro buono della famiglia governante. Volevano che suo padre si dimettesse in suo favore, cosa che sarebbe andata molto bene a Washington, Londra, Parigi e agli altri. Naturalmente, però, l’insurrezione libica è andata oltre questo quando l’insurrezione a Tripoli ha portato al crollo dell’intero regime.

Riguardo alla Siria, Washington dice molto chiaramente – anche durante la recente crisi per le armi chimiche – “Non vogliamo che il regime venga abbattuto, vogliamo una soluzione politica,” quella che anche Obama un anno fa chiamava una ‘soluzione come quella per lo Yemen’. Che cosa era accaduto in Yemen? Il presidente, Ali Abdullah Saleh, dopo un anno di insurrezione, ha ceduto il potere con un grande sorriso sulla faccia, al vice presidente e da allora è rimasto nel paese dove regge ancora molte fila. E’ soltanto una presa in giro, una vera frustrazione per le forze estremiste di quel paese. Questo è anche  il motivo per cui in Yemen le cose sono lontane dall’essere risolte, anche se non se ne sente parlare nei notiziari qui in Occidente.  Il movimento continua in Yemen così come in Bahrein e in tutta la regione.

Questo è il tipo di soluzione che gli Stati Uniti vogliono per la Siria. Non vogliono intervenire militarmente come hanno fatto in Libia. La recente ‘esplosione’ è avvenuta perché Washington si sentiva sotto pressione, ed vedeva la sua ‘credibilità’ a rischio dopo che Obama aveva abbozzato la sua ‘linea rossa’ per l’uso  delle armi chimiche. Anche quando pensavano agli attacchi, però, spiegavano che sarebbero stati attacchi molto limitati che non avrebbero avuto influenza sull’equilibrio delle forze. Il New York Times  ha pubblicato un lungo articolo in cui si fa sapere che Israele desiderava esattamente la stessa cosa: attacchi contenuti che non avrebbero alterato l’equilibrio delle forze all’interno della Siria.

Le potenze occidentali non presterebbero alcun appoggio considerevole- specialmente di tipo militare – a nessuno, perché non hanno alcuna fiducia in nessuna forza dell’opposizione. Come ha messo per iscritto  il presidente statunitense dello Stato Maggiore congiunto, Martin Dempsey, per la Siria, oggi, non si tratta di scegliere tra due parti, ma piuttosto di scegliere una tra molte parti. E’ mia convinzione che la parte che scegliamo deve essere pronta a promuovere i loro interessi e i nostri quando l’equilibrio si sposta in loro favore. Oggi non sono  pronti.”

TC: Non ha citato la Russia quando ha parlato delle forze controrivoluzionarie. Sarebbe corretto descriverle come la quarta colonna in questo caso?

GA: Non le ho citate perché sono ovviamente una forza chiave che sostiene il regime di Assad. In quel senso, la Russia di Putin fa parte della prima colonna, non è la quarta.

TC: Non è vero che il loro coinvolgimento non ha soltanto un importante effetto materiale per mezzo della loro fornitura di armi ad Assad, ma anche un importante effetto ideologico in quanto disorientano qualcuno che ci si aspetterebbe appoggiasse l’insurrezione?

GA: In ultima analisi, l’insurrezione siriana pochissimi amici. Perfino tra le persone che ci si aspetterebbe fossero amici delle rivoluzioni, si possono vedere degli atteggiamenti ostili, gente     abbindolata dalla propaganda del regime siriano che rappresenta l’intera insurrezione come jihadista come anche quella di Mosca. E della gente guarda ancora alla Russia come se fosse ancora l’Unione Sovietica, sebbene in termini del loro carattere politico e sociale, gli Stati Uniti appaiono come piuttosto progressisti in paragone a quella che è la Russia di Putin: un governo autoritario, capitalismo selvaggio,  aliquota unica sull’ imposta sui redditi al 13% , baroni briganti, e così via. Ci sono molti più basi  per considerare la Russia come un paese  imperialista piuttosto che un paese antimperialista.

In quanto a coloro che credono che il regime siriano sia ‘antimperialista’, ignorano semplicemente la storia di questo regime e il puro opportunismo sul quale basa la sua politica estera. La Siria di Assad è intervenuta nel 1976 per schiacciare la resistenza palestinese e la sinistra libanese in i Libano ed evitare la loro vittoria sull’estrema destra libanese. nel 1983-85, ha fatto o appoggiato guerre contro i campi dei profughi palestinesi in Libano. Nel 1991, il regime siriano ha combattuto la guerra contro l’Iraq sotto il comando statunitense; faceva parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti; dagli anni ’90 fino al 2004, il regime siriano è stato il protettore del governo neo-liberale di Hariri in Libano; durante tutti questi anni il confine siriano è stato il più tranquillo e sicuro di tutti i confini con Israele. Non c’è quindi alcun senso in cui il regime siriano possa essere descritto come ‘antimperialista’: è un regime molto opportunista che non esista a cambiare fazioni e alleanze per promuovere i propri interessi.

TC: Potrebbe dirci qualche cosa sull’equilibrio di forze all’interno dell’opposizione siriana?

GA: Da relazioni di amici di cui mi fido e che hanno visitato tutte le aree controllate dall’opposizione, i due gruppi di al-Qaida rappresentano non più del 10% dei combattenti, mentre i Salafiti probabilmente rappresentano circa il 30%.  Il resto è una maggioranza di forze che agiscono sotto il vessillo del Libero esercito siriano (FSA), sebbene parte di abbiano una propensione per l’Islamismo. Questo è il risultato del fatto che le principali fonti di finanziamento per le forze sirime contrarie al regime sono state islamiche e con sede nel Golfo, dalle monarchie alle varie reti religiose.

Si parla dei gruppi armati – in quanto per la resistenza popolare, nella vasta maggioranza la gente non è interessata a nessun tipo di stato islamico, ma nelle aspirazioni democratiche e sociali che sono state gli obiettivi dell’insurrezione da quando è iniziata.

TC: Potrebbe dirci qualche cosa sul modo in cui la resistenza si organizza e su quali sono le sue principali richieste?

GA: La resistenza è molto eterogenea. Durante i primi mesi dell’insurrezione, i leader originari erano, come in realtà in tutte i luoghi  della regione, per lo più giovani che si collegavano in rete usando internet. Si sono organizzati per mezzo di Comitati locali di coordinamento (LCCs) e hanno elaborato un programma progressista: democratico, anti-settario, e di orientamento laico. In generale una serie di richieste chiaramente progressiste che non si può mancare di sostenere se si è di sinistra.

La seconda fase era la costituzione del Consiglio Nazionale Siriano all’estero. Questo elemento era una differenza importante con la Libia dove il Consiglio Nazionale Transnazionale si era formato all’interno del paese ed era riconosciuto come legittimo dalla maggior parte dell’insurrezione libica, sebbene anche là ci fossero dei problemi. L’SNC è stato formato all’estero da persone che non avevano un vero ruolo nella leadership dell’insurrezione stessa, ma avevano dei collegamenti. E’ stato creato con l’interferenza della Turchia e quella del Qatar. L’Emirato ha finanziato l’SNC, specialmente la Fratellanza Musulmana che erano e  sono ancora un’importante componente di questa opposizione ufficiale che è in esilio.

Nello stesso SNC, però, si potrebbero trovare persone che appartengono alla sinistra siriana, come il Partito Democratico del Popolo, che ha avuto origine da una frattura del Partito Comunista Siriano. e gli stessi LCC sono rappresentati nell’SNC e ne hanno riconosciuto il ruolo di dirigenti dell’opposizione. Anche in questo caso si può essere d’accordo sulla maggior parte del programma dell’SNC dal punto di vista della sinistra – è democratico, anti-settario e largamente di orientamento laico. Naturalmente potremmo dire che non è abbastanza sociale ma questo non è  una dirigenza della sinistra radicale, sicuramente.

L’SNC è stato ora sostituito dalla Coalizione Nazionale Siriana. Rimane fondamentalmente una coalizione di forze il cui campo è simile a quello delle forze che erano coinvolte nelle insurrezioni egiziana e tunisina. Non si dovrebbe dimenticare che anche in Egitto la Fratellanza Musulmana e i Salafiti, durante l’insurrezione erano insieme ai liberali e alla sinistra.

Poi, con la militarizzazione della lotta, la trasformazione della rivolta in guerra civile che è avvenuta progressivamente dall’autunno del 2011 in poi, abbiamo visto la comparsa di  gruppi islamici jihadisti inflessibili che comprendono  due gruppi che operano sotto il vessillo di al-Qaida  con differenze tra di loro, e i gruppi salafiti. Dei due affiliati ad al-Qaida, uno ha per principalmente combattenti che arrivano località fuori dalla Siria, e l’altro è soprattutto siriano, e ci sono tensioni tra di loro. Ci sono stati crescenti scontri tra il Libero esercito siriano, cioè l’ala armata dell’opposizione ufficiale e i gruppi di al-Qaida.

E’rassicurante vedere che i gruppi jihadisti inflessibili sono sempre più rifiutati dall’opposizione convenzionale, ma si capisce anche che quest’ultimo non può fare una guerra su due fronti – hanno già abbastanza problemi per l’equilibrio sproporzionato di forze tra loro e il regime. Sfortunatamente nella lotta armata non c’è alcuna presenza della sinistra. La sinistra radicale in Siria è comunque molto marginale. E la sinistra più ampia non ha tentato di organizzarsi separatamente nell’ambito del Libero esercito siriano.

TC: Come ha replicato l’opposizione al tentativo del regime di rappresentarli come settari?

GA: Hanno risposto in vari modi – con dichiarazioni e annunci, striscioni nelle manifestazioni, usando i nomi di personaggi storici alauiti o cristiani o drusi per le loro mobilitazioni del venerdì, ecc.

Il fatto è che non c’è alcun paragone possibile tra le uccisioni settarie eseguite dal regime e dalle sue shabbihas – le sue milizie – che hanno perpetrato la maggior parte delle uccisioni settarie, e le uccisioni settarie perpetrate dalle forze contrarie al regime. Queste ultime sono perpetrate per lo più dai jihadisti che io considero un’altra forza controrivoluzionaria.

Naturalmente ci sono reazioni sfrenate da parte delle persone con scarsa consapevolezza politica che hanno reagito in modo settario alla brutalità del regime. Ebbene, che cosa vi aspettate? Non è un esercito di intellettuali marxisti che affrontano un regime; è un’insurrezione popolare e senza una dirigenza politica in grado di educare la gente. Ci sono quindi azioni settarie da parte dell’opposizione in reazione al massiccio settarismo del regime. Abbiamo avuto la stessa cosa nella guerra civile libanese con molta maggiore simmetria nelle uccisioni settarie tra le due parti – se questi fossero i criteri, ognuno avrebbe dovuto rifiutare entrambe le parti nella guerra civile libanese.

Naturalmente dovremmo denunciare tutti gli atti settari ogni volta che accadono – essi sono in effetti denunciati dall’opposizione e dal Libero esercito siriano. Non dovremmo però cadere nella trappola di ignorare la differenza di portata tra le uccisioni  settarie di  massa del regime e quelle perpetrate dalle forze contrarie al regime.

TC: Quale è la relazione con la lotta curda?

GA: Sia il regime che l’opposizione all’inizio hanno corteggiato i Curdi. Il regime lo ha fatto perché non voleva che i Curdi si unissero all’insurrezione, e gli insorti lo hanno fatto perché volevano che si unissero a loro. L’SNC includeva nel suo programma il riconoscimento di diritti minori – non fino alla misura di riconoscere loro il diritto di autodeterminazione – ma questa non è neanche una richiesta unanime dei Curdi in Siria, sebbene io sarei fortemente a favore della difesa di questo diritto.

Il movimento curdo siriano ha preso l’occasione e ha preso il controllo delle zone curde. La forza dominante tra i Curdi siriani è legata al PKK, (Partito dei lavoratori del Kurdistan) che è predominante nella parte  del Kurdistan  controllata dai Turchi e ha coltivato legami con il regime siriano nel corso degli anni. I Curdi, però non interferiscono direttamente nella guerra civile; sono occupati a controllare la loro area, stabilendo di fatto un’autonomia come è accaduto in Iraq. Potrei a malapena immaginare che in futuro la perderebbero – quindi questo per loro è un risultato. Mantengono una certa distanza dalla guerra civile, a parte scontri con i jihadisti di tanto in tanto.

TC: Come descriverebbe la situazione nelle aree controllate dal FSA? Chiaramente la situazione umanitaria è un disastro, ma come la descriverebbe dal punto di vista politico?

GA: Sì, la situazione umanitaria è assolutamente pessima. In molte delle aree dove l’opposizione è subentrata e si è liberata dello stato Bahatista,  abbiamo visto la creazione di comitati democratici locali, con  qualche forma di elezioni. Questo è un fatto assolutamente positivo, ma è in un certo modo normale quando sparisce l’autorità in un luogo, tentare di organizzare qualcosa per rimpiazzarla. Non si dovrebbero dipingere questi comitati come ‘sovietici’ o niente altro del genere . sarebbe completamente fuori luogo. Queste strutture possono rappresentare un interessante potenziale per il futuro, ma per il momento sono soltanto misure di auto-organizzazione allo scopo di porre fine al vuoto di potere creato dal crollo delle locali organizzazioni statali.

TC: Come riassumerebbe quello che la sinistra dovrebbe fare riguardo alla Siria?

GA: E’ veramente importante dichiararsi solidali con l’insurrezione siriana e non essere timorosi al riguardo. Se crediamo nel diritto delle persone all’autodeterminazione, se crediamo nel diritto delle persone a eleggere liberamente chiunque vogliano, allora perfino se avessimo un’insurrezione guidata da forze islamiche, questo non dovrebbe cambiare la nostra posizione – come per esempio è successo con Gaza e Hamas, o con la resistenza irachena che, vorrei ricordare alla gente, è stata molto di più sotto il controllo islamico di qualsiasi altra cosa ci sia stato in Siria.

Per tutte queste ragioni penso che sia molto importante esprimere solidarietà alla rivoluzione siriana, costruire collegamenti con i progressisti dell’opposizione siriana, reagire alla propaganda del regime anche a quella di Mosca e denunciare la complicità di Washington e dell’Occidente nel crimine contro l’umanità che viene perpetrato in Siria.

www.znetitaly.org

Originale: Socialist Resistance  Traduzione di Maria Chiara Starace

RIVOLUZIONE, CONTRORIVOLUZIONE E GUERRA CIVILE IN SIRIA

Roma, 20-21-22 settembre 2013  Communiafest

Quali pensi siano le differenze e le analogie tra la minaccia di un intervento Usa in Siria e quello contro l’Iraq?
Penso che la comparazione con la vicenda irachena sia effettivamente interessante. Ciò che c’è in comune tra quanto accade in Siria oggi e in Iraq nel 1991 e poi nel 2003 non è la creazione da parte degli Usa di pretesti per controllare il paese. Contrariamente a quanto pensa qualcuno, questa è un’idea davvero superficiale e sostanzialmente falsa. Prima di tutto dobbiamo sottolineare che l’Iraq rappresenta uno dei principali produttori petroliferi e rappresenta uno dei principali obiettivi per l’imperialismo Usa che aveva un interesse primario nel controllare quel paese. L’invasione del Kuwait da parte irachena nel 1991 ha fornito agli usa un’opportunità per farlo: così gli Usa hanno colto l’opportunità per tornare in forma massiccia nel Golfo, che è la più importante regione petrolifera del mondo e questo ha importanti conseguenze strategiche.
Gli Usa sono intervenuti in maniera massiccia nel Golfo e hanno potuto costruire basi militari nella regione e da allora sono ancora presenti con una potente presenza militare.
Ma il regime iracheno non è stato rovesciato nel 1991 anche se sarebbe stato davvero semplice per Washington – dopo aver distrutto il paese e aver portato le truppe in profondità nel paese – raggiungere Baghdad e rovesciare il regime. Perché non lo hanno fatto? Perché non avevano alternative al regime di Saddam e non avrebbero potuto controllare il paese; non avevano alcuna fiducia nella popolazione irachena e visto che erano in corso sollevazioni nel sud e nel nord del paese in marzo, immediatamente dopo la guerra Usa, le truppe statunitensi si ritirarono da aree chiave per permettere alle truppe di Saddam Hussein di entrarvi e distruggere le rivolte. Questo è quello che successe.
E questa è la prima lezione e comparazione che si può fare con la Siria.
In Iraq nel 2003 successe qualcos’altro: Bush Jr. decise di invadere il paese e di controllarlo direttamente – utilizzando il pretesto delle armi di distruzione di massa – e in qual momento non erano in corso rivolte nel paese. Invasero l’Iraq ma questo si tradusse in un grosso fiasco , un’importante sconfitta per gli Usa che furono costretti a lasciare l’Iraq alla fine del 2011 dopo anni di occupazione con terribili costi in termini di vite umane (soprattutto, dal loro punto di vista, vite statunitensi) – terribili costi per gli Usa, per non parlare della distruzione dell’Iraq.
È stata una tale sconfitta che la lezione appresa è “non possiamo rovesciare gli stati in qualsiasi paese della regione, dobbiamo trovare persone nostre partner all’interno di questi stati senza cambiarne la struttura. Abbiamo fatto un errore nel 2003 in Iraq e non possiamo ripeterlo. Dobbiamo invece tornare alla posizione del 1991 quando abbiamo lasciato al potere Saddam Hussein perché non avevamo alternative e gli abbiamo permesso di distruggere il movimento”.
Fino al 20011, quando sono iniziate le rivoluzioni arabe quello che Washington voleva nella regione era un cambiamento delle persone al potere senza alcuno smantellamento dello stato, mantenendo la struttura statale, gli apparati statali, in particolare le forze armate, perché Washington teme la destabilizzazione di questi paesi e della regione. Questa è la loro posizione.

Questo è esattamente quello che hanno cercato di fare in Libia, dove sono intervenuti senza essere stati invitati dalla rivolta a mandare truppe sul terreno; hanno cercato di bombardare a distanza per controllare la sollevazione, con bombardamenti a “bassa intensità” per avere il tempo di negoziare con Seif el Islam Gheddafi, il figlio di Muhammar Gheddafi, per una qualche soluzione che rimuovesse il padre dal potere; questa sarebbe stata una soluzione accettabile per la Nato, anche perché Seif manteneva ottimi rapporti con diversi paesi della Nato.
Questo tentativo è completamente falliti perché la rivolta in Libia non ha lasciato spazio a tale soluzione: c’è stata l’insurrezione a Tripoli e il completo collasso dello stato di Gheddafi. Questo è quello che temono possa succedere in Siria: non vogliono che il regime si sgretoli, non vogliono il collasso dello stato come in Libia e come hanno prodotto in Iraq nel 2003. Vogliono salvaguardare lo stato siriano, vogliono quello che Obama chiama la “soluzione yemenita” per cui Bashar el Assad si dimetta consegnando il potere a qualche altro membro del regime aprendo la strada a qualche forma di compromesso per fare entrare nel governo alcune figure dell’opposizione, e questo verrebbe imposto sulla testa della popolazione siriana. Questo è ciò che sostanzialmente vuole Washington e questo è il motivo per cui non hanno mai messo in conto alcun intervento militare massiccio.
In questo senso Obama – quando a minacciato l’intervento in seguito alla questione delle armi chimiche – ha specificato che si sarebbe trattato di attacchi limitati per “punire” il regime siriano per aver usato tali armi ma assolutamente non per cambiare l’equilibrio di forze nel paese. Questo è quello che hanno dichiarato. Non vogliono rovesciare il regime siriano.

Allo stesso tempo hanno capito che anche per raggiungere il tipo di compromesso che vogliono, questo non può essere ottenuto fino a quando il regime mantiene l’egemonia militare. Ci hanno messo 2 anni a capirlo e il prezzo è stato pagato dalla popolazione siriana con terribili uccisioni di massa da parte del regime e la distruzione del paese con i pesanti bombardamenti aerei. Il regime uccide il proprio popolo e distrugge il proprio paese Washington si è limitato a guardare, mentre Israele è soddisfatto dell’autodistruzione del paese – perché non hanno fiducia in Bashar el Assad ma hanno ancora meno fiducia nella sollevazione siriana.
Nonostante ciò gli Usa hanno ora capito che devono permettere che alcune armi arrivino all’opposizione siriana se vogliono mantenere un equilibrio di forze che convinca il regime a cedere al compromesso. Questo è il massimo che Washington contempli. Ma, come sempre, quello che pensano non è certo che accada e questo è il problema, l’incertezza sulla loro capacità di controllare la situazione – così come in Libia la situazione è sfuggita al loro controllo.
Ed è questa una dimostrazione che il potere degli Usa – nella regione e anche globalmente – è in chiaro declino e lo è da diversi anni, sullo sfondo della sostanziale sconfitta in Iraq e della crisi economica globale e questo porta ad un indebolimento degli Usa come abbiamo visto recentemente in Siria.

Naturalmente siamo totalmente contrari ad ogni tipo di intervento militare degli Usa e di altri governi occidentali in Siria, anche se siamo coscienti che è in corso un pesante intervento esterno di Russia e Iran, ma cosa pensi dobbiamo fare, quali sono i nostri compiti?
Certamente oggi in Siria è in corso un pesante intervento da parte di Russia, Iran e degli alleati dell’Iran come Hezbollah mentre non c’è stato alcun intervento di questo genere al fianco di Gheddafi in Libia. In ogni caso siamo totalmente contrari ad un intervento Usa o Nato nella regione perché anche se sembra essere di sostegno alle sollevazioni, contro le dittature, come hanno sostenuto in Libia, il modo migliore per farlo è lasciare che il popolo lo faccia in proprio, permettendo che abbia le armi. La rivoluzione libica, come quella siriana, hanno chiesto costantemente di avere armi per contrastare lo sbilanciamento tra i loro mezzi militari e quelli del regime – specialmente oggi in Siria dato che il regime ha mezzi militari potenti ed è sostenuta in maniera massiccia da Russia e Iran.
Se si vuole sostenere la rivoluzione bisogna fornire armi, altrimenti perché intervenire – e infatti in Libia e in Siria un intervento della Nato ha l’obiettivo di controllare le sollevazioni; anche per questo sono contrario all’intervento, come ero contrario in Libia (a parte per i primi giorni di fronte al rischio di un pesante massacro a Bengasi quando sostenni che nessuno poteva opporsi al bombardamento dei carri armati del regime per prevenire il massacro – una questione di pochi giorni e una volta che il pericolo di un massacro fosse stato evitato il punto era di opporsi alla continuazione di tale intervento e chiedere che la sollevazione ottenesse le armi che aveva bisogno).
In Siria oggi ogni intervento militare massiccio occidentale diretto porterebbe ad una catastrofe nella quale molte decine di migliaia di persone si aggiungerebbero al già enorme numero di vittime della guerra civile siriana.
Per contrastare il sostegno russo e iraniano al regime siriano si devono fornire armi all’opposizione siriana allo stesso modo in cui la Russia dà armi al regime – nessun intervento diretto nel conflitto. Specialmente – insisto su questo – perché questo intervento avrebbe come obiettivo quello di mantenere al potere questo regime e non di rovesciarlo, contrariamente a quanto pensano molti non comprendendo la situazione.

Quale ritieni debba essere la nostra solidarietà, il nostro sostegno politico e sociale alla rivoluzione?
In primo luogo deve essere un sostegno politico perché nella guerra di propaganda tra la rivoluzione e il regime si deve riconoscere che il regime è molto più potente. Dall’inizio della sollevazione, quando si trattava chiaramente di una rivolta pacifica democratica e laica, hanno immediatamente detto che si trattava di jhiadisti, di fondamentalisti sunniti e allo stesso tempo il regime ha rilasciato dalle carceri membri di Al Qaeda così da far precipitare la costruzione di tale organizzazione all’interno della rivolta per screditarla. Un’operazione davvero machiavellica.
Dobbiamo contrastare questa propaganda, sostenere la rivoluzione, spiegare che è vero che ci sono forze reazionarie islamiste che si sono sviluppate all’interno della sollevazione ma non rappresentano la maggioranza della popolazione siriana che vuole democrazia, uno stato democratico e non uno stato fondamentalista islamico.
Più a lungo rimane al potere questo regime peggiore sarà il futuro della Siria. Il regime deve essere fermato e questa è la questione principale da spiegare, appellandosi allo stesso tempo alla solidarietà con la sollevazione, con le forze secolari della rivoluzione – e quando parliamo di rivendicazioni popolari dobbiamo sostenerle con armi e quello che serve loro.
Come forze rivoluzionarie dobbiamo sostenere le forze della sinistra che si trovano in Siria, ma devo dire che – purtroppo – esistono solamente piccole forze organizzate di sinistra in Siria anche se ci sono molte persone con prospettive di sinistra e se cade il regime possono essere in grado di creare una corrente di sinistra credibile in Siria. Ma fino a quando continua la guerra, saranno molto marginali.

tratto da communianet.org

RIVOLUZIONE E GUERRA CIVILE IN SIRIA

Questa intervista è stata realizzata in arabo da Oudai al-Zoubi per il quotidiano Al-Quds Al-Arabi che l’ha pubblicata il 25 agosto. Nella presentazione Al-Quds Al-Arabi precisa: «Considerando che tutti coloro che si dichiarano di sinistra non possono che essere al fianco del popolo siriano nella lotta contro la tirannia, Gilbert Achcar sostiene che ormai la resistenza popolare è l’unica via che porta alla vittoria della rivoluzione siriana» (Redazione di A l’Encontre).

Alcuni militanti di sinistra temono l’islamizzazione della rivoluzione e questo li ha spinti a volte a lottare contro di essa o comunque a non sostenerla. Qual è il suo parere, in quanto marxista, sulla posizione da adottare di fronte alla rivoluzione siriana?
Gilbert Achcar: È normale che tutti coloro che credono nella democrazia – e la democrazia presuppone evidentemente la laicità – temono l’emergere di una forza religiosa che prende come fonte per la legislazione dei testi sacri invece della volontà del popolo. Tutti temiamo che la grande sollevazione araba, su cui abbiamo riposto molte speranze, si trasformi in regressione reazionaria. C’è già un precedente storico: la rivoluzione iraniana che è iniziata come rivoluzione democratica ed è sfociata in uno Stato integralista. Questa paura è dunque naturale per chi crede nella democrazia.
Aggiungo a questo che le forze religiose sono quelle che più spesso in questo stadio prendono il potere, le forze nazionalistiche e di sinistra o sono troppo deboli o sono state molto indebolite. Ma, malgrado tutto ciò che constatiamo, resto ottimista. Infatti c’è un’enorme differenza tra l’arrivo al potere di Khomeini in Iran e quello degli islamici nelle rivolte arabe. Khomeini era il capo della rivoluzione iraniana, era il suo vero dirigente, così non è per i movimenti islamici attuali. Essi non sono all’origine delle rivoluzioni arabe, vi si sono aggregati. Inoltre, come è possibile osservare in Tunisia e in Egitto, il loro arrivo al potere coincide con lo svilupparsi di uno spirito critico molto acuto tra la popolazione in generale e tra i giovani in particolare.
D’altronde non siamo di fronte a una rivoluzione compiuta, ma davanti a un processo rivoluzionario prolungato, che potrà durare ancora molti anni e che è mosso da contraddizioni socio-economiche che sono il maggior ostacolo allo sviluppo. Questi ostacoli sono legati alla natura profonda del sistema sociopolitico in atto e non solo alla corruzione visibile in superficie e additata da tutti. I movimenti islamici non hanno programmi seri per cambiare questo. Appare chiaro dalla lettura dei loro programmi che aderiscono alle ricette neoliberiste come i regimi al potere o quelli che sono stati rovesciati. Per questo motivo il processo proseguirà fino alla soluzione delle contraddizioni summenzionate.
Si può fare una lettura di classe della rivoluzione siriana?
Se ciò significa analizzare la rivoluzione siriana come una lotta di classe «pura», per esempio fra operai e borghesi, la mia risposta è no. La battaglia in Siria è contro una tirannia ereditaria: il movimento riunisce operai, contadini e piccoli borghesi e anche frange della borghesia. La rivoluzione siriana nella fase attuale è innanzitutto una rivoluzione democratica, nel quadro di una dinamica messa in moto dalle contraddizioni socio-economiche di cui ho già parlato. Risolvere queste contraddizioni sul lungo periodo sarà possibile solo eliminando la struttura di classe esistente, adottando delle politiche di sviluppo centrate sullo Stato, ma in un quadro democratico e non dittatoriale come è avvenuto negli anni ’60.
Quando il popolo si sarà sbarazzato della tirannia, le divisioni di classe inevitabilmente emergeranno nel processo rivoluzionario. Ma per il momento, è il popolo in tutte le sue componenti di classe che vuole liberarsi della dittatura. Chiunque si considera di sinistra non può che essere al fianco del popolo siriano nella lotta contro la tirannia.

Lei ha previsto l’inevitabile militarizzazione della rivoluzione fin dalla sua fase iniziale. Perché?
Guardi l’Egitto e la Tunisia dove hanno avuto buon esito delle rivoluzioni pacifiche. L’appello lanciato il 25 gennaio in Egitto era il risultato di grandi scioperi operai e di proteste politiche fatte da movimenti come Kefaya, con una forte presenza in piazza delle forze di opposizione religiose organizzate. Le manifestazioni del 25 gennaio hanno certamente dato fuoco alle polveri. In Siria, invece, la fortissima repressione è stata la ragione del ritardo dell’estensione del movimento alle principali città del paese, che non avevano vissuto alcuna accumulazione precedente di scioperi e proteste come nel caso dell’Egitto o della Tunisia.
Questo ritardo non era dovuto al fatto che queste città fossero dalla parte del regime, come è stato detto. La ragione del ritardo dello scoppio della rivolta di Aleppo e Damasco non è tanto dovuta all’importanza della base sociale del regime quanto al massiccio dispiegamento delle forze di repressione e all’assenza di esperienze di lotta precedenti.
Arrivo ora alla questione della militarizzazione. Non sono un sostenitore della militarizzazione, preferisco i processi rivoluzionari pacifici. La militarizzazione genera una distruzione enorme, spinge verso una degenerazione dell’opposizione e minaccia la  nascente democrazia, dato che le organizzazioni militari raramente sono democratiche.
Tuttavia – fin dall’inizio, come lei ha sottolineato – ho sostenuto che la militarizzazione della rivoluzione siriane era inevitabile. Con l’inizio della formazione dei gruppi dell’Esercito siriano libero, alcuni membri del Consiglio nazionale siriano hanno fatto appello per un intervento straniero diretto che, nelle loro intenzioni, avrebbe permesso di controllare la militarizzazione. Altri – in particolare i membri del Comitato nazionale di coordinamento – hanno lanciato un appello affinché il movimento si limitasse alla lotta pacifica, condannando la militarizzazione.
Dal mio punto di vista, queste due posizioni erano il frutto di una carenza strategica. Il regime siriano è sostanzialmente diverso da quello dell’Egitto e della Tunisia. In Siria, come precedentemente in Libia, esiste un legame organico tra l’istituzione militare e la famiglia regnante, mentre in Egitto e in Tunisia, Mubarak e Ben Ali provenivano dall’istituzione militare ma non ne erano gli artefici. La riorganizzazione dello Stato, in particolare le forze armate, da parte di Gheddafi e Hafez el-Assad ha reso l’abbattimento pacifico dei loro regimi del tutto illusorio.
Hafez el-Assad ha ricostruito le forze armate siriane su ben note basi confessionali. E facendo questa constatazione, non condanniamo assolutamente una comunità religiosa specifica [alauita]; denunciamo, piuttosto, il confessionalismo del regime. Non si tratta di sostituire un confessionalismo con un altro, ma di ricostruire lo Stato su basi non confessionali.
Non è possibile scommettere sull’abbandono del tiranno da parte delle unità d’élite in paesi come la Libia o la Siria. Rovesciare pacificamente il regime in paesi come questi è impossibile. Le rivoluzioni, come le lotte di liberazione nazionale, non possono tutte concludersi in modo pacifico. La strategia non si definisce in funzione di ciò che sarebbe sperabile, ma in funzione della natura dello Stato. Per questa ragione ho sostenuto fin dall’inizio che il rovesciamento del regime siriano non potrà realizzarsi che attraverso la lotta armata.
Invece, l’appello per un intervento straniero è un grave errore. Ho elencato  i rischi che creerebbe un simile intervento in un mio contributo durante una riunione dell’opposizione siriana a Stoccolma e poi nell’articolo pubblicato in seguito dal giornale Al Akhbar di Beirut. Alcuni di questi rischi hanno spinto gli stessi paesi occidentali a rifiutare immediatamente la militarizzazione. I dirigenti occidentali oggi giudicano molto negativamente l’espansione dell’organizzazione Al-Qaida in Siria; sono molto preoccupati. Se ora iniziano a intravedere la possibilità di un intervento diretto, non è certamente per amore del popolo siriano, ma unicamente in ragione del loro timore di Al-Qaida e di gruppi simili. Anche in Libia un uguale timore per la deriva della situazione e il tentativo di prendere il controllo del processo di cambiamento ha motivato il loro intervento. Ma il tentativo è fallito.
Esiste una terza illusione riguardo la Siria, diffusa dagli Stati Uniti: la cosiddetta soluzione yemenita alla quale ha fatto appello Obama, insieme ad altri. Questa consisterebbe nel passare attraverso un accordo con il principale sostenitore di Assad, la Russia, affinché lo abbandoni come i sostenitori sauditi hanno abbandonato Ali Abdallah Saleh. È una pura illusione. Come ho già detto, gli apparati centrali dello Stato sono organicamente legati alla famiglia regnante in Siria e sono costruiti su basi confessionali. È impensabile che abbandonino il potere senza una sconfitta sul terreno, anche si arrivasse ad un’uscita di scena di Bashar el-Assad come è accaduto con Ali Abdallah Saleh in Yemen.
Queste tre illusioni sono il risultato di una carenza strategica nella comprensione della realtà e delle differenze tra la Siria, da un lato, l’Egitto, la Tunisia e lo stesso Yemen dall’altro. Questa carenza ha fatto sì che l’opposizione non sapesse prendere l’iniziativa di organizzare la militarizzazione su delle basi sane. Alla fine dei conti, la democrazia in Siria vincerà solo spezzando l’apparato del potere, ossia smantellando le forze armate per ricostruirle su delle basi che non siano confessionali né dittatoriali.
Alcuni pensano che la militarizzazione porti alla guerra civile. La Siria è entrata in guerra civile?
Sicuramente, da molti mesi. Ma la guerra civile non significa guerra confessionale. La guerra civile designa ogni conflitto armato che contrappone parti della stessa società, come nel caso della guerra civile spagnola negli anni ’30, o in Francia dopo la rivoluzione del 1789 o in Russia dopo quella del 1917. Le guerre civili non sono necessariamente confessionali o religiose. Quando sostenevo, più di un anno fa, che la Siria andava inevitabilmente verso la guerra civile, non intendevo con questo una guerra confessionale. Volevo solo sottolineare l’inevitabilità dello scontro militare senza il quale il regime non avrebbe potuto essere abbattuto.
Inoltre, il regime ha cercato, e cerca ancora, di far esplodere una guerra confessionale, aiutato in questo da alcune forze reazionarie interne all’opposizione. Abbiamo visto come, fin dai primi giorni, il regime ha attribuito la rivolta a dei gruppi salafiti o ad Al-Qaida. Questa propaganda del regime lanciava due messaggi: l’uno indirizzato alle minoranze e l’altro ai sunniti normali che rifiutano il wahhabismo, senza dimenticare il terzo messaggio rivolto ai paesi occidentali. In realtà, più il conflitto si prolunga, più le forze confessionali si rafforzano. È indispensabile impedire il prevalere della logica confessionale. Per questo l’opposizione deve adottare una posizione ferma contro le posizioni confessionali.
D’altro canto, l’appello per un movimento assolutamente pacifico fatto con il pretesto di mettere in guardia dal confessionalismo, come hanno fatto alcuni esponenti della sinistra siriana, è stato accompagnato da un appello al dialogo con il regime. Salta immediatamente agli occhi che questi appelli non avranno alcun risultato. Le forze di sinistra avrebbero dovuto adottare una posizione radicale fin dall’inizio del movimento, avrebbero dovuto chiamare al rovesciamento del regime e non ad un illusorio dialogo con esso. Malgrado il mio profondo rispetto per alcuni militanti della sinistra siriana, penso che questi appelli erano, e restano, delle prediche nel deserto.
Per un altro verso, la militarizzazione non porta all’eliminazione del carattere popolare pacifico della rivoluzione ?
Ho già avuto occasione di dire che il dilemma strategico principale della rivoluzione siriana era quello di riuscire a combinare il movimento pacifico di massa con la lotta armata. Non è concepibile, di fronte a un regime come quello siriano, che la lotta pacifica possa proseguire all’infinito. Ciò equivarrebbe a sperare che i manifestanti pacifici continuino a farsi sgozzare come agnelli, giorno dopo giorno.
È il classico dilemma delle rivoluzioni popolari contro dei regimi tirannici che non esitano ad ammazzare. Allora si impone la creazione di un braccio armato della rivoluzione per proteggere il movimento pacifico e attuare una guerriglia contro le forze del potere e le sue milizie omicide (shabbiha).
Lo scivolamento verso una guerra confessionale porterebbe, invece, al prolungamento del conflitto e all’allargamento della base del regime di Assad piuttosto che a un suo restringimento. La soluzione risiede nel costruire delle reti di resistenza popolare intorno ad una carta democratica che rifiuti chiaramente il confessionalismo, di già vediamo l’inizio. Questo è cruciale per il futuro della rivoluzione e dello Stato in Siria.

Traduzione di Cinzia Nachira dalla versione francese, pubblicata dal sito web A l’Encontre. L’intervista è stata realizzata in arabo da Oudai al-Zoubi per il quotidiano Al-Quds Al-Arabi che l’ha pubblicata il 25 agosto. La traduzione in francese è di Jihane Al Ali per conto del sito A l’Encontre.

CONTINUAZIONE E DIFFICOLTA’ DEI PROCESSI RIVOLUZIONARI NEL MAGHREB E NEL MASHREK
agosto 2013

Come analizzi i recenti avvenimenti in Egitto e in Tunisia?

Gilbert Achcar: Vi sono certamente dei cambiamenti qualitativi, ma ciò che è iniziato a fine 2010, inizio 2011, è un processo rivoluzionario di lunga durata. L’idea che le vittorie elettorali delle forze provenienti dall’integralismo islamico in Tunisia e in Egitto avrebbero chiuso tale processo si è rivelata completamente errata. Queste forze erano destinate all’insuccesso nella misura in cui non danno risposte ai gravi problemi sociali ed economici all’origine dei sollevamenti. Esse si collocano nel solco della continuità delle ricette neoliberali. Il processo rivoluzionario può prendere delle forme sorprendenti, ma continueremo per lungo tempo a passare da un rivolgimento all’altro su scala regione prima di una stabilizzazione della situazione che supporrebbe, in un’ipotesi positiva, un cambiamento profondo della natura sociale dei governi.

Come vedi il conflitto in corso in Egitto?

In Egitto è necessario distinguere due livelli: le manovre e i conflitti per la conquista del potere e la dinamica popolare di fondo. Quest’ultima ha conosciuta una seconda ondata, dopo quella del 2011, la quale è sfociata, come la precedente, in un intervento dell’esercito. Già Mubarak era stato messo da parte, nel febbraio 2011, dai militari che hanno preso, in quest’occasione, il potere. Questa volta, si sono astenuti dal ripetere la stessa operazione, essendosi già bruciati le dita. Ma i civili designati alla testo dell’esecutivo non possono nascondere il fatto che l’esercito stia esercitando il potere.
L’argomento secondo il quale l’esercito è intervenuto contro un governo democraticamente eletto rinvia a una concezione parecchio destroide secondo la quale gli eletti hanno carta bianca durante il loro mandato, anche se tradiscono le attese dei loro elettori e delle loro elettrici. Una concezione radicale della democrazia implica il diritto alla revoca degli eletti. È questa forma che ha assunto il movimento in Egitto, grazie alla petizione lanciata dai giovani del movimento Tamarrod (“Ribellione”) con la quale si chiedeva la partenza di Morsi e nuove elezioni: in qualche mese hanno raccolto un numero impressionante di firme, ben superiore al numero di voti ottenuto da Morsi con la sua elezione. Da questo punto di vista, la sua revoca era, dunque, assolutamente legittima.
Invece, il grande problema è che piuttosto di organizzare il movimento di massa al fine di rovesciare Morsi attraverso lo sciopero generale o la disubbidienza civile, abbiamo visto i dirigenti dell’opposizione liberale e di sinistra accordarsi con i militari e applaudire il loro colpo di stato, la cui logica è di captare il potenziale di mobilitazione e di incanalarlo a favore di un ordine repressivo. Ciò è molto grave. Ed è a questo livello che si registra una forte carenza della sinistra egiziana nelle sue componenti maggioritarie. Oggi, anche i giovani di Tamarrod iniziano a inquietarsi, ma un po’ tardi, rispetto all’ingranaggio nel quale si sono fatti loro stessi prendere. Il colpo di Stato permette ai Fratelli musulmani di rifarsi una verginità politica presentandosi come martiri, vittime di un golpe militare. Hanno ricompattato la loro base sociale, certo minoritaria – è adesso evidente – ma comunque importante.

Cosa pensi della situazione politica tunisina e delle risposte che cercano di dare i tunisini per mettere fine al potere di Ennahdha?

Sfortunatamente, il rischio è quello di avere in Tunisia uno scenario simile a quello che conosce l’Egitto: una sinistra che non ha la lucidità politica di battersi su un programma di sinistra e che si appresta a concludere delle alleanze addirittura con i settori del vecchio regime presenti in seno a Nidaa Tounès. Questo tipo di operazioni va, in ultima analisi, a beneficio delle forze islamiste che hanno gioco facile nel denunciare la compromissione della sinistra con i resti del vecchio regime. Il problema è che invece di cercare di conquistare l’egemonia nel movimento di massa battendosi in primo luogo sulla questione sociale, la sinistra si colloca in alleanze di breve respiro con dei settori del vecchio regime. In un paese come la Tunisia, a mio parere, la centrale sindacale UGTT è una forza socialmente egemonica e che può anche facilmente diventarlo politicamente. Ma piuttosto di lanciare la centrale sindacale nella battaglia politica con nel collimatore l’obiettivo un governo dei lavoratori, la sinistra tunisina, oggi alla testa dell’UGTT, sembra orientarsi verso delle alleanze contro-natura.
Malgrado queste difficoltà, le rivolte continuano in numerosi paesi…
Nei sei paesi che sono stati maggiormente colpiti dai sollevamenti del 2011, i movimenti di massa continuano. In Libia, il ribollimento è permanente. I media non lo mostrano, ma vi sono, in continuazione, delle mobilitazioni popolari, in particolare contro gli integralisti, e le istituzioni elette sono sottoposte a diverse pressioni da parte della base popolare. Nello Yemen, il movimento continua, anche se è stato indebolito dal compromesso nel quale si è infilata una parte delle forze dell’opposizione. Delle forze radicali continuano a battersi contro questo simulacro di cambiamento. Nel Bahrein, il movimento popolare prosegue contro la monarchia. E in Siria, la guerra civile ha raggiunto il suo apice, con un livello altamente tragico, anche a causa la feroce contro-offensiva del regime, sostenuto dalla Russia, dall’Iran e l’Hezbollah libanese. La Siria è un caso flagrante di cinismo delle grandi potenze, le quali lasciano massacrare un popolo nei confronti del quale nutrono un sentimento di diffidenza.

Dunque, due anni e mezzo dopo lo scoppio del processo, questo prosegue a pieno regime?

Una dinamica rivoluzionaria si è innescata nel 2011, un processo di lunga durata che conoscerà degli alti e bassi, degli episodi di reazione, di contro-rivoluzione e delle ripartenze rivoluzionarie. Ma affinché questo processo conosca una soluzione positiva, sarà necessario che si affermino delle forze portatrici di risposte progressiste nei confronti dei problemi posti sul piano sociale ed economico. In assenza di queste, ci saranno altri scenari possibili, di regressione, di reazione, di alleanze repressive contro le popolazioni, formate da coloro che oggi sembrano essere su fronti opposti, militari e integralisti. Non vi è nessuna fatalità in un senso come nell’altro, è una situazione aperta, in pieno ribollimento. La sinistra deve urgentemente affermare una terza via indipendente, contro i vecchi regimi e contro gli integralisti, per la soddisfazione delle rivendicazioni sociali di coloro che hanno animato questi sollevamenti.
Intervista a cura di Jacques Babel
(Tout est à nous!, n° 206, 1 agosto 2013)

SVILUPPO E DIFFICOLTA’

Il processo rivoluzionario nella regione araba non smette di sorprendere i media. Come analizzi i recenti avvenimenti in Egitto e Tunisia?

Ci sono certo stati dei cambiamenti qualitativi ma il fatto stesso che ci siano state nuove turbolenze nonpotrebbe sorprendere se si è compreso che quel che si è messo in moto dalla fine del 2010 – inizio del 2011 è un processo rivoluzionario di lunga durata. L’idea che i successi elettorali delle forze provenienti dall’integralismo islamico in Tunisia e in Egitto potessero chiudere i processi si è rivelata del tutto erronea.  Queste forze erano destinate al fallimento nella misura in cui, come i regimi che avevano sostituito, non avevano risposte ai gravissimi problemi sociali ed economici che sono all’origine delle sollevazioni. Esse si collocano nella continuità delle ricette neoliberiste e non saprebbero risolvere quei problemi, che non fanno altro che aggravarsi. Il processo rivoluzionario può assunere forme sorprendenti, ma si continuerà a passare a lungo da uno sconvolgimento a un altro su scala regionale, prima di una stabilizzazione della situazione, che presupporrebbe in un’ipotesi positiva un cambiamento profondo della natura sociale dei governi, in direzione di politiche centrate sugli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori.
Come vedi lo scontro attualmente in corso in Egitto?

In Egitto oggi bisogna distinguere tra i due livelli: le manovre e i conflitti intorno al potere, e l’onda profonda del movimento popolare. Questa conosce una seconda esplosione dopo quella del 2011, ma che sbocca, come le precedente, in un intervento dell’esercito. Mubaraq nel febbraio 2011 era già stato scartato dai militari, che avevano preso direttamente il potere: il Consiglio superiore delle Forze Armate si era impadronito del vertice dell’esecutivo.

Questa volta si sono guardati bene dal ripetere la stessa operazione, dato che si erano scottati le dita tentando di governare direttamente il paese in una tale situazione di sconvolgimenti da provocare un’usura rapidissima di un qualsiasi governo che si limitasse a riproporre le politiche neoliberiste. I civili nominati alla testa dell’Esecutivo non possono nascondere il fatto che sono i militari a esercitare il potere. Ma detto questo, bisogna aggiungere che l’argomento secondo il quale l’esercito questa volta sarebbe intervenuto contro un governo democraticamente eletto risente di una concezione molto destrorsa della democrazia, secondo cui gli eletti hanno carta bianca per fare quel che vogliono durante la durata del loro mandato, anche se tradiscono in modo clamoroso le attese dei loro elettori ed elettrici. Una concezione radicale della democrazia implica il diritto alla revoca degli eletti. Ed è questa la forma che il movimento ha scelto in Egitto con la petizione per la cacciata di Morsi e per nuove elezioni lanciata dai giovani del movimento “Tamarrod” (Ribellione), che hanno riunito in pochi mesi un numero impressionante di firme, molto superiore a quello dei voti che Morsi aveva ottenuto per essere eletto alla presidenza. Da questo punto di vista, la sua revoca era del tutto legittima.
Tuttavia il  grosso problema è che invece di organizzare il movimento per rovesciare Morsi con gli strumenti della lotta delle masse – lo sciopero generale, la disubbidienza civile – si è visto che i dirigenti dell’opposizione liberale e di sinistra si accordavano con i militari e applaudivano il loro colpo di Stato, la cui logica finale era di captare il potenziale di mobilitazione popolare indirizzandolo a favore di un ritorno a un ordine autoritario, come è stato confermato dai comportamenti dei militari. Questo è molto grave, e a questo livello c’è una forte carenza della sinistra egiziana nelle sue componenti maggioritarie. Essa ha ridato smalto al blasone dell’esercito, e ha incensato il suo comandante in capo. Costui è il vero uomo forte del nuovo-antico regime. Quantunque sia ministro della Difesa, si è permesso di convocare la popolazione a manifestare a sostegno dell’esercito, ignorando totalmente il nuovo governo.
Oggi anche i giovani di Tanarrod cominciano a preoccuparsi, ma un po’ tardi, dell’ingranaggio in cui sono finiti loro stessi. Il colpo di Stato permette ai Fratelli Musulmani di rifarsi una verginità politica presentandosi come martiri e vittime di un putsch militare. Hanno riconsolidato la loro base sociale, certo minoritaria – attualmente è chiaro – ma pur sempre importante. L’azione dei militari ridà lustro alle loro insegne.

Dunque c’è stata una rapida usura dei movimenti islamici che avevano occupato il posto degli antichi regimi in Tunisia e in Egitto, ma anche la debolezza della sinistra oggi pone seri problemi?

Al di fuori della sinistra rivoluzionaria, che resta marginale in Egitto, la maggior parte della sinistra si è impegnata nel Fronte di Salvezza Nazionale. Le correnti provenienti dal movimento comunista tradizionale e quella nasseriana, che resta la più importante a livello di influenza popolare, hanno partecipato alla campagna di mistificazione sul ruolo dell’esercito. È tanto più deplorevole che queste forze erano state in piazza contro l’esercito nei mesi che avevano preceduto l’elezione di Morsi! Quando Sabahi, il leader nasseriano, spiegava qualche giorno prima del 30 giugno che era un errore aver gridato un anno prima “Abbasso il governo dei militari”, ricavava una pessima lezione dalla storia. Quello che è un errore è pentirsene e pensare che bisogna di nuovo applaudire l’esercito.
Cosa pensi dei mezzi a cui ricorrono i tunisini per mettere fine al regime di En-Nahda?

Disgraziatamente si rischia di avere in Tunisia uno scenario analogo a quello egiziano: una sinistra che non ha la lucidità politica di battersi sulla base di un programma di sinistra, e che si appresta a stringere alleanze perfino con i resti dell’antico regime presenti in Nidaa Tounès.
Questo tipo di impostazione va a beneficio delle forze islamiste  che hanno il gioco facile a denunciare la compromissione della sinistra con i resti del vecchio regime. Questo permette ai Fratelli musulmani o a En-Nahdha di presentarsi come difensori della legittimità e della continuità della rivoluzione.

C’è dunque un problema di rappresentanza politica degli strati popolari nella rivoluzione?
Si, il problema è che invece di cercare di conquistare l’egemonia nel movimento di massa impegnandosi soprattutto sulla questione sociale, anche a rischio di veder coalizzarsi contro di essa tutti i sostenitori del neoliberismo – che vanno dagli integralisti agli uomini del vecchio regime, passando per i liberali – la sinistra si inserisce in alleanze dall’ottica angusta con settori del vecchio regime.
In un paese come la Tunisia, a mio avviso, la centrale sindacale UGTT è una forza socialmente egemonica, e che può facilmente divenire tale anche a livello politico. Ma attualmente una muraglia è stata eretta tra il sindacale e il politico. La sinistra tunisina, oggi alla testa dell’UGTT, piuttosto che lanciare la centrale sindacale nella battaglia politica con all’orizzonte un governo dei lavoratori, sembra orientarsi verso alleanze contro natura tra i suoi raggruppamenti politici organizzati nel Fronte Popolare, da una parte, e i liberali e i residui del vecchio regime dall’altra.
Nonostante queste difficoltà negli sbocchi, le rivolte continuano in numerosi paesi, e si vedono apparire dei movimenti “Tamarrod” in Libia, nel Bahreïn…
Nei sei paesi che sono stati più profondamente toccati dalle rivolte del 2011, i movimenti di massa continuano. In Libia è un’ebollizione permanente. I media non ne parlano, ma ci sono costantemente mobilitazioni popolari, soprattutto contro gli integralisti; le istituzioni elette sono sottoposte a pressioni diverse della base popolare. Nello Yemen il movimento continua anche se indebolito dal compromesso in cui si sono impantanate parte delle forze di opposizione. Alcune forze radicali, in particolare giovani e di sinistra, continuano a battersi contro questo simulacro di cambiamento.
Nel Bahreïn il movimento popolare continua contro la monarchia. E in Siria, la guerra civile è in un punto culminante, ha raggiunto un livello altamente tragico che vede oggi una controffensiva feroce del regime, sostenuto da Russia, Iran e Hezbollah libanese. La Siria è un caso flagrante di cinismo delle grandi potenze, che lasciano massacrare un popolo che non ispira loro altro che sfiducia.
Dunque, due anni e mezzo dopo l’inizio del processo, questo continua alla grande?

Una dinamica rivoluzionaria si è innescata nel 2011, un processo di lunga durata che conoscerà alti e bassi, episodi di reazione, di controrivoluzione, e anche di rilanci rivoluzionari. Ma per uno sbocco positivo a questo processo, occorre che emergano forze portatrici di risposte progressiste ai problemi posti sul piano sociale ed economico.
In mancanza di esse, sono possibili altri scenari, di regressione, di reazione, di alleanze repressive contro le popolazioni tra quelli che oggi sembrano contrapposti, militari ed integralisti. Non c’è nessuna fatalità in un senso o nell’altro, è una situazione aperta, in piena ebollizione. La sinistra deve urgentemente affermare una terza via indipendente, contro gli antichi regimi e contro gli integralisti, per la soddisfazione delle rivendicazioni sociali di tutte e tutti coloro che hanno partecipato a queste sollevazioni.

Pubblicato in  Tout est à nous !

GLI USA TEMONO IL COLLASSO DELLO STATO SIARIANO

a cura di Jean – Pierre Perrin*

Come spiegare l’ uso di armi chimiche da parte di un regime da tempo ormai sotto i riflettori ?

Dopo l’uso di armi chimiche nel mese di giugno , Barack Obama ha fatto un gesto , motivato dalle sue  dichiarazioni secondo le quali il loro uso avrebbe costituito il superamento della ” linea rossa”. Aveva infatti dato il via libera alla fornitura di armi ai ribelli. E questo fatto ha permesso ai ribelli di segnare una importante avanzata dal punto di vista militare. Tutto questo ha messo in grande difficoltà il regime. E la periferia di Damasco [dove sono avvenuti gli attacchi con le armi chimiche, ndr] è un punto  fondamentale per sconfiggere l’avversario . Saddam Hussein, trovatosi nella stessa difficile situazione, aveva proceduto allo stesso modo…

Ma il gas è stato utilizzato proprio mentre gli ispettori dell’ONU si trovavano a Damasco …

È l’argomento del regime, il solo che sentiamo ripetere . Invece, il momento era ideale per l’uso delle armi chimiche: avrebbe potuto sostenere che non era assolutamente logico ricorrervi  in queste condizioni. Inoltre, ha impedito agli  ispettori di effettuare il loro lavoro in tempo utile… Con delle semplici visite lampo sui luoghi, come avrebbero potuto trovare prove flagranti ? Se i governi occidentali erano alla ricerca di prove che permettessero un intervento in Siria , beh, un tale modo di procedere appare perlomeno sospetto. Ma è chiaro a tutti che essi sono riluttanti ad intervenire .

Un attacco occidentale può cambiare la dinamica  del conflitto ?

Tutto dipende dagli obiettivi . Se gli Stati Uniti distruggessero la flotta aerea a terra , il regime sarebbe notevolmente indebolito. Per gli altri obiettivi – i posti di comando, i missili… il governo ha avuto il tempo di spostare tutto.
Obama favorisce per la Siria la cosiddetta ” opzione yemenita ” ( il presidente Saleh è stato sostituito dal suo vice-presidente ) . Può funzionare anche in Siria?

Non credo. In effetti, gli Stati Uniti temono un crollo dello Stato siriano , che creerebbe una situazione analoga  a quella in Iraq . Un vero e proprio incubo . Da qui la loro idea di trovare un compromesso tra il regime e l’opposizione. Cogliamo il tentativo di attuare  questa politica nelle visite effettuate da John Kerry [ il Segretario di Stato americano , ndr ] in Russia . Se ci si trovasse veramente di fronte a relazioni  antagonistiche tra Mosca e Washington , non vi sarebbero stati rapporti di questo tipo. Questo è il motivo per cui Obama ha per molto tempo scartato l’idea di armare l’opposizione.

Washington ha cambiato politica alla luce dell’offensiva condotta dal regime con il sostegno di Hezbollah e di fronte ai toni trionfalistici di Bachar al – Assad . Ha fatto loro capire che l’opzione ” soluzione negoziata ” era finita se non ci fosse stata una fornitura di armi all’opposizione, con l’obiettivo di ripristinare almeno un certo equilibrio . E questo poiché Washington pensa che se il regime non vedrà aumentare le proprie difficoltà , continuerà a rimane sordo a qualsiasi appello e non si deciderà a negoziare. Per rendere immaginabile una soluzione alla crisi, appare dapprima necessario provocare una rottura all’interno del sistema . Ora , adottando il punto di vista di Washington , cioè privilegiare un accordo , che è in linea con l’idea di una rottura in seno allo Stato siriano, appare chiara la necessità di armare i ribelli. Obama non ha voluto farlo , temendo che, una volta armata, l’opposizione non si sarebbe fermata a metà strada. Conseguenza di tutto questo: il regime è ancora lì e, con l’aiuto dei suoi alleati , è stato in grado di marcare dei punti. Inoltre, è stata avanzata come scusante  la minaccia di Al Qaeda non consegnare armi : ed è successo proprio il contrario . La politica di Obama  dunque si è rivelata essere catastrofica . Non certo più  intelligente di  quella di Bush!

* Libération  31 agosto 2013. La traduzione in italiano è stata curata dalla redazione di Solidarietà del Cantone Ticino.

SIRIA TRA RIVOLUZIONE E CONTRORIVOLUZIONE
10 Luglio 2013

Intervista rilasciata dal Gilbert Achcar il 3 luglio al canale televisivo The Real News Network (TRNN) e trasmessa in due parti il 4 luglio. (Red)

Puoi darci la tua reazione alla notizia che il presidente Morsi, il leader democraticamente eletto d’ Egitto, è stato rimosso dal potere dall’esercito egiziano?

Direi che, in un certo senso, si tratta della ripetizione dello stesso scenario che ha avuto luogo nel febbraio 2011. Quel che effettivamente possiamo constatare in entrambi i casi è che si tratta di un colpo di stato, un colpo di stato militare, nel contesto di un immenso movimento di mobilitazione, con la sola differenza che coloro che sono al potere sono diversi e la composizione della folla, la mobilitazione di massa, è anch’essa diversa rispetto al 2011.
Nel gennaio 2011, nel gennaio-febbraio 2011, abbiamo assistito, come si sa, ad un immenso movimento di protesta, quella grande rivolta nella quale erano coinvolte tutte le correnti di opposizione al regime di Mubarak. Si trattava dei liberali, dei movimenti di sinistra, ma anche i Fratelli Musulmani. Essi rappresentavano una componente importante della mobilitazione in quel momento. In quella grande mobilitazione di massa si riscontravano lo stesso tipo di aspettative nei confronti dell’esercito, l’idea cioè che l’esercito sia dalla parte del popolo, che esso potrebbe rappresentare gli interessi del popolo. Mi ricordo, d’altronde, che proprio l’8 febbraio 2011, appena tre giorni prima della caduta di Mubarak, The Real News Network mi aveva intervistato ed avevo messo in guardia contro simili illusioni circa l’esercito e i militari.
Quello che stiamo vedendo adesso è solo il risultato di una sorta di gioco delle parti. I Fratelli Musulmani sono al potere e i sostenitori del vecchio regime, quello di Mubarak, per le strade a fianco dei liberali, con la sinistra sinistra, con l’opposizione popolare ai Fratelli Musulmani. È in un certo senso, come ho già detto, una ripetizione dello stesso scenario, naturalmente con una differenza fondamentale: la natura della forza politica che è al potere.
In entrambi i casi assistiamo ad una grande mobilitazione. E questa sollevazione è assolutamente affascinante. È qualcosa che va oltre le aspettative, anche tra chi, come me, rifiuta tutti quei commenti cupi ai quali si assiste ogni volta che le elezioni portano al portare forze simili alla Fratellanza Musulmana. Abbiamo assistito ad ogni tipo di commento che indicava come primavera si fosse trasformata nell’autunno [islamista] o addirittura in inverno [fondamentalista]; molti hanno visto in questi eventi un motivo, se non una scusa, per denigrare tutto rivolte nella regione. Ci sono stati anche altri, come me, che hanno invece insistito sul fatto che ci troviamo solo all’inizio di un processo rivoluzionario di lunga durata. Ho anche detto che, in effetti, ero abbastanza contento di vedere i Fratelli Musulmani accedere al governo perché questo sarebbe stato il modo migliore per fare in modo che essi finalmente si esponessero e, in questo modo, perdessero la loro capacità di ingannare la gente con slogan demagogici del tipo “l’Islam è la soluzione”.

Ci puoi dire qualcosa sugli interessi fondamentali in gioco nella rivolta in Egitto e quali quelli politici che la animano?

Come ho appena detto, siamo di fronte a una folla molto eterogena, politicamente parlando. Ho visto in tv alcune interviste con gente per le strade. Molte persone, nei caffè o in luoghi simili, esprimono la loro preferenza per Mubarak piuttosto che per Morsi. Vi sono dunque, naturalmente, un gran numero di sostenitori del vecchio regime, un gran numero di persone che sono, come dire, una massa piuttosto conservatrice, che è contro i Fratelli musulmani a causa del profonda incapacità mostrata in questo anno al potere. Si sono comportanti in modo veramente deplorevole, mostrando una totale inettitudine, e sono stati capaci di mettere contro di loro proprio tutti.

Vi sono quindi sostenitori del vecchio regime; ma in questa grande mobilitazione avete immense masse di persone che agiscono partendo dalla loro situazione di classe, se così possiamo dire, constatando che nulla è stato fatto contro il deterioramento delle loro condizioni vita; il governo non ha fatto altro che continuare le politiche sociali ed economiche del regime precedente. Troviamo poi anche l’opposizione liberale, che si oppone ai Fratelli musulmani per motivi politici, ma che non contesta le loro politiche economiche e sociali , poiché i liberali, in sostanza, condividono le stesse opzioni. Abbiamo poi la sinistra. Si tratta quindi, come ho detto, di una massa molto eterogenea. Nello stesso modo in cui nel 2011 abbiamo visto forze molto eterogenee, di natura assai diversa, riunirsi attorno ad un obiettivo comune che era la loro opposizione a Mubarak, oggi assistiamo allo stesso fenomeno nella opposizione a Morsi.
Naturalmente questo non risolverà il problema. Qualsiasi illusione che l’esercito e o chiunque verrà portato al potere dall’esercito (perché l’esercito si trova di nuovo nella posizione di king maker) porterà a miglioramenti delle condizioni sociali ed economiche e nelle condizioni di esistenza dei lavoratori in Egitto è semplicemente infondata. Tutte le illusioni di questo tipo sono per l’appunto solo questo: illusioni!
Ci troviamo quindi di fronte ad uno scontro tra coloro che sostengono il colpo di stato dei militari perché vogliono la restaurazione dell’ordine, convinti che i Fratelli Musulmani non riescono a raggiungere questo obiettivo , quelli cioè che desiderano un ritorno alla normalità nel paese; cosa che in realtà significherebbe la fine di tutte le mobilitazioni sociali e di tutti gli scioperi che si sono sviluppato in modo assai intenso negli ultimi due anni. Vi è quindi questo tipo di persone. Dall’altra parte poi ci sono quelli che si ribellano Morsi perché ha continuato le politiche sociali di Mubarak.
Ci troviamo quindi in piena contraddizione. Il problema è che, con l’eccezione di gruppi marginali, vi è poca consapevolezza di questa situazione. La tragedia sta nella mancanza di forza di sinistra che possa contare su una credibilità popolare reale e su una chiara visione strategica di ciò che sta accadendo. Questa mancanza pesa enormemente.

Hai finora delineato il modo in cui questo processo rivoluzionario, che ha avuto inizio il 25 gennaio [2011], sta evolvendo. In sostanza stai dicendo che non si vedono emergere leader del movimento rivoluzionario in grado di candidarsi alla leadership in occasione delle prossime elezioni promesse dall’esercito…

Vi è stata l’apparizione di una figura che poteva svolgere un ruolo di unificatore delle aspirazioni, chiamiamole così, sociali e progressiste della popolazione. Era il candidato nasseriano [Hamdeen Sabahi] con riferimento al Nasser che ha governò l’Egitto fino al 1970. Questo candidato ha rappresentato una proposta che si può configurare come una sorta di nazionalismo di sinistra. È arrivato terzo [nel 2012 con il 20,72% contro il 23,66% di Ahmed Shafik – un ufficiale, un rappresentante del vecchio regime – e il 24,78% di Mohamed Morsi]. È stata la vera e propria sorpresa delle elezioni presidenziali. Rappresenta l’unica figura realmente popolare nella vasta gamma della sinistra egiziana.
Il problema è che anche egli condivide totalmente il discorso oggi prevalente secondo il quale l’esercito è nostro amico, è con il popolo, ecc. Difende, inoltre un’ alleanza con i liberali e con altri che sono veri e propri superstiti del vecchio regime come Amr Moussa [segretario generale della Lega Araba tra il 2001 e il 2011, prima che il ministro degli Esteri tra il 1991 e il 2001]. Recentemente ha addirittura dichiarata che era stato un errore per il movimento popolare, prima che Morsi giungesse al potere, lanciare rivendicazioni quali “Abbasso il regime militare”; e questo mentre il Comitato supremo delle forze armate (CSFA) governava il paese con il pugno di ferro. Queste dichiarazioni non sono per nulla rassicuranti. Tuttavia bisogna riconoscere che è stata l’unica personalità emersa in grado di attrarre si di sé le aspirazioni popolari al cambiamento e non un cambiamento a sinistra e non a destra (sia nella variante di una leadership islamista o in quella di un ritorno al precedente regime).
La questione che ora si pone, se l’esercito manterrà il programma annunciato – il che è ancora tutto da verificare – che prevede la tenuta di elezioni presidenziali a breve termine, che cosa accadrà in queste elezioni e come questo candidato – l’unico in grado di imporsi a sinistra – si posizionerà: che tipo di discorso svilupperà , quale programma, ecc. È questo un aspetto sul quale dovremo concentrare la nostra attenzione, sempre che – lo ripeto ancora una volta – le elezioni abbiano effettivamente luogo. È troppo presto per pronunciarsi a tale proposito, poiché i Fratelli Musulmani per i momento continuano ad opporsi al colpo di stato e a denunciarlo per quello che è: un colpo di stato. E lo è davvero. E questo anche se non si tratta di un semplice putsch contro un governo democraticamente eletto, ma un colpo di stato contro un governo un eletto democraticamente, ma che ha suscitato l’opposizione della stragrande maggioranza della popolazione egiziana. Le mobilitazioni contro Morsi ha raggiunto livelli mai visti. E ‘stato un avvenimento assolutamente senza precedenti.

Qual è il ruolo degli Stati Uniti in tutto questo? Sono stati felici di sostenere Mubarak per decenni con i militari al potere. Che ruolo hanno giocato in questa situazione e qual è il ruolo che gli Stati Uniti potrebbero svolgere nel prossimo periodo?

Il movimento di opposizione in Egitto, vale a dire l’opposizione a Morsi, ha la forte convinzione che Washington abbia sostenuto Morsi. C’erano infatti molti segnali che indicavano il sostegno di Washington a Morsi; messe guardia contro un intervento dell’esercito, l’insistenza sulla necessità di seguire sempre la via costituzionale, sebbene l’attuale Costituzione goda di una legittimità assai discutibile. Questo enorme movimento, infatti, non riconosce questa come una costituzione legittima, ma come qualcosa imposto dai Fratelli Musulmani. L’ambasciatore degli Stati Uniti al Cairo ha fatto una dichiarazione, all’inizio delle proteste contro Morsi, nella quale ha affermato che esse erano dannose per l’economia. Una dichiarazione che è apparsa come flagrante sostegno a Morsi. Vi sono quindi ampie indicazioni che vanno in questa direzione.
In realtà Washington si trova in una situazione di grande difficoltà. Coloro che sostengono, e sono tanti, soprattutto su Internet, tutte queste teorie del complotto secondo cui Washington sarebbe onnipotente e tirerebbe le fila di tutto quello che sta accadendo nel mondo arabo sono completamente fuori strada. Penso invece che l’influenza di Washington, degli Stati Uniti in tutta la regione, si trovi ad un livello estremamente basso. Questa situazione è il risultato della sconfitta in Iraq, perché quella è stata una grande sconfitta per il progetto imperiale degli Stati Uniti. Abbiamo assistito alla combinazione di questo disastro per la politica imperiale degli Stati Uniti e del rovesciamento di alleati fondamentali per Washington come Mubarak.
Washington ha cercato di puntare sulla Fratellanza Musulmana. Infatti, durante l’ultimo periodo, dopo l’inizio delle rivolte nel mondo arabo, o immediatamente dopo, Washington ha scommesso sui Fratelli Musulmani. Si ê trattato in realtà di una loro rinnovata alleanza poiché gli Stati Uniti hanno lavorato a stretto contatto con i Fratelli Musulmani negli anni ’50, ’60, ’70 di fatto fino al 1990-1991. Sono sempre stati in stretto contatto con i Fratelli Musulmani. Hanno rinnovato questa collaborazione convinti che nelle attuali condizioni del mondo arabo, di fronte a tutte queste mobilitazioni di massa – che costituiscono il più importante e nuovo sviluppo a partire dal dicembre 2010/gennaio 2011 – avevano bisogno di alleati con una vera base popolare, con una vera e propria organizzazione popolare. Coloro che meglio incarnavano questa opzione e che erano disposti a lavorare e a cooperare con Washington sono stati i Fratelli Musulmani. Questo è quello che hanno fatto e questo è ciò che essi continuano a fare
La situazione ha ormai raggiunto un punto in cui Washington ha dovuto constatare che la Fratellanza Musulmana ha fallito. Quindi, anche dal punto di vista di Washington, scommettere su di loro non è più possibile. Non sono riusciti a riportare l’ordine in Egitto. Non sono stati in grado di controllare la situazione. Il principale alleato di Washington in Egitto è ovviamente l’esercito, un esercito che ha legami molto stretti con Washington. Esso è in parte finanziato da Washington [Dalla fine degli anni 1970, a seguito della conclusione di un trattato di pace con Israele, l’esercito egiziano riceve finanziamenti annuali; attualmente è pari a circa 1,3 miliardi dollari]. La maggior parte dei pagamenti degli Stati Uniti verso l’Egitto, che si colloca appena dopo Israele dal punto di vista degli importi riscossi, va all’esercito. L’attuale generazione di ufficiali è stata addestrata negli Stati Uniti ed ha partecipato a manovre militari ecc. Si tratta quindi di un esercito strettamente legato a Washington. E, naturalmente, non è concepibile che Washington prenda posizione contro i militari. Credo che adotteranno una posizione conciliante. Ciò che conta è che essi non dirigono la situazione. E coloro che pensano che gli Stati Uniti siano i registi occulti di tutta l’operazione, come ho già detto sono completamente fuori strada.

Puoi ora dirci cosa accadrà in Egitto? Mohamed El-Baradei è una delle figure dell’ opposizione tra i leader che hanno incontro l’esercito. Pare che i leader sindacali non abbiano incontrato l’esercito. Ci puoi dire quali le possibili implicazioni di tutto questo? Infine, dopo la crisi di questol governo dei Fratelli Musulmani , se ci dovessero essere nuove elezioni, pensi che i Fratelli Musulmani potrebbe vincere?

Comincerò con l’ultimo punto. No, io non vedo come i Fratelli Musulmani potrebbero in questo momento vincere delle elezioni . Le prossime elezioni saranno elezioni presidenziali, perlomeno in base alle indicazioni del comandante dell’esercito [el-Sissi] contenute nel suo discorso. Se si guarda a quello che è successo nelle precedenti elezioni, si ricorderà che Morsi è stato eletto al secondo turno grazie ai voti che non erano “pro-Morsi”, ma piuttosto contro Shafik, l’altro candidato, un ex soldato considerato rappresentante di una totale continuità con il regime di Mubarak. Morsi ha ottenuto, anche allora, poco meno del 25% dei voti al primo turno. E non sono affatto sicuro che i Fratelli Musulmani otterrebbero di nuovo questo 25%. Quindi, no, non penso che sia davvero possibile, per non parlare del fatto che mi è difficile immaginare l’esercito organizzare delle elezioni che permettano a Morsi, o a qualcuno a lui legato, di ritornare al potere. Questo mi pare perlomeno piuttosto improbabile.
Quello che accadrà è esattamente ciò a cui mi riferivo quando ho fatto allusione alla questione del candidato nasseriano . Questa fronte di opposizione assai eterogeneo, si presenterà alle prossime elezioni con un unico candidato? Se questo è questo quel che succederà, il candidato non sarà il nasseriano al quale ho fatto allusione [Hamdeen Sabahi], ma piuttosto qualcuno come El-Baradei, un liberale.
In qualche modo tutto questo sarà un altro passo, l’apertura di una nuova fase in processo rivoluzionario che sarà bel lontano dall’essere portato a termine. Esso continuerà, e passerà per molti anni, se non decenni, di instabilità prima di giungere in una fase in cui le cose cambieranno profondamente sulla base di politiche economiche e sociali diverse. Per raggiungere questo obiettivo è necessario che si produca un cambiamento sociale e politico profondo. Tutto questo oggi non è ancora visibile. È perciò troppo presto per fare previsioni a questo proposito.
Quello che però possiamo dire è che è altamente improbabile che l’esercito cerchi di ripetere quello che ha fatto dopo il precedente colpo di Stato dell’11 febbraio 2011, quando, nello stesso modo, l’esercito ha allontanato Mubarak dal potere. Quello che adesso hanno fatto con Morsi. Essi hanno a lungo governato il paese la prima volta, prima dell’elezione di Morsi [tra il febbraio 2011 e la fine di giugno 2012]. Mi sembra difficile che possano fare la stessa cosa perché hanno capito che questo è per loro dannoso e che di fatto oggi il potere in Egitto è diventato una sorta di patata bollente. Solo che… chi potrebbe desiderare di affrontare tutti i problemi che abbiamo davanti, uno dei quali, non certo il meno importante, è rappresentato dai Fratelli Musulmani stessi? Staremo a vedere cosa succede. Se questi ultimi verranno semplicemente sopraffatti, obbligati a capitolare, si faranno accumulando molto risentimento e ci sarà una forte opposizione da parte degli ambienti islamici chiunque verrà dopo Morsi.
D’altra parte vi è una situazione economica terribilmente difficile, molto preoccupante, con un paese sull’orlo della bancarotta, ai limiti di un profondo disastro economico. La sola politica proposta, da parte di un ampio schieramento che va da Morsi ad El-Baradei passando per i militari, corrisponde all’agenda delle misure neoliberali che l’FMI promuove in Egitto. È veramente difficile immaginare fino a che punto il Fondo monetario internazionale rappresenti nei fatti proprio quello che è stato criticamente definito da molto tempo, cioè il fondamentalismo monetarista internazionale. A tal punto fondamentalista nella sua prospettiva neoliberale da spingere l’Egitto, dopo tutto quello che abbiamo visto, ad approfondire ulteriormente l’applicazione di quelle stesse politiche economiche già attuate sotto Mubarak e che hanno portato a questa profonda crisi economica: nessuna crescita e, in ogni caso, creazione di pochissimi posti di lavoro, una disoccupazione enorme, in modo particolare tra i giovani. Come detto, essi continuano a preconizzare le stesse politiche.L’FMI ha esercitato forti pressioni sul governo Morsi affinché mettesse in atto ulteriori misure di austerità, con nuove riduzioni dei sussidi erogati sui prezzi del carburante e di altri prodotti di base. Essi continuano a sostenere tali politiche. Morsi non le ha attuato per la semplice ragione che non era in grado di farlo. Non era politicamente abbastanza forte per poterlo fare. L’unica volta che ha tentato di farlo è stato confrontato con una tale reazione che lo ha costretto ad annullare immediatamente, via Facebook, le misure che aveva annunciato. È stato davvero ridicolo.
È una vera e propria patata bollente. Proprio per questo, lo ripeto ancora una volta, quello a cui stiamo assistendo non è altro che un episodio di una lunga storia, che di fatto si trova ancora alle sue battute iniziali. Assisteremo a numerosi altri sviluppi nei prossimi anni in Egitto e nel resto del mondo arabo.

* La traduzione in italiano a cura della redazione di Solidarietà è stata fatta sulla base di un versione francese della trascrizione di un’ intervista rilasciata il 3 luglio al canale televisivo The Real News Network (TRNN) e trasmessa in due parti il 4 luglio.

PRIME RIFLESSIONE SULLA DINAMICA DELLA RIVOLUZIONE EGIZIANA

Intervista rilasciata il 3 luglio al canale televisivo The Real News Network (TRNN) e trasmessa in due parti il 4 luglio.

Puoi illustrarci la tua reazione alla notizia che il presidente Morsi, il leader democraticamente eletto d’ Egitto, è stato rimosso dal potere dall’esercito egiziano?

Direi che, in un certo senso, si tratta della ripetizione dello stesso scenario che ha avuto luogo nel febbraio 2011. Quel che effettivamente possiamo constatare in entrambi i casi è che si tratta di un colpo di stato, un colpo di stato militare, nel contesto di un’immensa mobilitazione, con la sola differenza che coloro che sono al potere sono diversi e la composizione della folla, la mobilitazione di massa, è anch’essa diversa rispetto al 2011.

Nel gennaio-febbraio 2011, abbiamo assistito, come si sa, ad un immenso movimento di protesta, quella grande rivolta nella quale erano coinvolte tutte le correnti di opposizione al regime di Mubarak. Si trattava dei liberali, dei movimenti di sinistra, ma anche i Fratelli Musulmani. Essi rappresentavano una componente importante della mobilitazione in quel momento. In quella grande mobilitazione di massa si riscontravano lo stesso tipo di aspettative nei confronti dell’esercito, l’idea cioè che l’esercito sia dalla parte del popolo, che esso potrebbe rappresentare gli interessi del popolo. Mi ricordo, d’altronde, che proprio l’8 febbraio 2011, appena tre giorni prima della caduta di Mubarak, The Real News Network mi aveva intervistato ed io avevo messo in guardia contro simili illusioni circa l’esercito e i militari.

Quello che stiamo vedendo adesso è solo il risultato di una sorta di gioco delle parti. I Fratelli Musulmani sono al potere e i sostenitori del vecchio regime, quello di Mubarak, per le strade a fianco dei liberali, con la sinistra, con l’opposizione popolare ai Fratelli Musulmani. È in un certo senso, come ho già detto, una ripetizione dello stesso scenario, naturalmente con una differenza fondamentale: la natura della forza politica che è al potere.

In entrambi i casi assistiamo ad una grande mobilitazione. E questa sollevazione è assolutamente affascinante. È qualcosa che va oltre le aspettative, anche tra chi, come me, rifiuta tutti quei commenti cupi ai quali si assiste ogni volta che le elezioni portano al portare forze simili alla Fratellanza Musulmana. Abbiamo assistito ad ogni tipo di commento che indicava come la primavera si fosse trasformata nell’autunno [islamista] o addirittura in inverno [fondamentalista]; molti hanno visto in questi eventi un motivo, se non una scusa, per denigrare tutte le rivolte nella regione. Ci sono stati anche altri, come me, che hanno invece insistito sul fatto che ci troviamo solo all’inizio di un processo rivoluzionario di lunga durata. Ho anche detto che, in effetti, ero abbastanza contento di vedere i Fratelli Musulmani accedere al governo perché questo sarebbe stato il modo migliore per fare in modo che essi finalmente si esponessero e, in questo modo, perdessero la loro capacità di ingannare la gente con slogan demagogici del tipo “l’Islam è la soluzione”.

Ci puoi dire qualcosa sugli interessi fondamentali in gioco nella rivolta in Egitto e quali quelli politici che la animano?

Come ho appena detto, siamo di fronte a una folla molto eterogena, politicamente parlando. Ho visto in tv alcune interviste con gente per le strade. Molte persone, nei caffè o in luoghi simili, esprimono la loro preferenza per Mubarak piuttosto che per Morsi. Vi sono dunque, naturalmente, un gran numero di sostenitori del vecchio regime, un gran numero di persone che sono, come dire, una massa piuttosto conservatrice, che è contro i Fratelli musulmani a causa del profonda incapacità mostrata in questo anno al potere. Si sono comportati in modo veramente deplorevole, mostrando una totale inettitudine, e sono stati capaci di mettere contro di loro proprio tutti.

Vi sono quindi sostenitori del vecchio regime; ma in questa grande mobilitazione avete immense masse di persone che agiscono partendo dalla loro situazione di classe, se così possiamo dire, constatando che nulla è stato fatto contro il deterioramento delle loro condizioni vita; il governo non ha fatto altro che continuare le politiche sociali ed economiche del regime precedente. Troviamo poi anche l’opposizione liberale, che si oppone ai Fratelli musulmani per motivi politici, ma che non contesta le loro politiche economiche e sociali, poiché i liberali, in sostanza, condividono le stesse opzioni. Abbiamo poi la sinistra. Si tratta quindi, come ho detto, di una massa molto eterogenea. Nello stesso modo in cui nel 2011 abbiamo visto forze molto eterogenee, di natura assai diversa, riunirsi attorno ad un obiettivo comune che era la loro opposizione a Mubarak, oggi assistiamo allo stesso fenomeno nella opposizione a Morsi.

Naturalmente questo non risolverà il problema. Qualsiasi illusione che l’esercito e o chiunque verrà portato al potere dall’esercito (perché l’esercito si trova di nuovo nella posizione di king maker) possa e voglia apportare miglioramenti alle condizioni sociali ed economiche e alle condizioni di esistenza dei lavoratori in Egitto è semplicemente infondata. Tutte le illusioni di questo tipo sono per l’appunto solo questo: illusioni!

Ci troviamo quindi di fronte ad uno scontro tra coloro che sostengono il colpo di stato dei militari perché vogliono la restaurazione dell’ordine, convinti che i Fratelli Musulmani non riescono a raggiungere questo obiettivo, quelli cioè che desiderano un ritorno alla normalità nel paese; cosa che in realtà significherebbe la fine di tutte le mobilitazioni sociali e di tutti gli scioperi che si sono sviluppati in modo assai intenso negli ultimi due anni. Vi è quindi questo tipo di persone. Dall’altra parte poi ci sono quelli che si ribellano a Morsi perché ha continuato le politiche sociali di Mubarak.

Ci troviamo quindi in piena contraddizione. Il problema è che, con l’eccezione di gruppi marginali, vi è poca consapevolezza di questa situazione. La tragedia sta nella mancanza di una forza di sinistra che possa contare su una credibilità popolare reale e su una chiara visione strategica di ciò che sta accadendo. Questa mancanza pesa enormemente.

Hai finora delineato il modo in cui questo processo rivoluzionario, che ha avuto inizio il 25 gennaio 2011, sta evolvendo. In sostanza stai dicendo che non si vedono emergere leader del movimento rivoluzionario in grado di candidarsi alla leadership in occasione delle prossime elezioni promesse dall’esercito…

Vi è stata l’apparizione di una figura che poteva svolgere un ruolo di unificatore delle aspirazioni, chiamiamole così, sociali e progressiste della popolazione. Era il candidato nasseriano Hamdeen Sabahi, con riferimento al Nasser che ha governò l’Egitto fino al 1970. Questo candidato ha rappresentato una proposta che si può configurare come una sorta di nazionalismo di sinistra. È arrivato terzo (nel 2012 con il 20,72% contro il 23,66% di Ahmed Shafik – un ufficiale, un rappresentante del vecchio regime – e il 24,78% di Mohamed Morsi). È stata la vera e propria sorpresa delle elezioni presidenziali. Rappresenta l’unica figura realmente popolare nella vasta gamma della sinistra egiziana.
Il problema è che anche lui condivide totalmente il discorso oggi prevalente secondo il quale l’esercito è nostro amico, è con il popolo, ecc. Difende, inoltre un’ alleanza con i liberali e con altri che sono veri e propri superstiti del vecchio regime come Amr Moussa (il segretario generale della Lega Araba tra il 2001 e il 2011, e ancora prima ministro degli Esteri tra il 1991 e il 2001). Recentemente ha addirittura dichiarato che era stato un errore per il movimento popolare, prima che Morsi giungesse al potere, lanciare rivendicazioni quali “Abbasso il regime militare”; e questo mentre il Comitato supremo delle forze armate (CSFA) governava il paese con il pugno di ferro. Queste dichiarazioni non sono per nulla rassicuranti. Tuttavia bisogna riconoscere che è stata l’unica personalità emersa in grado di attrarre si di sé le aspirazioni popolari al cambiamento a sinistra e non a destra (sia nella variante di una leadership islamista o in quella di un ritorno al precedente regime). La questione che ora si pone, se l’esercito manterrà il programma annunciato – il che è ancora tutto da verificare – che prevede la tenuta di elezioni presidenziali a breve termine, è vedere che cosa accadrà in queste elezioni e come questo candidato – l’unico in grado di imporsi a sinistra – si posizionerà: che tipo di discorso svilupperà , quale programma, ecc. È questo un aspetto sul quale dovremo concentrare la nostra attenzione, sempre che – lo ripeto ancora una volta – le elezioni abbiano effettivamente luogo. È troppo presto per pronunciarsi a tale proposito, poiché i Fratelli Musulmani per i momento continuano ad opporsi al colpo di stato e a denunciarlo per quello che è: un colpo di stato. E lo è davvero. E questo anche se non si tratta di un semplice putsch contro un governo democraticamente eletto, ma di un colpo di stato contro un governo un eletto sì democraticamente, ma che ha suscitato l’opposizione della stragrande maggioranza della popolazione egiziana. Le mobilitazioni contro Morsi hanno raggiunto livelli mai visti. E’ stato un avvenimento assolutamente senza precedenti.

Qual è il ruolo degli Stati Uniti in tutto questo? Sono stati felici di sostenere Mubarak per decenni con i militari al potere. Che ruolo hanno giocato in questa situazione e qual è il ruolo che gli Stati Uniti potrebbero svolgere nel prossimo periodo?

Il movimento di opposizione in Egitto, vale a dire l’opposizione a Morsi, ha la forte convinzione che Washington abbia sostenuto Morsi. C’erano infatti molti segnali che indicavano il sostegno di Washington a Morsi; messe guardia contro un intervento dell’esercito, l’insistenza sulla necessità di seguire sempre la via costituzionale, sebbene l’attuale Costituzione goda di una legittimità assai discutibile. Questo enorme movimento, infatti, non riconosce questa come una costituzione legittima, ma come qualcosa imposto dai Fratelli Musulmani. L’ambasciatore degli Stati Uniti al Cairo ha fatto una dichiarazione, all’inizio delle proteste contro Morsi, nella quale ha affermato che esse erano dannose per l’economia. Una dichiarazione che è apparsa come flagrante sostegno a Morsi. Vi sono quindi ampie indicazioni che vanno in questa direzione.

In realtà Washington si trova in una situazione di grande difficoltà. Coloro che sostengono, e sono tanti, soprattutto su Internet, tutte queste teorie del complotto secondo cui Washington sarebbe onnipotente e tirerebbe le fila di tutto quello che sta accadendo nel mondo arabo sono completamente fuori strada. Penso invece che l’influenza di Washington, degli Stati Uniti in tutta la regione, si trovi ad un livello estremamente basso. Questa situazione è il risultato della sconfitta in Iraq, perché quella è stata una grande sconfitta per il progetto imperiale degli Stati Uniti.

Abbiamo assistito alla combinazione di questo disastro per la politica imperiale degli Stati Uniti con il rovesciamento di alleati fondamentali per Washington come Mubarak.

Washington ha cercato di puntare sulla Fratellanza Musulmana. Infatti, durante l’ultimo periodo, dopo l’inizio delle rivolte nel mondo arabo, o immediatamente dopo, Washington ha scommesso sui Fratelli Musulmani. Si ê trattato in realtà di una loro rinnovata alleanza poiché gli Stati Uniti hanno lavorato a stretto contatto con i Fratelli Musulmani negli anni ’50, ’60, ’70, di fatto fino al 1990-1991. Sono sempre stati in stretto contatto con i Fratelli Musulmani. Hanno rinnovato questa collaborazione convinti che nelle attuali condizioni del mondo arabo, di fronte a tutte queste mobilitazioni di massa – che costituiscono il più importante e nuovo sviluppo a partire dal dicembre 2010/gennaio 2011 – avevano bisogno di alleati con una vera base popolare, con una vera e propria organizzazione popolare. Coloro che meglio incarnavano questa opzione e che erano disposti a lavorare e a cooperare con Washington sono stati i Fratelli Musulmani. Questo è quello che hanno fatto e questo è ciò che essi continuano a fare.

La situazione ha ormai raggiunto un punto in cui Washington ha dovuto constatare che la Fratellanza Musulmana ha fallito. Quindi, anche dal punto di vista di Washington, scommettere su di loro non è più possibile. Non sono riusciti a riportare l’ordine in Egitto. Non sono stati in grado di controllare la situazione. Il principale alleato di Washington in Egitto è ovviamente l’esercito, un esercito che ha legami molto stretti con Washington. Esso è in parte finanziato da Washington (dalla fine degli anni 1970, a seguito della conclusione di un trattato di pace con Israele, l’esercito egiziano riceve finanziamenti annuali; attualmente pari a circa 1,3 miliardi dollari). La maggior parte dei pagamenti degli Stati Uniti verso l’Egitto, che si colloca appena dopo Israele dal punto di vista degli importi riscossi, va all’esercito. L’attuale generazione di ufficiali è stata addestrata negli Stati Uniti, ha partecipato a manovre militari congiunte, ecc. Si tratta quindi di un esercito strettamente legato a Washington. E, naturalmente, non è concepibile che Washington prenda posizione contro i militari. Credo che adotteranno una posizione conciliante. Ciò che conta è che essi non dirigono la situazione. E coloro che pensano che gli Stati Uniti siano i registi occulti di tutta l’operazione, come ho già detto, sono completamente fuori strada.

Puoi ora dirci cosa accadrà in Egitto? Mohamed El-Baradei è una delle figure dell’ opposizione tra i leader che hanno incontrato l’esercito. Pare che i leader sindacali non abbiano incontrato l’esercito. Ci puoi dire quali le possibili implicazioni di tutto questo? Infine, dopo la crisi di questo governo dei Fratelli Musulmani, se ci dovessero essere nuove elezioni, pensi che i Fratelli Musulmani potrebbe vincere?

Comincerò con l’ultimo punto. No, io non vedo come i Fratelli Musulmani potrebbero in questo momento vincere delle elezioni. Le prossime elezioni saranno elezioni presidenziali, perlomeno in base alle indicazioni del comandante dell’esercito El-Sissi contenute nel suo discorso. Se si guarda a quello che è successo nelle precedenti elezioni, si ricorderà che Morsi è stato eletto al secondo turno grazie ai voti che non erano “pro-Morsi”, ma piuttosto contro Shafik, l’altro candidato, un ex soldato considerato rappresentante di una totale continuità con il regime di Mubarak. Morsi ha ottenuto, anche allora, poco meno del 25% dei voti al primo turno. E non sono affatto sicuro che i Fratelli Musulmani otterrebbero di nuovo questo 25%. Quindi, no, non penso che sia davvero possibile, per non parlare del fatto che mi è difficile immaginare l’esercito organizzare delle elezioni che permettano a Morsi, o a qualcuno a lui legato, di ritornare al potere. Questo mi pare perlomeno piuttosto improbabile.
Quello che accadrà è esattamente ciò a cui mi riferivo quando ho fatto allusione alla questione del candidato nasseriano. Questo fronte di opposizione assai eterogeneo si presenterà alle prossime elezioni con un unico candidato? Se è questo quel che succederà, il candidato non sarà il nasseriano al quale ho fatto allusione [Hamdeen Sabahi], ma piuttosto qualcuno come El-Baradei, un liberale.

In qualche modo tutto questo sarà un altro passo, l’apertura di una nuova fase in processo rivoluzionario che sarà bel lontano dall’essere portato a termine. Esso continuerà, e passerà per molti anni, se non decenni, di instabilità prima di giungere in una fase in cui le cose cambieranno profondamente sulla base di politiche economiche e sociali diverse. Per raggiungere questo obiettivo è necessario che si produca un cambiamento sociale e politico profondo. Tutto questo oggi non è ancora visibile. È perciò troppo presto per fare previsioni a questo proposito.

Quello che però possiamo dire è che è altamente improbabile che l’esercito cerchi di ripetere quello che ha fatto dopo il precedente colpo di Stato dell’11 febbraio 2011, quando, nello stesso modo, l’esercito ha allontanato Mubarak dal potere. Quello che adesso hanno fatto con Morsi. Essi hanno a lungo governato il paese la prima volta, prima dell’elezione di Morsi (tra il febbraio 2011 e la fine di giugno 2012, ndr). Mi sembra difficile che possano fare la stessa cosa perché hanno capito che questo è per loro dannoso e che di fatto oggi il potere in Egitto è diventato una sorta di patata bollente. Solo che… chi potrebbe desiderare di affrontare tutti i problemi che abbiamo davanti, uno dei quali, non certo il meno importante, è rappresentato dai Fratelli Musulmani stessi? Staremo a vedere cosa succede. Se questi ultimi verranno semplicemente sopraffatti, obbligati a capitolare, ciò accadrà con un accumulo di molto risentimento e ci sarà una forte opposizione da parte degli ambienti islamici verso chiunque verrà dopo Morsi.

D’altra parte vi è una situazione economica terribilmente difficile, molto preoccupante, con un paese sull’orlo della bancarotta, ai limiti di un profondo disastro economico. La sola politica proposta, da parte di un ampio schieramento che va da Morsi ad El-Baradei passando per i militari, corrisponde all’agenda delle misure neoliberali che l’FMI promuove in Egitto. È veramente difficile definire fino a che punto il Fondo monetario internazionale rappresenti nei fatti proprio quello che è stato criticamente definito da molto tempo, cioè il fondamentalismo monetarista internazionale. A tal punto fondamentalista nella sua prospettiva neoliberale da spingere l’Egitto, dopo tutto quello che abbiamo visto, ad approfondire ulteriormente l’applicazione di quelle stesse politiche economiche già attuate sotto Mubarak e che hanno portato a questa profonda crisi economica: nessuna crescita e, in ogni caso, creazione di pochissimi posti di lavoro, una disoccupazione enorme, in modo particolare tra i giovani. Come detto, essi continuano a preconizzare le stesse politiche. L’FMI ha esercitato forti pressioni sul governo Morsi affinché mettesse in atto ulteriori misure di austerità, con nuove riduzioni dei sussidi erogati sui prezzi del carburante e di altri prodotti di base. Essi continuano a sostenere tali politiche. Morsi non le ha attuate per la semplice ragione che non era in grado di farlo. Non era politicamente abbastanza forte per poterlo fare. L’unica volta che ha tentato di farlo ha assistito a una tale reazione che lo ha costretto ad annullare immediatamente, via Facebook, le misure che aveva annunciato. È stato davvero ridicolo.

È una vera e propria patata bollente. Proprio per questo, lo ripeto ancora una volta, quello a cui stiamo assistendo non è altro che un episodio di una lunga storia, che di fatto si trova ancora alle sue battute iniziali. Assisteremo a numerosi altri sviluppi nei prossimi anni in Egitto e nel resto del mondo arabo.

(traduzione a cura della redazione di Solidarietà – pubblicato da fabur49 il 10 luglio 2013 sul sito di Sinistra Critica)

EGITTO, LA QUESTIONE SOCIALE ALLA RADICE DEI GRANDI SCONVOLGIMENTI POLITICI

5544 manifestazioni in cinque mesi, 42 al giorno. Queste cifre, contenute in un rapporto citato da DailyNews Egitto, mostrano quanto l’Egitto sia in fibrillazione in questo 2013. I dati relativi ai mesi marzo, aprile e maggio (1354, 1462 e 1300 manifestazioni) rendono questo paese quello con il maggior numero di mobilitazioni al mondo in questo periodo. Due terzi di questi manifestazioni riguardano questioni economiche e sociali, troppo spesso eluse dalla stampa a vantaggio delle lotte politiche.

Professore alla Scuola di Studi Orientali e Africani di Londra, lo studioso Gilbert Achcar ha pubblicato nella primavera del 2013 Le Peuple veut (Edizioni Actes Sud), in cui tenta di analizzare le cause sociali delle rivoluzioni così come le strutture economiche dei paesi arabi, cercando di anticiparne l’evoluzione.

L’intervista è stata realizzata lo scorso 30 giugno, ma appare ancora più attuale perché permette di cogliere alcuni aspetti fondamentali che illustrano lo sviluppo degli avvenimenti degli ultimi giorni e delineano i possibili sviluppi futuri (ndr).

Perché tanta enfasi sulla questione sociale in Egitto, in questo periodo di grande agitazione politica?

Vi è un’abitudine dei media di prestare attenzione solo agli aspetti politici. In Egitto, l’ondata di scioperi che hanno preceduto la rivolta nel gennaio 2011 è ancora in atto. Si può notare, in particolare attraverso le regolari prese di posizione dei sindacati indipendenti, l’ intensità delle varie azioni sociali.

All’epoca di Nasser, l’Egitto aveva subito un indottrinamento di tipo sovietico, sul modello della maggior parte dei regimi dittatoriali: le libertà e l’autonomia vennero soppresse trasformando in questo modo i sindacati in strumenti legati direttamente allo Stato. Questa situazione si era mantenuta tale e quale per decenni, nonostante le numerose privatizzazioni economiche e le misure di liberalizzazione adottate a partire dall’epoca della presidenza Sadat. La cosa conveniva perfettamente al potere che poteva in questo modo tenere sotto controllo la classe lavoratrice egiziana attraverso il controllo dei sindacati.

Con l’impressionante ondata di scioperi che si è andata sviluppando a partire dal 2005, e che ha raggiunto un “picco” nel 2008, abbiamo potuto assistere alla costituzione del primo sindacato indipendente in Egitto dal 1950. Si tratta di un sindacato attivo in un piccolo settore, gli esattori dell’imposta fondiaria, ma decine di migliaia di egiziani vi hanno aderito. E’ diventato il nucleo dello sforzo in atto in Egitto per la costruzione di un movimento sindacale indipendente; un’organizzazione che è riuscita a strappare al potere la propria legalizzazione, dopo molti presidi davanti al Parlamento, in particolare approfittando della visita di una delegazione dell’Ufficio Internazionale del Lavoro (ILO) al Cairo.
Altri sindacati hanno cercato di fare lo stesso sotto Mubarak, senza successo. È per questo che ho sempre sottolineato che rivolta del 2011 in Egitto non è stato un fulmine a ciel sereno. E’ stato davvero il culmine di un processo di radicalizzazione sociale.

Qual è stata la dinamica delle forze sindacali dopo il rovesciamento del presidente Hosni Mubarak?

I sindacalisti hanno potuto sviluppare ed estendere la loro azione ed abbiamo visto emergere una nuova centrale sindacale, la Federazione Egiziana dei Sindacati Indipendenti (EFITU in inglese), che tra l’altro ha subito una scissione alcuni mesi più tardi, portando così alla creazione di una seconda federazione.

La EFITU vanta 2 milioni di iscritti (nell’immagine il logo). Possiamo quindi affermare che vi è un nuovo movimento sindacale in Egitto, indipendente e molto radicale, un po’ sul modello del sindacato SUD in Francia, ovviamente più massiccio. Il movimento sindacale è poi riuscito a fare in modo che l’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) mettesse sulla propria lista nera l’Egitto, in particolare dopo che il governo Morsi ha rifiutato di adottare le libertà sindacali riconosciute a livello internazionale, continuando a mantenere un quadro giuridico repressivo e non democratico. Si tratta di uno degli aspetti più profondi della continuità tra il governo e Morsi il regime di Mubarak.

Qual è l’atteggiamento dei Fratelli Musulmani, una forza politica di massa, nei confronti delle organizzazioni sindacali?

La Fratellanza Musulmana ha ignorato i sindacati indipendenti, che si muovono nella prospettiva di un radicalismo sociale al quale essa si è sempre opposta. Per contro hanno infiltrato i sindacati ufficiali, di cui hanno cercato di assumere il controllo piazzando propri uomini in posizioni chiave. Questo è il motivo per cui vogliono mantenere questo quadro giuridico antidemocratico. Inoltre, i sindacati ufficiali – ai quali l’adesione era obbligatoria sotto il vecchio regime, e che si vorrebbe mantenere con questo stesso statuto – possono contare su risorse incomparabilmente più importanti rispetto a quelle dei sindacati indipendenti ed in particolare della EFITU.
Dopo la caduta di Mubarak, i Fratelli Musulmani hanno sempre condannato quelli che definiscono come “scioperi professionali”, un modo evidente di mettere in opposizione gli interessi della classe operaia egiziana con l’interesse nazionale.

Dal 2011, quali sono le grandi lotte e le conquiste sociali che hanno visto impegnate le forze sindacali indipendenti?

Gli scioperi interessano o hanno interessato quasi tutti i settori, pubblici e privati, l’industria così come i servizi. C’è stato un importante sciopero nei trasporti pubblici. Tutti i giorni vedono svolgersi importanti battaglie sindacali nelle aziende private o pubbliche. Una delle rivendicazioni più importanti riguarda la questione dei salari minimi, così come anche quella dei salari massimi: è infatti una delle peculiarità della storia sindacale egiziana quella di aver immaginato la fissazione di un salario massimo. Ma non c’è stata di recente una battaglia sindacale su un tema unificante a livello nazionale. Le lotte sociali hanno per il momento più un carattere settoriale o locale che nazionale.

Quale tipo di politica economica e sociale hanno messo in pratica i Fratelli Musulmani?

C’è sta una continuità tra il vecchio regime, la fase dei militari e quest’anno caratterizzato dal governo Morsi. Sul piano sociale ed economico non vi è stato alcun cambiamento. Il governo formato da Morsi ha sviluppato la logica di approfondire i negoziati con il Fondo monetario internazionale (FMI), di cui condivide la diagnosi sulla situazione del paese e la necessità di una politica di deregolamentazione. Il governo ha quindi accettato le condizioni poste dall’FMI per l’ottenimento di prestiti, anche se nel contesto politico attuale non è in grado di imporle. Lo si è visto in particolare sulla proposta di sopprimere i sussidi ai prodotti di prima necessità: vi è stato un tentativo di farla adottare, che però è stato immediatamente annullato da un annuncio apparso sulla pagina Facebook dello stesso Morsi che revocava le misure annunciate dal governo poche ore prima. I negoziati con l’FMI sono per il momento a un punto morto.
Il governo è bloccato in questa sua logica neoliberista, e cerca di guadagnare tempo fino alle prossime elezioni, in particolare grazie ai prestiti ottenuti dal Qatar. In un paese che vive in un tale fermento sociale – dove il capitalismo è più orientato verso il conseguimento rapido di profitti piuttosto che verso uno sviluppo industriale o sostenibile – una logica economica che si fonda sull’idea della centralità del settore privato è necessariamente destinata al fallimento. E questo poiché non vi sono assolutamente le condizioni che consentirebbero al settore privato di rilanciare gli investimenti e l’economia nel suo complesso. Inoltre, i Fratelli Musulmani continuano ad agire nella loro logica di interventi caritativi, che permette loro di aggirare il tema dei diritti sociali e il ruolo dello Stato nella giustizia sociale e nella ripresa economica.

Questa logica si scontra con la diagnosi che lei fa quanto alla cronica politica di sotto-investimento che caratterizza da decenni le economie del Maghreb e del Medio Oriente, in modo particolare l’Egitto.

Sulla base dei dati forniti dalle istituzioni internazionali, e in una prospettiva comparativa con altri raggruppamenti geografici dello spazio afro-asiatico, è chiaro che vi è stato un freno dello sviluppo nel mondo arabo negli ultimi decenni, almeno a partire dagli anni 1970. Questo freno ha generato una disoccupazione record, soprattutto tra i giovani, una caratteristica questa di tutta la regione e una delle ragioni di fondo delle esplosioni sociali e delle rivoluzioni in corso. Cercando di capire meglio da dove sorge il problema, si può constatare come questo freno allo sviluppo sia da mettere in relazione con un tasso di investimento significativamente inferiore in questa regione rispetto ad altrove. E questo debole tasso è dovuto ad un disimpegno dello Stato a partire dall’inizio degli anni 1970, sulla base dello sviluppo di una logica tesa a privilegiare il settore privato. Tuttavia nei paesi arabi, e in Egitto in particolare, il settore privato non è stato assolutamente capace di rispondere a questa prospettiva, sia a causa della sua stessa natura, sia per la sua logica tesa alla ricerca del profitto a corto termine. Sta proprio qui il problema di fondo: indipendentemente dalla prospettiva politica che si privilegia, lo Stato deve assumere un ruolo centrale dal punto di vista del rilancio economico e dello sviluppo, non foss’altro che nella prospettiva di creare le condizioni per la nascita di un vero settore privato, capace e disposto ad investire nel paese.

Invece di indebitarsi per oltre 18 miliardi dollari nei confronti del Qatar, il governo avrebbe dovuto orientarsi verso fondi già disponibili nel paese. I miliardi, accumulati all’epoca di Mubarak con operazioni di appropriazione indebita di fondi pubblici da parte delle grandi famiglie, avrebbero potuto essere nazionalizzati contando per questo anche sul sostegno dell’opinione pubblica. Invece, i militari e i Fratelli Musulmani hanno negoziato un compromesso con queste grandi famiglie e continuato nella stessa logica economica.

L’attuale opposizione politica egiziana è in grado di affrontare queste problematiche?

Questo è il problema di un’opposizione molto composita. Il fronte di salvezza nazionale (FSN) è estremamente eterogeneo: va da figure che rappresentano una parte del vecchio regime (come Amr Moussa) ad Al Baradei (nella foto), che non ha un vero programma economico fino a figure come Hamdine Sabahi, il terzo uomo della elezione presidenziale, un nasseriano di sinistra. Le prospettive sono molto diverse, e lo si è potuto constatare in occasione dell’ultima visita al Cairo dell’FMI: mentre i sostenitori di Sabahi protestavano contro la delegazione internazionale, Amr Moussa criticava il governo per non aver attuato le raccomandazioni dell’FMI. Sulle grandi questioni sociali vi sono quindi forti differenze. Questo aspetto è anche quello che, a mio avviso, limita la credibilità del fronte e permette ai sostenitori dei Fratelli Musulmani di mettere tutti nello stesso sacco, identificandoli come rappresentanti del vecchio regime. È proprio questo l’attuale paradosso: mentre la questione sociale è il terreno su cui la Fratellanza Musulmana appare più debole, questa opposizione non appare per il momento in grado di offrire un’alternativa coerente.

(da Mediapart. Traduzione in italiano a cura della redazione di Solidarietà)

Pubblicato da www.sinistracritica.org il 05/07/2013

IL CAPITALISMO ESTREMO DEI FRATELLI MUSULMANI

Il credo economico dei Fratelli Musulmani nella libera impresa esente dall’interferenza statale corrisponde più  intimamente alla dottrina neoliberale rispetto alla forma di capitalismo dominante che c’era con Mubarak. Questa cosa è valida in particolare per la versione di quel credo enunciata  da Khairat al-Shatir, proprio il numero due capitalista dei Fratelli dopo il murshid  (la guida) e rappresentante della sua ala più conservatrice, o da Hassan Malek, un membro eminente ed estremamente ricco dei Fratelli, che, dopo aver fatto il suo debutto nel mondo degli affari in società con Al-Shatir, oggi amministra, insieme a suo figlio, una costellazione di imprese nel campo tessile, dei mobili, e del commercio, che danno lavoro a più 400 persone.
Il ritratto di Malek descritto dalla [rivista settimanale] Bloomberg Businessweek potrebbe certo essere intitolato L’etica della Fratellanza e lo spirito del capitalismo, dato che sembra parafrasare così fedelmente il classico di Weber: “[ I Malek] fanno parte di una generazione di conservatori religiosi in ascesa nel mondo musulmano la cui devozione a Dio rinvigorisce la loro determinazione ad avere successo negli affari e nella politica. Come dice Malek, ‘Non ho niente altro nella mia vita tranne il lavoro e la famiglia.’ Questi islamisti pongono una sfida formidabile ai modi di governo laici in paesi come l’Egitto – non soltanto a causa del loro tradizionalismo ma a causa della loro     etica di lavoro, monomaniacale  e del loro evidente astenersi  dall’ignavia  e dal peccato. Sono all’altezza di vincere qualsiasi competizione….’ Il centro della visione economica della Fratellanza, se la vogliamo classificare in modo classico, è il capitalista estremo,’ dice Sameh Elbarqy, un ex membro della Fratellanza (1).
L’ex Fratello Musulmano intervistato da Bloomberg Businessweek ha fatto la domanda giusta. Quella che è in dubbio è chiaramente non la lealtà della Fratellanza nei confronti del capitalismo neoliberale dell’era di Mubarak, ma la sua capacità di liberarsi dei suoi tratti peggiori: “Ciò che resta da vedere è se il capitalismo  clientelare  che ha caratterizzato il regime di Mubarak cambierà essendoci in carica i leader favorevoli agli affari  della Fratellanza come Malek ed El-Shater. Sebbene la Fratellanza abbia operato tradizionalmente per alleviare le condizioni dei poveri, ‘i lavoratori e gli agricoltori soffriranno a causa di questa nuova  classe di uomini di affari’, dice Elbarqy. ‘Uno dei grossi problemi rispetto alla Fratellanza Musulmana ora – lo condividono con il vecchio partito politico di Mubarak – è il matrimonio tra il potere e il capitale’” (2).
Emulare i Turchi
Questo matrimonio tra potere statale e capitale rimuove il principale ostacolo alla collaborazione del capitalismo egiziano con la Fratellanza: la persecuzione repressiva dei Fratelli nel regime di Mubarak. I Fratelli Musulmani oggi emulano assiduamente l’esperienza turca, creando un’associazione di uomini di affari, la EBDA (Egyptian Business Development Association), Associazione Egiziana per lo Sviluppo degli Affari) che si rivolge, in particolare, alle piccole e medie imprese. E’ stata costruita sul modello del MÜSIAD, con l’aiuto diretto di quella associazione turca (L’Associazione degli industriali e degli uomini d’affari indipendenti) (3). Come l’AKP, Partito per la giustizia e lo sviluppo (in turco Adalet ve Kalkınma Partisi, n.d.T.) e il governo di Erdogan, tuttavia, la fratellanza e Mohamed Morsi si pongono come rappresentanti degli interessi comuni di tutte le categorie del capitalismo egiziano, grande e piccolo, senza escludere quel segmento che ha collaborato con il vecchio regime  – in particolare un segmento considerevole  dei suoi più alti  livelli, come ci si poteva aspettare.
La composizione della delegazione di 80 uomini di affari che si sono uniti a Morsi nel suo viaggio in Cina nell’agosto 2012, illustra bene il sincretismo capitalistico della Fratellanza. Il nuovo presidente vuole avere il ruolo di commesso viaggiatore del capitalismo egiziano, secondo lo stile dei capi di stato occidentali. I membri della delegazione sono stati scelti da Hassan Malek, che ha formato un comitato incaricato di organizzare le comunicazioni tra i circoli economici e l’ufficio del presidente. Sono stati invitati a fare il viaggio svariati dirigenti commerciali che avevano fatto parte dell’ex partito di governo, il Partito Nazionale Democratico (PND)  e che avevano collaborato con il vecchio regime. Tra di loro c’era Mohamed Farid Khamis, presidente della Oriental Weavers, l’impresa di tessitura che si vanta di essere la più grossa produttrice del mondo di tappeti fatti a macchina  e di moquette. Khamis era membro dell’ufficio politico del PND e anche del parlamento.
Un altro membro dell’ufficio politico dell’ex partito di governo incluso nella delegazione, Sherif el-Gabaly, si ipotizzava fosse uno stretto associato di Gamal  Mubarak (il più giovane dei due figli maschi di Mubarak, n.d.t.). El-Gabaly è nel consiglio della Federazione Egiziana dell’Industria e presidente di Polyserve, un gruppo industriale che produce fertilizzanti (4).
Morsi ha, fondamentalmente preso una posizione che somiglia a quella di Erdogan, nel punto di convergenza di varie frazioni capitaliste nel suo paese ed esattamente sulla via che nel complesso il capitalismo egiziano stava già seguendo. C’è, tuttavia, una differenza importante tra i Fratelli Musulmani e  l’AKP, e quindi tra Morsi ed Erdogan che sta meno nel peso relativamente diverso della piccola borghesia e degli strati medi delle due organizzazioni che proprio nella natura del capitalismo, i cui interessi ognuna rappresenta: nel caso turco, una forma di capitalismo dominata dall’industria orientata all’esportazione di un paese “emergente”; nel caso egiziano, uno stato redditiere**,  e un capitalismo che è dominato da interessi commerciali e speculativi e segnato pesantemente da decenni di neopatrimonialismo e nepotismo.
Il viaggio in Cina aveva sicuramente l’intenzione di promuovere le esportazioni egiziane e di ridurre il deficit del commercio egiziano di più di 7 miliardi di dollari di scambi tra i due paesi. Gli egiziani hanno anche cercato di convincere i leader cinesi a fare investimenti nel loro paese,  anche se con poco successo. La fondamentale continuità di Morsi con Mubarak, tuttavia, appare nella evidente dipendenza dell’Egitto dal capitale del Consiglio di Cooperazione del Golfo – con la differenza che il Qatar ha sostituito il regno Saudita come fonte principale di finanziamento del nuovo regime, come è semplicemente naturale alla luce dei rapporti tra i Fratelli Musulmani con il suddetto emirato. Il Qatar ha garantito all’Egitto un prestito di due miliardi di dollari e ha promesso di investire 18 miliardi in un periodo di 5 anni in progetti industriali e petrolchimici, e anche nel campo del turismo e in quello immobiliare; sta anche considerando di acquisire delle banche egiziane. Inoltre, il governo di Morsi ha fatto richiesta di un prestito di 4,8 miliardi di dollari al Fondo monetario internazionale, chiarendo che è completamente disposto ad attenersi alle sue condizioni, nella misura in cui riguardano l’austerità di bilancio e le altre riforme neoliberali.
Nel nome della religione
Questi nuovi prestiti esacerberanno il già pesante onere di debito dell’Egitto: un quarto della spesa del bilancio dello stato che supera ricevute per il 35%, attualmente va per pagare il debito. La decisione di prendere ancora altri prestiti, in conformità con la logica neoliberale, significa che il governo non avrà altra scelta se non quella di tagliare i salari del settore pubblico e anche i sussidi e le pensioni che vanno ai più bisognosi. Morsi ha inoltre promesso a una delegazione di uomini di affari in visita in Egitto nel settembre 2012 organizzata dalla camera di Commercio degli Stati Uniti, che realizzerà senza esitazione  drastiche riforme strutturali per rimettere in piedi l’economia del paese (5). Dati questi orientamenti economici, il regime dovrà inevitabilmente prepararsi a reprimere lotte sociali e della classe lavoratrice. Il tentativo del nuovo governo di reprimere le libertà dei sindacati dei lavoratori ottenute in seguito all’insurrezione, come, per esempio, i licenziamenti in aumento vertiginoso, degli attivisti dei sindacati, sono presagi di cose future.
Morsi, il suo governo, e dietro questi, i Fratelli Musulmani, stanno portando l’Egitto sulla la strada che porta alla catastrofe economica e sociale. Le prescrizioni neoliberali, applicate nell’attuale ambiente socio economico del paese, hanno già fornito ampie prove che non possono aiutare l’Egitto a uscire dal circolo vizioso del sottosviluppo e della dipendenza. Proprio il contrario: lo hanno immerso ancora più profondamente nel pantano. La profonda instabilità politica e sociale generata dall’insurrezione, rende soltanto ancora più improbabile la prospettiva di crescita guidata dagli investimenti privati. E si deve avere una forte dose di fede per credere che il Qatar  rimedierà    alla penuria degli investimenti pubblici in Egitto, particolarmente in un clima di incertezza sul futuro del paese.
Nei giorni di Mubarak, i poveri potevano ricorrere soltanto alla carità, unita allo “oppio del popolo”. “L’Islam è la soluzione,” i Fratelli Musulmani hanno promesso per decenni alla gente, mascherando con questo vuoto slogan la loro incapacità  di redigere un programma economico fondamentalmente diverso da quello del governo. L’ora della verità ora è arrivata. Come ha  sottolineato Khaled Hroub, “Nel periodo  che abbiamo proprio davanti  a noi, queste due domande,  o logiche – lo slogan ‘l’Islam è la soluzione’ e il discorso in nome della religione – affronteranno, con il loro peso ideologico, il test di un esperimento pubblico, di massa, condotto nel laboratorio della consapevolezza popolare. L’esperimento potrebbe durare per lungo tempo, divorando le vite di un’intera generazione. Sembra, tuttavia, che i popoli arabi debbano inevitabilmente attraversare questo periodo storico, in modo che la loro consapevolezza possa gradualmente passare da un’ossessione esagerata per la loro identità a una consapevolezza di realtà politica, sociale ed economica” (6).
Coloro che trafficano  con l’oppio del popolo, sono ora diventati il governo. Il potere soporifero delle loro promesse è inevitabilmente  tramontato di conseguenza,   tanto più che  – e questa è un’altra differenza tra Khomeini, da una parte e Ghannouchi e Morsi dall’altra – essi non hanno il vantaggio di una grossa rendita dal petrolio con la quale comprare il consenso o la rassegnazione  di un grande segmento della popolazione. Maxime Rodinson ha posto il problema benissimo più di un quarto di secolo fa: “Il fondamentalismo islamico è un movimento temporaneo, transitorio, ma può durare altri 30 o 50 anni – non so quanto. Dove il fondamentalismo non è al potere, continuerà a essere un ideale , fino a quando persistono la frustrazione e lo scontento di base che porta la gente ad assumere posizioni estreme. C’è bisogno di una lunga esperienza di clericalismo per esserne alla fine stufi – guardate quanto tempo c’è voluto in Europa! I fondamentalisti islamici continueranno a dominare il periodo per lungo tempo in futuro.
“Se un regime di fondamentalismo islamico è fallito in maniera molto chiara, e ha dato inizio a   un’ovvia tirannia, una società abiettamente gerarchica e ha anche sperimentato battute di arresto    in termini di nazionalismo, questo potrebbe portare molta gente a volgersi a un’alternativa che stigmatizzi queste mancanze. Questo richiederebbe, però, un ‘alternativa credibile che entusiasmi e mobiliti la gente. Non sarà facile” (7).

* articolo apparso sull’edizione inglese diLe Monde Diplomatique. La traduzione è stata curata da  Maria Chiara Starace.

L’IMPERO IN DECLINO

È stato intervistato da David Finkel della redazione di Against the Current (Controcorrente).

Against the Current: Dal suo punto di vista particolare, europeo e vicinorientale assieme, può descriverci come sono state viste le elezioni negli Stati Uniti all’estero?

Gilbert Achcar: Come si può immaginare, le reazioni sono state diverse in Europa e nel Vicino Oriente. In Europa, c’è stata una specie di sospiro di sollievo per la rielezione di Obama. Romney infatti era visto sotto una luce molto negativa dalla maggior parte delle persone e il commento più comune è stato di soddisfazione per il fatto che non sia stato eletto.

Nel Vicino Oriente, invece, questa volta c’era molta indifferenza, diversamente dal 2008, quando ci fu grande entusiasmo per Obama, per le ovvie ragioni del suo colore e del suo background rispetto alla tradizione dei presidenti degli Stati Uniti. In seguito, questo ha portato Obama ad essere visto, nella migliore delle ipotesi, come molto debole nei confronti della classe politica statunitense e soprattutto nei confronti di Israele, per il modo in cui la sua amministrazione si è prostrata di fronte all’arroganza e alle provocazioni israeliane.
Questo ha creato un’enorme delusione perché la gente aveva creduto che le cose sarebbero davvero cambiate.
Inoltre, in generale, quest’amministrazione ha effettivamente dovuto gestire l’impero nel suo punto più basso di prestigio nella regione, essendo venuta immediatamente dopo la devastante amministrazione Bush, disastrosa dal punto di vista dell’impero degli Stati Uniti.

Lo scrittore neo-conservatore Charles Krauthammer nel 1990 aveva annunciato un “momento unipolare” (incontrastato potere degli Stati Uniti dopo il crollo del blocco sovietico). Non molto tempo dopo l’11 settembre 2001, però, con l’invasione dell’Iraq del 2003, l’amministrazione Bush è riuscita a dissipare tutto il capitale politico che gli Stati Uniti avevano accumulato sin dal 1990.
Nell’ultimo periodo, gli USA hanno dovuto affrontare un calo reale della loro influenza, soprattutto nel Vicino Oriente, dopo il picco della loro egemonia nel 1990-’91, quando intrapresero la prima guerra contro l’Iraq.
Il ritiro USA dall’Iraq, senza avere raggiunto neanche uno degli obiettivi fondamentali che l’amministrazione Bush aveva in mente quando iniziò l’invasione, è una sconfitta tremenda e un disastro per il potere degli Stati Uniti.
Penso che sia stato Henry Kissinger a dire che se gli Stati Uniti fossero stati sconfitti in Iraq sarebbe stato “peggio del Vietnam”. Credo che questo sia esattamente ciò che è accaduto, perché quel che è in gioco in Medio Oriente e nel Golfo è molto più di quello che rappresentava il Vietnam.

USA isolati sulla Palestina

ATC: Questo ci porta direttamente alla mia prossima domanda sul significato del voto dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sullo status di “Stato non membro” per la Palestina. Un fatto che sembra molto più di una sconfitta per gli Stati Uniti di qualsiasi altra cosa, e che potrebbe significare molto per la realizzazione concreta di uno stato palestinese.

G.A.: Esatto, questa è una delle prove più evidenti di quello che stavo dicendo. Si tratta di un vero e proprio schiaffo a viso aperto che ha messo a nudo un grado di impotenza dell’impero abbastanza sorprendente, e che non avevo mai visto dall’ultimo periodo di declino nel 1970. Ora è evidente quanto gli Stati Uniti e Israele siano isolati assieme a Canada, Repubblica Ceca e alcuni stati insulari fittizi del Pacifico.

Il modo in cui l’Europa in particolare ha rotto con Washington è solo un indicatore di questo declino della potenza imperiale, soprattutto rispetto a ciò che sta accadendo nel Vicino Oriente. Il livello di mancanza di una risposta concreta a quanto accade nella regione e i tentativi di adattarsi alla situazione, senza alcuna reale alternativa all’investimento nei Fratelli Musulmani come si sta tentando di fare, tutto questo indica quanto l’egemonia regionale degli Stati Uniti stia perdendo terreno.

Per quanto riguarda quanto questo abbia che fare con “la soluzione dei due Stati” (Israele- Palestina), bisogna dire che per tutti i paesi che hanno votato a favore, o che si sono astenuti sulla risoluzione, ovviamente, il voto era strettamente collegato all’opinione che hanno di questa soluzione. Hanno ritenuto che un voto negativo sarebbe stato interpretato come un rifiuto di questa formula che sostengono ormai da anni. Questo infatti è anche il modo in cui l‘Autorità Palestinese ha presentato la questione, e cioè come “l’ultima occasione per la soluzione dei due Stati”.
Tra i palestinesi il risultato è stato per lo più visto come una vittoria morale dopo una lunga catena di sconfitte di tutti i tipi e di fronte a una forza militare schiacciante come quella di Israele, che continua il suo accanimento contro Gaza. Il voto è venuto anche sulla scia di un’altra vittoria morale, il fiasco dell’ultimo attacco di Netanyahu su Gaza.

ATC: L’Europa continuerà a mantenersi fortemente contraria all’espansione di Israele nella zona “E1”? (Il progetto intorno all’area di Gerusalemme Est annunciato da Israele immediatamente dopo il voto delle Nazioni Unite, che taglierebbe la Cisgiordania in due).

G.A.: Questo resta da vedere, ma l’espressione di rabbia questa volta è nettamente superiore rispetto alle precedenti occasioni. È un segnale specifico nei confronti dell’espansione di una colonia che è qualitativamente più dannosa delle decisioni passate, per il problema di Gerusalemme Est e le sue implicazioni per l’integrità territoriale di un ipotetico Stato palestinese.

Netanyahu ha preso il voto degli Stati Uniti come un via libera, quindi sono davvero gli USA ad avere la responsabilità diretta di questo, anche se Washington ha cercato di prenderne le distanze. Israele non avrebbe avuto il coraggio di sfidare il mondo e Washington, ma può sfidare tutti gli altri fino a quando gli Stati Uniti rimangono in gioco.
Come tutti sappiamo, la leva finanziaria europea su Israele è relativamente limitata. Esistono mezzi attraverso i quali potrebbero esercitare pressioni, come lo stop agli accordi commerciali privilegiati o la pratica reale del BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni), ma una cosa del genere è talmente al di là delle politiche europee che è difficile da immaginare.

Il nocciolo della questione è che Israele dipende soprattutto dagli Stati Uniti, ed è impressionante che anche questo presidente, Obama, che per molti versi ci si aspettava essere favorevole ai palestinesi, abbia rinunciato a qualsiasi possibile lotta.
Se si guarda ai decenni dopo Eisenhower, è l’amministrazione Bush Senior che appare come quella che ha avuto la maggiore influenza su Israele. Nel 1991, ad esempio, proprio al culmine dell’egemonia degli Stati Uniti, ha spinto il governo di Yitzhak Shamir a partecipare ai negoziati di Madrid, minacciando di sospendere le garanzie per un prestito di 10 miliardi dollari che Israele in quel momento stava cercando. Da allora non abbiamo più visto niente di simile.
Naturalmente Bush Junior era in totale sintonia con i governi più di destra in Israele e dal 2001 abbiamo assistito ad uno spostamento continuo verso l’estrema destra. Spostamento che è proseguito anche con l’amministrazione Obama e che non è altro che un riflesso del profondo declino dell’influenza degli Stati Uniti: Washington non è in grado di esercitare pressioni sul suo alleato più affidabile.

ATC: Abbiamo la sensazione che ci sia un accordo grazie al quale Israele non attaccherà l’Iran contro la volontà degli Stati Uniti, che sarebbe comunque folle, in cambio gli Stati Uniti permettono ad Israele di avere mano libera sui territori occupati palestinesi e su Gaza. Ha senso un’ipotesi di questo tipo?

G.A.: Credo che queste “trattative”, se vi piace, non siano esplicite, ma possono esistere implicitamente. L’amministrazione Obama ha effettivamente dovuto affrontare le minacce di un’azione unilaterale da parte di Israele. Bisogna aggiungere che la rielezione di Obama è una sconfitta per Netanyahu, che scommetteva su Romney, nella convinzione che Romney avrebbe acconsentito, e forse anche partecipato, ad un’azione militare contro l’Iran.

La verità è che non solo l’amministrazione Obama, ma anche gli alti ufficiali del Pentagono sono molto preoccupati per una tale prospettiva (quella di un’azione israeliana). Non sono disposti a correre un grosso rischio solo per fare piacere a Netanyahu. Lo stesso accade anche nell’esercito israeliano. Ci sono indiscrezioni che trapelano dal settore della sicurezza e dagli ambienti dell’intelligence israeliani che sostengono che sarebbe un’impresa folle.
L’Iran ha missili e razzi e così pure Hezbollah in Libano. Non sarebbe un’azione senza rischi come invece è stato l’attacco a Gaza.

Il risultato finale è che Netanyahu, dopo aver indetto le elezioni per gennaio, con la sconfitta di Romney, ha dovuto ridurre le sue ambizioni ed ha attaccato Gaza in una manovra elettorale sostitutiva del suo desiderio di colpire l’Iran. Azione che sembra essere un fallimento.
Quanto a cosa accadrà dopo, penso che sia difficile immaginare che Israele lanci un attacco su un bersaglio come l’Iran senza un chiaro nulla osta degli USA. Sarebbe così folle che non credo che l’esercito israeliano accetterebbe.

ATC: Lei aveva previsto con precisione che le vittorie delle rivolte non violente della primavera araba non si sarebbero ripetute nel caso di regimi come la Siria. Come vede la crisi che è esplosa lì e cosa stanno cercando di fare le forze esterne?

G.A.: Le politiche di Stati Uniti ed Europa, Gran Bretagna in particolar modo, si sono concentrare per evitare quello che considerano un cambiamento “caotico”. Il motto di Washington, già da subito, a partire dal gennaio 2011, è stato “transizione ordinata“, una frase ripetuta innumerevoli volte dai funzionari degli Stati Uniti, Obama e Hillary Clinton inclusi.
Questa è la “transizione ordinata” che hanno imposto allo Yemen con l’aiuto del Gulf Cooperation Council (GCC) delle monarchie del petrolio: una specie di sistemazione che ha depredato il movimento yemenita popolare della sua vittoria, un compromesso del tutto frustrante che non funziona perché ha lasciato il paese completamente instabile. Hanno negoziato un accordo in cui il presidente ha consegnato il potere al suo vice, mentre lui continua ad operare dietro le quinte e la sua famiglia gestisce l’esercito, un reale tentativo di interruzione del processo rivoluzionario.
Questo è esattamente ciò che gli Stati Uniti cercano di ottenere quando c’è una grande rivolta di massa e il cambiamento diventa inevitabile, come in Libia, dove l’obiettivo dell’intervento è stato quello di cercare di controllare il processo. Anche se non potevano farlo via terra perché i ribelli libici non avrebbero accettato truppe straniere, hanno continuato a negoziare con il figlio di Gheddafi (Seif al-Islam). Ma la rivolta non rispetta limitazioni di questo tipo, e il regime è stato poi abbattuto dagli insorti nella sua stessa capitale.

In Siria hanno nuovamente cercato di ottenere una “transizione” senza dare un reale sostegno alla rivolta. Naturalmente non c’è un intervento militare diretto degli Stati Uniti o della NATO, e il rifiuto di armare la rivolta spiega il forte squilibrio tra la ribellione armata e il regime. Obama stesso aveva parlato di una “soluzione Yemen” per la Siria. Non molto tempo fa, il primo ministro britannico David Cameron aveva detto che la sicurezza di Assad avrebbe potuto essere garantita se avesse lasciato il paese.

Questa è arroganza imperiale senza limiti. Indica chiaramente quali sono le reali intenzioni di queste persone, e quanto sia sbagliato credere che Washington stia cercando di rovesciare il regime. La loro preoccupazione principale è ciò che Washington e Londra chiamano “la lezione dell’Iraq”. Lì infatti, hanno smantellato l’esercito e l’intero Stato, per poi accorgersi che era un grave errore. In realtà, anche questa è una valutazione sbagliata dei motivi della loro sconfitta in Iraq, che sono ben più profondi, ma, dal loro punto di vista, hanno commesso un errore enorme nello smantellamento dello stato baathista, e non vogliono ricaderci.
Stanno ripetendo la stessa formula in Siria: cercano di trovare un accordo con tutti i settori disponibili del regime. Non stanno ottenendo successo in questa direzione, non più diquanto non sia accaduto in Libia, perché il conflitto è tale, dopo tanta distruzione perpetrata da parte di un regime e una famiglia regnante, disposti a distruggere il loro paese, con intere città come Homs e Aleppo – mi ricorda l’attacco israeliano in Libano e la distruzione della periferia di Beirut nel 2006 – che diviene inimmaginabile che la gente sia disposta a convivere con qualsiasi settore abbia fatto parte di una tale macchina statale organizzata su una base confessionale com’è questa. Credere che sia possibile è una pia illusione.

ATC: Dunque, in che direzione crede che si evolverà la situazione a questo punto?

G.A.: Non credo che ci sia altra possibilità che la fine del regime, la situazione è completamente irreversibile. Perciò la domanda importante non è se il regime cadrà, ma in quanto tempo ciò avverrà. Più tempo ci vorrà e maggiore sarà il costo umano e anche il costo politico, perché questo protrarsi della situazione sta creando le condizioni per undeterioramento della scena politica anche all’interno della rivolta.
In assenza di un sostegno occidentale, il supporto alla rivolta è venuto dalla monarchia saudita, incanalatasi attraverso le forze fondamentaliste sul campo. È la profezia del regime che si realizza, perché fin dall’inizio ha detto che si trattava di una “congiura dei salafiti e di al-Qaeda” e ha fatto del suo meglio per produrre questo risultato. Tutto questo,naturalmente, è molto preoccupante, ed è per questo che più a lungo prosegue il conflitto e peggio sarà per il futuro della Siria.

È nell’interesse del futuro della Siria che il regime cada molto presto. Purtroppo sembra piuttosto difficile, ma se si fa il confronto con l’anno scorso, quando la situazione stava appena cominciando a militarizzarsi, il regime ha perso molto terreno e diventa chiaro quanto velocemente le cose possano svilupparsi. Dipende anche da ciò di cui cui dispone la rivolta, ci sono notizie infatti di un sostegno da parte del Qatar e dell’acquisizione da parte dei ribelli di missili terra-aria. Ma in mancanza di simili elementi, o senza un collasso interno alle forze del regime, la situazione può benissimo durare per diversi mesi, anche un anno o più.

ATC: Infine, c’è la nuova crisi politica in Egitto. Può darci una valutazione in breve?

G.A.: Il problema in Egitto non è una sorpresa perché, da un lato, la Fratellanza Musulmana è di gran lunga la più potente forza organizzata dopo il crollo delle istituzioni del regime di Mubarak. Quindi c’era da aspettarsi la loro vittoria elettorale. Il punto chiave però non è che abbiano guadagnato il potere, ma la fragilità reale della loro vittoria. La vittoria elettorale di Morsi infatti, non è stata travolgente, e agli occhi del movimento di massa lui non comanda alcuna autorità.
Appena decretata la concentrazione del potere, ecco che si solleva una grande e ostinata spinta che gli si oppone. I Fratelli Musulmani hanno una forza molto potente, in grado di organizzare le masse, ma quel che c’è di nuovo è che ormai c’è un gran numero di persone pronte a dire “No“. Nel lungo periodo questo regime è in realtà molto debole, una “tigre di carta”, perché non ha soluzioni per tutti i maggiori problemi economici e sociali che hanno portato alla rivolta anti-Mubarak.

Le radici profonde di tutto questo si possono trovare nelle difficoltà economiche e nell’enorme disoccupazione. Morsi nel suo programma non ha nulla se non una politica di continuazione col precedente regime. Ha appena firmato un accordo con il Fondo Monetario Internazionale contenete le stesse condizioni di sempre, che creeranno un’insoddisfazione ancora maggiore.
Così, lo sconvolgimento che ha avuto inizio nel mese di gennaio 2011 è tutt’altro che finito.
Siamo solo all’inizio di un processo rivoluzionario molto lungo, e il rapido discredito che sta calando sui Fratelli Musulmani in Egitto e in Tunisia è motivo di ottimismo per il futuro, non lo è invece il diffuso pessimismo soprattutto in Occidente, dove in molti avevano delle aspettative errate ed ora giudicano negativamente l’intera rivolta.

Gennaio / febbraio 2013, ATC 162

RIVOLUZIONE PERMANENTE E RIVOLUZIONI ARABE

Sono molte le questioni di cui discutere. Il Medio Oriente fa notizia per l’attacco contro Gaza o per la situazione in Tunisia, la presa del potere da parte di Morsi in Egitto o le minacce contro l’Iran: un gran numero di avvenimenti. Comincerei con una domanda su un giudizio generale delle Primavere arabe, di ciò che è stato definito Primavera araba ed è iniziato due anni fa, il 17 dicembre 2010 in Tunisia e non si è più fermato. Puoi darci degli elementi per una comprensione generale di ciò che questo ha significato per la regione?

Gilbert Achcar: Il commento generale che posso fare è che, per la prima volta nella storia della regione, le cose sono veramente in movimento e in via di cambiamento. Tutto ciò ad un ritmo per di più talmente rapido che la regione è entrata in quello che definisco un processo rivoluzionario a lungo termine.  Situazioni bloccate di ogni sorta sono in via d’esplosione. Penso che questa situazione rimarrà tale per molti anni a venire.

Parlando di “situazioni bloccate” pensi ai regimi dittatoriali vecchi e sclerotizzati? Puoi dirci qualcosa a questo riguardo e in particolare sulla situazione attuale della Tunisia?

Gilbert Achcar: Sì, ma devo aggiungere che si tratta di qualcosa di più che dei regimi dittatoriali. Ben inteso, questi costituiscono la parte più visibile del blocco, quella che è stata colpita più direttamente dalle sollevazioni nei paesi in cui vi sono state delle vittorie fino a questo momento. Ma si tratta solo di un aspetto delle situazioni bloccate più vaste che comprendono anche un arretramento economico. La regione tunisina rimane indietro rispetto al resto del mondo in termini di crescita e, più in generale, di sviluppo, malgrado possegga risorse naturali importantissime. La Tunisia detiene il record mondiale del tasso di disoccupazione da molti decenni. C’è un arretramento sociale, senza parlare del blocco evidente legato alla condizione della donna. Vi sono quindi un insieme di elementi che frenano la situazione ed io fin qui ne ho ricordati solo alcuni, i più evidenti. Tutto questo sta scoppiando in un gigantesco incendio iniziato in Tunisia.
Tutto è iniziato in Tunisia il 17 dicembre 2010. Questa è la data in cui Mohamed Bouazizi si è dato fuoco, accendendo la miccia in tutto il paese e poi a tutta la regione. Il fatto che la Primavera sia iniziata in Tunisia è legato alle lotte che in questo paese vi sono state nel corso degli anni 2000, lotte legate ad un’importante tradizione di sinistra, principalmente grazie alla centrale sindacale UGTT [Unione generale tunisina del lavoro]. È questa specifica situazione che spiega perché l’esplosione è avvenuta in questo paese prima che in altri, ma ciò non significa che le condizioni fossero più mature in Tunisia che altrove, come è dimostrato dal fatto che l’esplosione in Tunisia ne ha provocate altre in altri paesi. Quasi nessun paese di lingua araba è stato risparmiato dalla sollevazione, dall’est all’ovest della regione: dalla Mauritania al Marocco, alla Siria e all’Iraq.

Ad un certo punto, senza dubbio a causa dei risultati elettorali in Egitto e prima ancora in Tunisia, è sembrato che i vincitori immediati della Primavera araba fossero delle organizzazioni islamiche come i Fratelli musulmani in Egitto. Puoi dirci qualcosa al riguardo, innanzitutto della Tunisia e poi anche dell’Egitto?

Gilbert Achcar: Sì, era del tutto prevedibile. La miglior previsione riguardo la regione era che vi sarebbero state e che vi saranno delle esplosioni sociali e politiche: leggendo i rapporti delle ambasciate degli Stati Uniti, resi pubblici da Wikileaks, emerge che gli stessi Stati Uniti non si fanno troppe illusioni. Si sapeva fino a che punto la situazione era tesa e pericolosa. Visto tutto questo, la previsione più comune era che queste esplosioni avrebbero spinto in avanti sulla scena politica il movimento integralista islamico in un momento in cui – visto da Washington – questo era considerato una minaccia per gli interessi americani. Ma una volta iniziata la rivolta, vi è stata la tendenza a scambiare i desideri per la realtà e a credere che nuove forze emergenti sarebbero state capaci di dirigere e condurre l’intero processo,  respingendo le forze islamiche in secondo piano.
È vero che sono emerse delle nuove forze, in particolare tra la nuova generazione. È vero che nuove reti di giovani, utilizzando tutte le risorse rese disponibili da Internet, hanno svolto un ruolo chiave costruendo, organizzando e coordinando le rivolte; al riguardo non c’è alcun dubbio. Ma con delle insurrezioni che chiedevano libere elezioni – una rivendicazione normale per un popolo assetato di democrazia, come in questo caso – era tuttavia evidente che le elezioni a breve termine sarebbero state vinte da chi aveva i mezzi per vincerle. Non si possono vincere delle elezioni solo attraverso Internet, come voi sapete bene. Sono necessari degli apparati politici, del denaro, delle organizzazioni radicate sul territorio, lì dove vivono le masse degli elettori, come nelle regioni rurali. Tutto questo non si può inventare o improvvisare in poche settimane e per questa ragione era del tutto prevedibile che le forze integraliste islamiche, in particolare i Fratelli musulmani con le loro diverse diramazioni ed organizzazioni, avrebbero vinto le elezioni. Queste forze disponevano di un potenziale accumulato nel corso dei molti anni dedicati alla costruzione di reti, in particolare in Egitto dove potevano agire apertamente. Non era così in Tunisia, ma questa difficoltà è stata compensata dal fatto che queste forze beneficiavano della manna dei paesi petroliferi e dell’impatto della televisione. Diverse reti televisive della regione sono al servizio di questi gruppi, sia attraverso programmi religiosi – vi sono numerosi canali religiosi – o attraverso lo specifico ruolo politico svolto dal principale canale satellitare regionale che è Al Jazeera. Al Jazeera agisce apertamente per conto dei Fratelli musulmani, che hanno una notevole influenza nella squadra di giornalisti sponsorizzati dal governo del Qatar, che possiede e gestisce Al Jazeera. Quindi disponevano di notevoli risorse, come anche, ovviamente, di molto denaro proveniente dalle monarchie del Golfo.
Era del tutto prevedibile che i Fratelli musulmani ottenessero la maggioranza dei voti, questo dato quindi non rappresentava una sorpresa.  Coloro che scambiano facilmente i propri desideri con la realtà hanno reagito a queste elezioni abbandonando le visioni idilliache alle quali avevano aderito inizialmente, abbracciando, successivamente, un’ idea molto fosca della situazione, con commenti del tipo “la Primavera si trasforma in inverno”. Ciò che ha sorpreso, in verità, è stata la debolezza delle vittorie elettorali delle forze religiose. Il caso emblematico è sicuramente l’Egitto, dove la caduta dell’influenza e dei risultati elettorali dei Fratelli musulmani è stata rapida. È sufficiente prendere in considerazione il numero dei voti che i Fratelli musulmani hanno ottenuto alle elezioni parlamentari e successivamente alle elezioni presidenziali e, infine, al referendum sulla Costituzione: è evidente che hanno perso la loro influenza molto rapidamente. Hanno perso terreno e questo è il fatto più sorprendente.
La stessa cosa si può dire per la Tunisia, malgrado i problemi delle divisioni in seno alla sinistra, una sinistra che era ridicolmente divisa in un numero incredibile di gruppi ed organizzazioni: nella capitale al momento delle elezioni si sono confrontate decine di liste della sinistra e della sinistra radicale. Se si sommano i voti ottenuti dalle diverse liste  di sinistra, si ottiene un risultato  che avrebbe potuto tradursi in un numero significativo di seggi in parlamento. Nonostante ciò, i Fratelli musulmani tunisini del movimento Ennahda hanno ottenuto il 40% dei voti con una partecipazione alle elezioni della metà degli aventi diritto e ciò significa che hanno in realtà ottenuto il 20% degli iscritti. Non si può dire che si sia trattato di una marea. La Tunisia, da allora, ha conosciuto un deterioramento delle condizioni sociali e la coalizione che è arrivata al potere, diretta dalla forza islamica dominante, ha perso terreno. È screditata sempre più a causa della sua incapacità a realizzare una soluzione ai problemi reali ai quali il paese deve far fronte, quelli che ho già menzionato: disoccupazione, problemi economici, sociali, ecc.
In Tunisia come in Egitto si è assistito ad un aumento delle lotte sociali, delle lavoratrici e dei lavoratori, con scontri crescenti con i governi dominati dai Fratelli musulmani in entrambi i paesi. Questo fenomeno ha raggiunto livelli drammatici in Tunisia con uno scontro tra l’UGTT ed il governo diventato violento. Il paese si avvia verso nuove elezioni ma, anche prima di questo nuovo turno elettorale, gli scontri sociali e politici si stanno aggravando, in un modo tale che l’intera situazione è arrivata ad un punto di esplosione. Tutto cambia molto rapidamente. Sia la tendenza iniziale a scambiare i desideri con la realtà, quanto i successivi giudizi catastrofici sono impressionistici ed errati. La realtà è che siamo di fronte ad uno sconvolgimento rivoluzionario di lunga durata, un processo rivoluzionario che è iniziato nel dicembre 2010 e proseguirà sia nei due paesi che hanno ottenuto iniziali successi, sia in quelli che ancora non hanno raggiunto un livello più alto. Tutta la regione è in fermento.

Cos’è accaduto con l’appello di inizio dicembre dell’UGTT per uno sciopero generale? È stato ritirato?

Gilbert Achcar: L’appello è stato annullato dopo un compromesso. Fondamentalmente, la direzione dell’UGTT ha temuto che il confronto si sviluppasse  a suo sfavore dato che il solo precedente appello allo sciopero generale nel paese, nel 1978, si era risolto in uno scontro durissimo. C’era dunque timore rispetto a ciò che poteva accadere. Per questa ragione l’UGTT ha accettato di ripiegare su un compromesso grazie al quale nessuna delle due parti ha perso la faccia. Tuttavia l’avvertimento era stato comunque lanciato e l’UGTT ha usato parole chiare nei suoi attacchi al governo e nelle sue critiche del modo in cui si comportava al potere: continuava a pretendere la dissoluzione delle milizie armate controllate dal partito islamico. I Fratelli musulmani, tanto in Egitto quanto in Tunisia, si sono dimostrati più efficaci anche di Mubarak nel far ricorso a questo tipo di organizzazione.
Così si presenta la situazione. La prospettiva è molto interessante in Tunisia perché è il solo paese della regione nel quale un movimento organizzato da lavoratori dirige realmente un processo politico. Era già alla testa della rivolta dal dicembre 2010 al gennaio 2011. Ben Ali è fuggito dal paese il giorno in cui lo sciopero generale si è esteso alla capitale, il 14 gennaio 2010. Sono stati i sindacalisti a dirigere la lotta di Sidi Bouzid, la città dove tutto è iniziato dopo il suicidio di Bouazizi, fino al giorno in cui la sollevazione è culminata nella capitale. I militanti sindacalisti di base e i quadri intermedi sono stati la vera direzione della lotta. Tuttavia dopo la caduta della dittatura vi è stato un cambiamento nella direzione della UGTT che ha posto al timone la sinistra, compresa quella radicale. La sinistra tunisina aveva finalmente tratto lezione dalla sua recente esperienza ed era giunta ad unirsi in quello che hanno chiamato Fronte popolare. Il fatto che questa coalizione di forze di sinistra sia dominante all’interno dell’UGTT è estremamente importante: questo pone la Tunisia ad uno stadio più avanzato della lotta rispetto a qualunque altro paese della regione.

Passiamo dalla Tunisia all’Egitto dove, dopo l’elezione di Mohamed Morsi alla presidenza nell’estate scorsa, vi è stato un tentativo di unificare l’opposizione contro i Fratelli musulmani. Puoi dirci qualcosa riguardo alle forze di sinistra dopo la rivoluzione?

Gilbert Achcar: Sì, ma c’è un’importante differenza tra l’Egitto e la Tunisia. La differenza sta nel fatto che il ruolo della sinistra in Tunisia è molto più importante perché in questo paese essa è stata molto attiva all’interno del movimento sindacale, l’UGTT, per un periodo di diversi decenni. E ciò, nonostante che nella gran parte di questo periodo la direzione burocratica del sindacato sia stata sotto il controllo o l’influenza del governo. La sinistra è rimasta costantemente molto attiva nelle sezioni sindacali locali: non a caso i militanti sindacali più conosciuti appartengono alla sinistra.
Purtroppo una situazione simile non esiste in nessun altro paese della regione, compreso l’Egitto. In Egitto l’opposizione si è organizzata in una coalizione della sinistra e di forze liberali, compresi alcuni resti del vecchio regime. Sicuramente ciò potrebbe avvenire anche in Tunisia nella misura in cui alcune forze di sinistra o del sindacato fossero tentate da un’alleanza con i resti del vecchio regime nello scontro con i Fratelli musulmani, le forze integraliste islamiche. Tuttavia, questo già accade in Egitto, dove Amr Moussa fa parte della coalizione. Occorre dire che Moussa  rappresenta la frazione liberale del vecchio regime. Non è come Ahmed Chafik, l’ex candidato alle presidenziali, che era considerato il rappresentante ufficiale della continuità con il regime di Mubarak. Ciò che caratterizza l’Egitto, quindi, è una coalizione della sinistra con i liberali. Nella misura in cui si tratta di un fronte unito nella rivendicazione della democrazia, l’alleanza può essere ritenuta legittima. Il problema, però, è che essa va ben oltre, trasformandosi in alleanza elettorale.
La stessa sinistra allargata è rappresentata soprattutto da Hamdin Sabahi, il candidato che ha sorpreso tutti al primo turno delle elezioni presidenziali arrivando in terza posizione e vincendo anche al Cairo e ad Alessandria, le due più importanti concentrazioni urbane. È  stata una grande sorpresa. Sabahi è riuscito a rappresentare coloro che cercano un’alternativa sia al vecchio regime sia alle forze islamiche. Dopo le elezioni Sabahi ha fondato la Corrente popolare, alla quale si è unita la gran parte dei gruppi della sinistra radicale. La Corrente radicale, purtroppo, è stata soppiantata da una più larga coalizione orientata a sviluppare il potenziale di sinistra raccolto attorno a Sabahi al momento del primo turno delle elezioni presidenziali.

In Egitto lo scontro con il regime diretto dai Fratelli musulmani solleva la questione del ruolo dell’esercito. Puoi condividere con noi le tue riflessioni a questo riguardo? Sia sui rapporti di forza sia sui possibili sviluppi dei problemi economici e politici non risolti: è un regime che perde il sostegno elettorale e la propria legittimità elettorale e politica?

Gilbert Achcar: La velocità con la quale Morsi perde sia il terreno che la legittimità è la vera sorpresa. Ho sempre pensato – e non sono il solo – che la gente avesse bisogno di passare attraverso un’esperienza di questo genere, in modo da capire cos’è realmente e poter smettere di essere ingannata da slogan tipo “l’Islam è la soluzione”, slogan che nascondono l’assenza di concreti programmi alternativi. Ma ciò sta avvenendo ancora più rapidamente di quanto previsto.
Una delle ragioni è il modo maldestro con cui i Fratelli musulmani fanno fronte alla situazione. Hanno dato prova di molta arroganza, credendo che con l’aiuto di Dio fosse arrivato il loro momento e che avessero le redini saldamente nelle mani. Vi è in questo una grande miopia politica. Se fossero stati più intelligenti, avrebbero capito che tutto questo era avverso ai loro interessi nel governare in questo momento. Chiunque cerchi di dirigere il paese col genere di programma che essi hanno [i Fratelli musulmani]- che non è altro che la prosecuzione del programma del vecchio regime – è condannato ad una cocente sconfitta. L’evento più significativo avvenuto in Egitto è stato l’accordo che Morsi ha firmato con il FMI [Fondo Monetario Internazionale]. Ha firmato un accordo che include le condizioni considerate fondamentali da tutti i potenziali donatori dell’Egitto. Hanno firmato un accordo che corrisponde alle loro vedute neoliberiste che, ben inteso, non sono diverse da quelle del vecchio regime. Mentre i Fratelli musulmani iniziavano a scontrarsi con l’opposizione, il governo Morsi ha deciso di aumentare il prezzo degli alimenti base e di modificare il sistema delle imposte in modo che non colpisca i più ricchi. Questo ha provocato tali proteste che Morsi ha dovuto dopo qualche giorno annullare queste misure sulla sua pagina di Facebook! Ciò dimostra fino a che punto questa gente non è minimamente in grado di trovare una soluzione reale ai profondi problemi sociali ed economici del paese.
Ora arrivo al ruolo dell’esercito. C’è molta agitazione riguardo al “colpo di Stato rivoluzionario” che sarebbe rappresentato dall’esclusione voluta da Mohamed Morsi di Hussein Tantaui e del suo vice alla testa del Consiglio Supremo delle Forze Armate, il CSFA. Però, questo è stato fatto con il pieno accordo delle gerarchie militari, che avevano realmente tentato di sbarazzarsi di queste persone che ricoprivano quelle cariche soltanto perché erano stati imposti da Mubarak contro la volontà dei militari. Basta considerare l’età di Tantaui, ben superiore ai limiti per poter restare nell’esercito in servizio attivo. È noto, sulla base dei rapporti diplomatici americani pubblicati da Wikileaks, che gli ufficiali chiamavano Tantaui “il barboncino di Mubarak”. Il fatto di spedirlo in pensione non aveva, quindi, niente di “rivoluzionario”. I due ufficiali hanno ricevuto medaglie e generosi benefici e anche un’immunità che li dispensa dal dover rendere conto di ciò che hanno fatto finché erano alla testa del CSFA. La convinzione secondo la quale la posizione dell’esercito sarebbe stata indebolita è quindi del tutto errata.
Si pensi a ciò che è accaduto di recente quando sembrava che lo scontro tra Morsi e l’opposizione fosse arrivato al culmine. Il nuovo capo dell’esercito ha preso l’iniziativa di presentarsi come arbitro della situazione ed ha convocato una conferenza che avrebbe dovuto riunire il presidente e il governo, da un lato, e l’opposizione, dall’altro.  L’esercito aveva già rilasciato delle dichiarazioni che sono la copia esatta delle sue dichiarazioni durante l’insurrezione contro Mubarak, sostenendo che non avrebbe represso il popolo. Il messaggio era il seguente: “Non abbiamo accettato di essere usati politicamente da Mubarak e non accetteremo di esserlo da parte di Morsi”. È dunque questo  il ruolo che svolge l’esercito. Si può supporre che Washington abbia insistentemente consigliato all’esercito di rimanere estraneo alla disputa, di mantenersi in veste di arbitro in modo da poter avere il ruolo di “salvatore” se la situazione dovesse degenerare ulteriormente, con la ripetizione della sequenza tradizionale: rivoluzione, caos, colpo di Stato. Il popolo egiziano, in ogni caso, è troppo critico verso l’esercito perché qualcosa del genere possa accadere. Ma nessuno può prevedere ciò che potrà accadere nel lungo periodo.

Prima di farti una domanda sulla Siria, vorrei chiederti brevemente qual è il rilievo della questione dei palestinesi e di Gaza in questa situazione. Il modo con cui Morsi ha agevolato il negoziato dell’accordo [tra Hamas e Israele]è stata interpretata come una buona mossa per lui. Il settimanale Time, come sai, lo ha battezzato come l’uomo più importante del Medio Oriente, per poi criticarlo una settimana più tardi.L’intera questione di Israele e dei palestinesi ha un’importanza significativa in questo quadro? Puoi dirci qualcosa a riguardo?

Gilbert Achcar: Questa è una domanda che ci fa arrivare ad un punto importante. Ho parlato della boria e dell’arroganza dei Fratelli musulmani. Un elemento chiave che spiega il loro atteggiamento è il sostegno che hanno da parte di Washington. Questo è un elemento centrale nella loro convinzione di essere al comando, di poter dirigere [la situazione]. Washington infatti è stata colta alla sprovvista dalla sollevazione popolare ed in un momento in cui gli Stati Uniti si trovavano – e si trovano – nel momento più basso della loro influenza dopo aver raggiunto l’apogeo nel 1991, con Bush padre, quando un milione e mezzo di soldati statunitensi erano dispiegati nel Golfo all’epoca della guerra diretta dagli Stati Uniti contro l’Iraq. A quell’epoca, l’apogeo dell’egemonia degli Stati Uniti ha condotto anche al cosiddetto processo di pace tra Israele e gli Stati arabi e successivamente agli accordi di Oslo nel 1993. Tutto questo, ormai, è alle nostre spalle. Il fattore principale di questo risultato è comunque la politica dell’amministrazione di George W. Bush e la catastrofe più significativa per l’Impero americano che si è rivelata con l’occupazione dell’Iraq. Si è trasformata in un disastro. Le forze armate degli Stati Uniti hanno dovuto ritirarsi dall’Iraq senza aver raggiunto neppure uno degli obiettivi fondamentali che si erano prefissati occupando il paese. Hanno dovuto lasciarlo senza neppure mantenervi una sola base e senza esercitare alcun controllo sul governo, che è molto più controllato dall’Iran. La prima cosa che il governo iracheno ha fatto dopo la partenza delle truppe americane è stata quella di negoziare un accordo sugli armamenti con la Russia. L’Iraq è stato un disastro per gli Stati Uniti e non a caso si trovano in una  situazione di grande debolezza. Gli Stati Uniti si sentono indeboliti nella regione e sono rimasti in secondo piano durante le operazioni della NATO in Libia, conservando un basso profilo, contrariamente a tutte le operazioni precedenti, sia condotte dalla NATO (in Kosovo e in Afghanistan) o no (in Iraq). E si può molto chiaramente constatare l’impotenza di Washington nel caso della Siria. In questa situazione l’unica forza su cui [gli Stati Uniti]potevano puntare erano i Fratelli musulmani.
È stato l’emiro del Qatar, grazie alla sua posizione di principale sponsor dei Fratelli musulmani fin dalla prima metà degli anni novanta, che ha concluso l’intesa. Washington ha finito per puntare sui Fratelli musulmani perché ha perso i suoi alleati abituali come Mubarak e Ben Ali. Dato che stiamo entrando in una nuova fase della storia della regione, Washington ha bisogno ormai di una forza che disponga di una vera base popolare. L’unica forza che hanno trovato è quella dei Fratelli musulmani, verso i quali sono molto ben disposti visto che hanno avuto una lunga storia di collaborazione. Nel corso degli anni cinquanta, sessanta e ottanta, fino agli anni novanta del secolo scorso, i Fratelli musulmani  erano allineati con gli Stati Uniti, in particolare durante gli anni cinquanta e sessanta, quando in tutta la regione erano visti come dei collaboratori della CIA. Questo è il ruolo che in realtà hanno avuto, lavorando contro il presidente egiziano Nasser e contro l’influenza sovietica in stretta collaborazione con la CIA, con gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita. All’epoca erano sponsorizzati dai sauditi prima di passare negli anni novanta all’appoggio del Qatar.
Washington, quindi, punta di nuovo su di essi. Il ruolo svolto da Morsi nell’episodio di Gaza  non è che la prosecuzione del ruolo che svolgeva il regime di Mubarak in passato, pur tuttavia con una maggiore efficacia grazie al fatto che Hamas è la branca palestinese dei Fratelli musulmani. Quindi hanno un’influenza maggiore su Hamas e di conseguenza hanno potuto negoziare quell’accordo e ottenere le congratulazioni degli Stati Uniti. Washington punta su questi signori sia in Tunisia, sia in Egitto e in futuro in Siria, quando il regime cadrà. Non vi è un solo paese dove i Fratelli musulmani non siano presenti e non abbiano un ruolo importante. Per questa ragione Washington punta su di loro e si è mostrata estremamente cauta nei suoi commenti su ciò che avviene in Egitto. L’amministrazione Obama infatti è stata più severa nel criticare Mubarak di quanto non abbia fatto con i Fratelli musulmani.

Puoi dirci qualcosa riguardo alla Siria? In questo preciso momento tutto il processo è incredibilmente complesso e violento da parte del governo e non esiste unanimità in seno all’opposizione, neanche all’interno della sinistra contrapposta al regime, nella misura in cui alcuni suoi segmenti sembrano sostenere il regime. Puoi commentare gli sviluppi in Siria?

Gilbert Achcar: La Siria non fa eccezione rispetto all’insieme delle sollevazioni della regione, nel senso che siamo di fronte a un regime dittatoriale, in verità uno dei più dispotici della regione (insieme alla Libia di Gheddafi e del regno saudita). Per un altro verso, si tratta di un paese nel quale la crisi socio-economica è stata molto grave, con un tasso di disoccupazione molto alto, un tasso di povertà che raggiunge il 30% e, inoltre, una famiglia regnante che concentra il potere e le ricchezze ad un incredibile livello. Il cugino del presidente siriano controlla il 60% dell’economia del paese. La sua ricchezza è stimata in sei miliardi di dollari. Gli ingredienti di un miscuglio esplosivo c’erano tutti. Ed è esploso.
A sinistra, ci sono i comunisti che partecipano al governo siriano. È una tradizione che risale ai tempi dell’Unione Sovietica, che intratteneva strette relazioni con il regime siriano – relazioni che sono proseguite con la Russia di Putin. La maggioranza della sinistra, per non dire tutta la sinistra nel senso vero del termine, è contro il regime. Il partito di sinistra più importante è rappresentato nel Consiglio Nazionale Siriano: si tratta di un’ala dissidente dei comunisti, che si è scissa negli anni settanta e si è opposta alla collaborazione con il regime.
Credere che il regime siriano sia “di sinistra” o, peggio, che Assad sia un “socialista, un umanista e un pacifista”, come ha dichiarato Hugo Chavez in modo molto imbarazzante è nel migliore dei casi frutto di ignoranza. Chiunque si dichiari di sinistra non dovrebbe avere la minima esitazione a sostenere pienamente il popolo siriano nella lotta contro questa brutale dittatura, sfruttatrice e corrotta. Al di là di questo, in Siria come in qualunque altro paese della regione, esistono forze che lottano contro il regime degli integralisti islamici. È stato il caso tanto della Tunisia quanto dell’Egitto. Questo non può essere preso a pretesto per denigrare l’intero processo di rivolta. In Siria, come altrove, la sinistra deve sostenere senza esitazione il movimento popolare e nello stesso tempo, dove le dittature vengono rovesciate, devono essere sostenute le forze più progressiste in seno al movimento popolare, seguendo questo processo di radicalizzazione all’interno della stessa rivoluzione che Marx ha chiamato “rivoluzione permanente”.

(Traduzione di Cinzia Nachira dalla versione francese a cura di A l’Encontre,  rivista dall’autore. Il testo originale in inglese è stato pubblicato in International Socialist Review, periodico dell’ISO – Stati Uniti. L’intervista è stata realizzata nel dicembre 2012)

PRIMAVERA PER LA SINISTRA ARABA?

di Gilbert Achcar e Peter Drucker e Alex de Jong 28 aprile 2012

Un paradosso fondamentale delle rivoluzioni in Egitto e in Tunisia è stato che i movimenti giovanili e i sindacati sono stati essenziali nel rovesciare le dittature —ma nelle elezioni che sono seguite, queste forze sono state spinte ai margini. Come si può spiegare questo paradosso? E queste forze come possono diventare parte di un nuovo progetto della sinistra? Gilbert Achcar commenta gli sviluppi nella sinistra nella Primavera Araba.
Intervistato da Peter Drucker e Alex de Jong

Nei suoi scritti recenti, lei ha tentato di occuparsi del paradosso per cui all’inizio delle insurrezioni nella regione araba, specialmente in Tunisia e in Egitto, gli attivisti dei sindacati di base popolare e i giovani che si identificavano con la sinistra, hanno avuto ruoli importanti, ma nel periodo politico che ne è seguito, la sinistra è stata molto debole. Che cosa rappresenta questo contrasto?

Dobbiamo fare una distinzione tra i movimenti giovanili, quelli della sinistra e quelli dei lavoratori. I gruppi di sinistra erano e sono marginali. In una situazione di crisi di solito consideriamo che le organizzazioni di sinistra abbiano un ruolo che è sproporzionato rispetto alla loro entità. Il motivo è che essi tendono naturalmente ad essere là dove avviene l’azione. Questo però non vuol dire che quando hanno il ruolo di coordinatori di un movimento di massa esercitino una vera egemonia sul movimento. Se parliamo delle reti informatiche usate dai giovani e che hanno dato un contributo decisivo a determinare queste rivoluzioni, esse non possono essere definite come “di sinistra” in senso stretto. Possono essere descritte come “progressiste” o “liberali” nel senso americano del termine. C’è però anche una differenza tra il fare da coordinatori, quando nessun altro può farlo, e la situazione ha raggiunto un punto di ebollizione, e, d’altra parte, trarre vantaggio dal punto di vista politico da questo ruolo. Sono due cose diverse.
Il movimento dei lavoratori ha avuto un ruolo decisivo in Egitto e in Tunisia, non in ogni paese della regione. In queste due nazioni, tuttavia, il movimento dei lavoratori ha delle organizzazioni potenti. Il movimento dei lavoratori in Tunisia aveva già una vecchia organizzazione, la UGTT [ Union Général Tunisienne du Travail – Unione generale tunisina del lavoro], e se ne sono formate di nuove in Egitto, dove una federazione di sindacati indipendenti è stata istituita dopo la caduta di Mubarak. In entrambi i casi, però, le organizzazioni dei lavoratori si sono attenute alla loro dimensione di sindacato: si impegnano molto nell’incrementare le lotte sociali e le lotte di classe, attività che al momento è particolarmente intensa. Non sono però intervenuti in questa veste sulla scena politica.
La vostra domanda si riferisce ai risultati delle elezioni: per quanto riguarda questo evento, né i movimenti giovanili, né i movimenti dei lavoratori erano presenti. In un certo senso è naturale che le forze che hanno le più grandi organizzazioni politiche e la maggiore esperienza di attività elettorale ottengano i migliori risultati. I partiti religiosi che hanno vinto così tanto nelle elezioni, hanno anche ricevuto importanti finanziamenti dagli stati del Golfo. Le loro vittorie elettorali dovevano essere previste. Da questo si deve trarre una conclusione: i nuovi governi non rappresentano il vero potenziale del movimento, e questo è il motivo per cui si deve insistere nel dire che questo è soltanto l’inizio della attuale evoluzione dei fatti.
Quanto era marginale la sinistra in Egitto e in Tunisia? Un membro della Ligue de la Gauche Ouvrière (La lega della Sinistra Operaia) in Tunisia ha sostenuto che nel definire la sinistra non serviva molto limitarla ai membri di gruppi specifici. Stimava che soltanto un decimo degli attivisti che si identificavano con la sinistra, erano membri delle organizzazioni di sinistra. Molti di loro non sarebbero mai entrati in nessuno dei gruppi esistenti a causa delle lotte interne, della confusione, ecc. Quale è la sua opinione in proposito?

E’certamente vero per la Tunisia, ma soltanto per la Tunisia. Questo paese ha una lunga tradizione di forti, radicali, influenze della sinistra sui movimenti studenteschi. Nel corso degli anni questo ha prodotto una massa di gente, ex studenti, che fanno parte di un ambiente di estremisti di sinistra che però non sono organizzati in nessun gruppo politico. Ciò che è accaduto è che il sindacato ha sostituito questi gruppi. I sindacalisti radicali con questo tipo di formazione hanno avuto un ruolo importante nei movimenti. Questo potrebbe cambiare: dopo la deposizione di Ben Ali, è iniziato un processo di ricostruzione delle organizzazioni delle reti di sinistra. La sinistra radicale nel suo insieme, però, è certamente più importante della somma delle organizzazioni della sinistra radicale. Anche in Tunisia, comunque, la sinistra non opera a livello politico in alcun modo unificato. A livello politico, le organizzazioni politiche sono attive e molte di queste sono caratterizzate dal settarismo. Ce ne sono troppe; é una sciocchezza. Quando però si tratta di lotta di classe, esse si trovano d’accordo a prendere posizioni radicali.
Il sindacato tunisino, l’UGTT, è un’organizzazione eccezionale, un misto tra il modello di un sindacato dominato dallo stato, che abbiamo visto in Egitto, in Siria e in tanti altri paesi della regione, e un sindacato genuino che rappresenta gli interessi della classe dei lavoratori. L’UGTT in tempo di pace ha una dirigenza dominata dallo stato, ma in momenti di crisi, sotto la pressione dei membri della base e talvolta a causa del ruolo di alcuni dei suoi capi, è possibile che si sposti su posizioni radicali. Lo ha fatto ripetutamente, in momenti cruciali della politica tunisina. E’accaduto cos’ dopo che sono iniziate le proteste nella regione dove Mohamed Bouazizi si è dato fuoco; i sindacati locali hanno auto un ruolo decisivo nel diffondere e radicalizzare il movimento. Mentre il movimento si diffondeva, si accumulava la pressione sulla dirigenza del sindacato, che alla fine la costringeva a dichiarare uno sciopero generale. Questo è stato un punto di svolta decisivo nella lotta per spodestare Ben Ali
Non è certo una coincidenza che il nuovo governo stia ora attaccando brutalmente l’UGTT, usando perfino i teppisti per attaccare la sua sede centrale. Il governo usa il sindacato come capro espiatorio per tutti i problemi che ci sono nel paese e li accusa di provocare malcontento sociale e problemi economici. Il sindacato, però, è così apprezzato, che penso che questi attacchi potrebbero essere controproducenti. Le contraddizioni sociali continuano a aumentare, ma questa volta i partiti islamici sono chiaramente dalla parte della contro-rivoluzione, non c’è più alcuna ambiguità rispetto al loro ruolo.
Lei ha descritto il movimento giovanile come liberale in senso americano. Questo solleva la domanda su quanto siano chiari riguardo al liberalismo anche molti giovani estremisti. Ci sono illusioni riguardo al modello democratico europeo?

Si deve fare una distinzione chiara tra il neoliberalismo, o il liberalismo economico, e le idee di questi giovani. Essi possono essere descritti come persone che appoggiano la libertà e la democrazia personale, e che hanno il senso della giustizia sociale. Se si mettono le loro idee in un programma, questo sarebbe vicino a idee sociali e democratiche. Questa è la loro prospettiva. In Egitto c’era perfino un partito costituito da gente che ha una formazione di sinistra che si definiscono social democratici. Naturalmente parliamo di giovani, le cui idee possono ancora subire profondi cambiamenti. C’è una grande potenzialità per la radicalizzazione verso sinistra, in base della loro esperienza. Hanno tendenza progressiste. Questo è molto diverso dal modo di vedere dei partiti religiosi. Lo slogan principale della Fratellanza Musulmana è stata da decenni: ‘L’Islam è la soluzione’; è tutto un altro mondo rispetto al modo di vedere di questi giovani militanti.
Essi appartengono a una generazione che ha avuto maggiori possibilità di accedere alla cultura globale. Una caratteristica importante di questa situazione è che i governi arabi hanno perduto la capacità di imporre un monopolio dell’informazione. Per gli occidentali l’importanza di questo fatto potrebbe essere difficile da comprendere, perché qui [in Europa] i governi da lungo tempo non hanno il monopolio dell’informazione. Il salto in avanti nello sviluppo della tecnologia dell’informazione ha avuto un profondo impatto sul mondo arabo, dove 15 anni fa i governi avevano ancora il monopolio dell’informazione. Non è soltanto internet, ma anche la televisione via satellite che ha rotto questo monopolio e ha fornito alla gente visioni alternative del mondo. Ha anche contribuito allo sviluppo di nuove aspirazioni di fronte a condizioni sociali pessime. La disoccupazione, specialmente la disoccupazione giovanile, è un fattore importante negli attuali cambiamenti.
Mi pare di capire che in Egitto della gente che si identificavano con la sinistra hanno appoggiato il blocco egiziano, che sembra molto più una forza liberale. D’altra parte ci sono state persone di sinistra che hanno chiesto di boicottare le elezioni. Lei invece sosterebbe invece un approccio orientato verso questi giovani progressisti?

In Egitto questo tipo di gruppi giovanili sono più importanti che in Tunisia, anche proporzionalmente. In Tunisia la sinistra radicale è molto grande. In entrambi i paesi, però, la priorità della sinistra radicale dovrebbe essere il movimento dei lavoratori. In entrambi i paesi, soltanto il movimento dei lavoratori può fare da leva per un cambiamento progressista, può formare una forza che si può imporre e che può cambiate la situazione politica. Non ci sono scorciatoie per creare partiti rivoluzionari improvvisati o cose del genere..
In pochi mesi, la Federazione Egiziana dei Sindacati Indipendenti – [EFITU – Egyptian Federation of Indipendent Trade Unions] ha attirato 1,5-2 milioni di membri. Naturalmente non tutti sono lavoratori socialisti. Quello che conta, però, è il loro impegno nella lotte sociali. La chiave è la lotta sociale. I partiti religiosi attaccano questo tipo di lotta dicendo che si basano su interessi personali limitati e che sono contrari agli interessi della nazione, ecc. Questo è stato il discorso portato avanti dalla Fratellanza Musulmana Egiziana e dall’Ennahda (partito di opposizione di impronta fondamentalista, n.d.T.) in Tunisia da quando sono caduti i dittatori.
Le società arabe sono molto giovani, quindi la proporzione di giovani nella forza lavoro che ha un impiego è alta. Questo fatto crea una possibilità di collegamenti tra i giovani e il movimento dei lavoratori. In quanto ai disoccupati, in Marocco si ha una tradizione di organizzazioni per i disoccupati. Per quanto ne sappia, non ne esistono in Egitto o in Tunisia, ma il movimento dei lavoratori di quei paesi può assumersi i problemi dei disoccupati, organizzarli e rappresentarli. Il divario tra il potenziale e le capacità della sinistra può essere colmato soltanto dando la priorità al movimento dei lavoratori.
In una situazione dove non ci sia una lotta intensa, si può pensare che si dovrebbe dare la priorità alla costruzione di un’organizzazione propria. Ma in una situazione come quella che vediamo adesso in Egitto o in Tunisia, se non si vuole perdere questo spazio di opportunità, ci si deve adattare. Il potenziale è incluso nelle forze sociali in movimento: è già in corso una radicalizzazione della società dei lavoratori, e nessun partito della sinistra radicale può rappresentarla. I gruppi esistenti in entrambe le nazioni sono davvero troppo piccoli. E’ un peccato che la sinistra tunisina non possa mettersi d’accordo per un progetto comune. L’UGTT ha preso parte alle elezioni politiche negli anni ’50, per esempio; questo è un precedente storico che può essere evocato e rinnovato. Forse il sindacato potrebbe diventare una specie di sindacato/partito della classe dei lavoratori. In Egitto la situazione è più complicata, ma almeno c’è una sinistra meno settaria che ha formato delle alleanze. Direi che la prospettiva di un partito basato sui sindacati sia una priorità che andrebbe esplorata in Egitto.
Per spostarsi rapidamente in un’altra parte della regione, può dirmi qualche cosa su paesi come la Libia e lo Yemen? In che misura è possibile una politica di sinistra in quei paesi?

Ognuna di queste nazioni è, naturalmente, molto diversa. In Yemen è stata imposta una transizione dai Sauditi e dai loro amici, cosa che ha creato un sacco di frustrazione. Nel sud sta crescendo un partito separatista. Come sapete, fino al 1994, c’erano due nazioni, e lo Yemen del sud è stata l’unica esperienza anticapitalista nel mondo arabo. L’accordo, però, ha l’appoggio della Fratellanza Musulmana, che spera che il nuovo presidente collaborerà con loro. L’intera situazione è influenzata da divisioni tribali e queste strutture tribali creano una base sociale per il regime. In Yemen abbiamo visto le uniche genuine mobilitazioni di massa a favore del governo. Le dimostrazioni filo governative in Libia erano in gran parte finte, e si può discutere il carattere delle dimostrazioni a favore di Assad in Siria. L’insurrezione in Yemen, ha però, ha scatenato un potenziale che esiste ancora, e la questione sociale non sparirà. Due terzi della popolazione in Yemen sono sotto la soglia di povertà!
La Libia è il paese che nella regione sta sperimentando al momento i cambiamenti più radicali. E’ l’unico paese dove il governo è stato davvero sgominato. Non c’è uno stato in Libia, non è stato sostituito; c’è una situazione caotica. Le milizie locali hanno sostituito lo stato come detentori del potere. Ci sono dei tentativi di costruire un nuovo stato, ma è una cosa difficile e non c’è neanche un’autorità politica. Il Consiglio Nazionale di Transizione (TNC- Transitional National Council) viene attaccato violentemente nelle dimostrazioni a Bengasi, a Tripoli ecc. Gli attacchi non vengono dalla gente che appoggiava Gheddafi, ma dalla gente che era impegnata nella lotta contro di lui dall’inizio. C’è uno spirito di rivolta e di scontento. Dopo 40 anni di oppressione, il coperchio è saltato via. Ma dopo 40 anni di regime totalitario, c’è pochissima educazione politica nel paese e questo è il motivo per cui è molto difficile prevedere il panorama politico perfino pochi mesi prima, nel periodo precede le elezioni. Naturalmente la corrente islamica è presente in Libia; c’è la Fratellanza Musulmana, ci sono i liberali. Anche le donne si organizzano. C’è stata una lotta riguardo alla bozza di legge elettorale che diceva che il parlamento dovrebbe avere almeno il 10% di donne tra suoi membri – c’è stato un grosso clamore quando si è saputo, e il quorum è stato portato al 20%. I mezzi di informazione occidentali hanno riferito soltanto le dichiarazioni dei membri del TNC sull’introduzione della legge islamica, la sharia, e sulla legalizzazione della poligamia, ma nella realtà libica ci sono vere lotte e vittorie per i gruppi femminili. E’ stata formata anche una federazione sindacale che è collegata a quella egiziana.
Sì, ci sono quindi possibilità anche in Libia.
(Questa intervista è stata fatta il 25 febbraio. Una parte è stata pubblicata sulla rivista socialista olandese ‘Grenzelos’).

Traduzione di Maria Chiara Starace

LIBERTA’ DI CRITICARE LA RELIGIONE

La libertà di criticare la religione è una pietra di paragone della libera espressione
di Gilbert Achcar e Farook Suleheria
25 settembre 2012

Q: dieci anni dopo il suo libro,The Clash of Barbarism, scritto in seguito all’11 settembre, sembra che la situazione sia solo peggiorata. Una caricatura su un giornale sconosciuto, un video di fattura rozza : qualsiasi cosa può accendere uno scontro di barbarie mascherato da scontro di civiltà. Come analizzerebbe lei l’attuale ondata di proteste contro il video “L’innocenza dei Musulmani i alcune parti del mondo musulmano?

Gilbert Achcar (GA) : Lo scontro di barbarie che ho analizzato non dovrebbe essere visto attraverso le lenti di questi incidenti, ma piuttosto attraverso problemi molto più seri come Guantanamo, l’invasione dell’Iraq, la torture ad Abu Ghraib in Iraq, il crescente ricorso che fanno gli Stati Uniti alle uccisioni extragiudiziali, ecc. Questi avvenimenti hanno davvero rappresentato delle battute di arresto nel processo di civilizzazione

La barbarie che reagisce che troviamo nel mondo musulmano e per lo più incarnata da al-Qaida e da altre correnti fondamentaliste come quella dei talebani (qualunque cosa ci sia sotto questa egida) e dimostrate in avvenimenti molto più gravi che le recenti dimostrazioni, come, per esempio, le terribili uccisioni settarie in Iraq che non finiscono mai.
Queste barbarie antagoniste tra loro, traggono energia l’una dall’altra. Naturalmente, i principali responsabili rimangono i più potenti, le potenze mondiali, le potenze occidentali e anche la Russia, che hanno creato questa dinamica di barbarie che per prima cosa sono reciprocamente ostili.
Q: In Pakistan, almeno, il discorso tradizionale è di puntare all’ipocrisia occidentale, specialmente a quella degli Stati Uniti, quando si tratta della libertà di espressione. “La negazione dell’Olocausto è un crimine”, è un ritornello comune. Il suo commento?

GA: Prima di tutto, mettiamo le cose in chiaro. Negare l’Olocausto è un’offesa punibile soltanto in alcuni paesi occidentali, non in tutti. Negli stessi Stati Uniti non passibile di punizione. Coloro che negano l’Olocausto pubblicano liberamente le loro follie negli Stati Uniti. Questo fatto non è considerato da tutti coloro che usano il divieto sull’Olocausto come argomento contro gli Stati Uniti.
In realtà, ci sono delle leggi contro i discorsi di incitamento all’odio in tutti i paesi occidentali, tranne che negli Stati Uniti dove il primo emendamento della costituzione proibisce qualsiasi restrizione per la libertà di parola. Sostenendo questo principio, la Corte Suprema degli Stati Uniti si è spinta tanto oltre che nel 1977 ha difeso il diritto del Partito nazista americano di sfilare attraverso il villaggio di Skokie, dove una considerevole parte degli abitanti erano superstiti ebrei di un campo di concentramento. E’ vero, ci sono state violazioni di questo diritto, particolarmente nei riguardi dei Musulmani che vivono negli Stati Uniti subito dopo l’11 settembre e la conseguente
recrudescenza dell’islamofobia. Resta comunque sempre possibile reagire in modo legale, e i movimenti per i diritti civili sono attivi in questo campo.
In Europa, quando si pensa di essere stati vittime di discorsi di incitamento all’odio, si può ricorrere a un’azione legale. Il problema del doppio standard occidentale viene di solito sollevato riguardo agli ebrei di lì, dato che è molto più difficile in Europa esporre un discorso anti-ebraico o anti-semita che uno anti-islamico.. Questo stato di cose, però, è dovuto a due fattori.
Il primo è il senso di colpa dell’Europa riguardo al genocidio degli Ebrei perpetrato dalla Germania nazista durante la Seconda Guerra mondiale con grande complicità dell’Europa.
Il secondo è che ci sono potenti istituzioni ebraiche che reagiscono in modo attento contro qualsiasi gesto che considerino anti-semitico, spesso mettendo sullo stesso piano la critica a Israele con l’anti-semitismo. Sono potenti, ma osservate come reagiscono. Non facendo dimostrazioni violente che in realtà aumenterebbero l’anti-semitismo, ma impegnandosi in azioni legali, pubblicando articoli, e così via. Talvolta ricorrono perfino a ciò che si può chiamare terrorismo intellettuale, cercando cioè di intimorire con accuse di anti-semitismo chi critica lo Stato di Israele o il Sionismo.
Detto questo, coloro che dicono che la libertà di espressione in Occidente è prevenuta nei confronti dell’Islam perché esso è meno tollerante delle espressioni anti-ebraiche, dimenticano che la religione della stragrande maggioranza in occidente non è il giudaismo, ma il cristianesimo. Quando si tratta del cristianesimo, gli occidentali sono liberi di prendere in giro il Papa, Gesù Cristo o perfino Dio, senza timore di rappresaglie. Alcune delle principali opere artistiche e letterarie occidentali fanno la satira del cristianesimo o della religione in generale, in modi che oggi non si possono immaginare quando si tratta dell’Islam nel mondo musulmano.
E’ vero, ci sono alcuni gruppi cristiani fondamentalisti che possono ricorrere alla violenza ogni tanto contro opere anti-religiose, ma essi sono completamente marginali. La loro violenza viene punita dalla legge e non raggiunge mai il livello di quello che è stato fatto in questi giorni in nome delle religione, che si può paragonare soltanto alla violenza dei coloni ebrei fondamentalisti in Palestina. Inoltre, non si dovrebbe dimenticare la libertà di espressione in Europa -in particolare nel Regno Unito – è stata di maggior beneficio per i fondamentalisti islamici di tutti i generi che hanno cercato lì un rifugio fuggendo dall’oppressione nei paesi musulmani di quanto ne sia stata per le persone che commettono provocazioni come quelle di cui stiamo parlando.
Chiunque sia irritato dalla violenza simbolica, come quella del video degli Stati Uniti, o delle vignette in Francia, dovrebbe reagire con violenza simbolica allo stesso modo o con proteste pacifiche, non con violenza fisica. Ricorrere a questa in reazione a un atto simbolico, è un segno di debolezza intellettuale. Vi ricordate il modo in cui i talebani hanno distrutto i giganteschi Buddah di Bamyan. Questi Buddah erano sito patrimonio mondiale dell’umanità. I Buddisti hanno reagito con violenza? In Egitto e in Nigeria i Cristiani e le loro chiese sono state ripetutamente e sanguinosamente attaccate nei mesi passati. Avete che visto dimostrazioni violente di cristiani in tutto il mondo per vendicarsi contro i paesi musulmani? La gente apprezza la differenza tra la frangia folle che compie attacchi contro i Cristiani e la popolazione musulmana in generale. I Msulmani dovrebbero anche rendersi conto che la violenta e folle frangia anti-islamica nei paesi occidentali è marginale, in realtà molto più marginale che la violenta frangia folle di fondamentalisti islamici dei paesi islamici.
Le folli provocazioni come il film L’innocenza dei Musulmani’ o come quella di bruciare le copie del Corano come ha fatto il pazzo Terry Jones, è meglio che siano ignorate. Sono così stupide che non meritano affatto alcuna reazione. Il più grande servizio che si può rendere a questi provocatori è di replicare in modo delirante alle loro provocazioni. Gli agitatori riescono nel loro intento quando sono in grado di eccitare i sentimenti del gruppo preso di mira. Ecco perché delle persone sostengono a ragione che la proibizione di negare l’Olocausto, per esempio, è controproducente. A causa di quel veto coloro che in Fancia negano l’Olocausto, sono diventati molto famosi nel loro paese, mentre quasi nessuno conosce il nome di coloro che negli Stati Uniti negano l’Olocausto. se nessuno avesse reagito alle provocazioni folli di Terry Jones, queste sarebbero rimaste sconosciute, come migliaia di queste dichiarazioni anti-islamiche. Se nessuno gli avesse prestato attenzione, non avrebbe proseguito nella sua atroce farsa. Questi pazzi hanno un programma di odio contro gli Islamici. Le forze politiche musulmane che reagiscono nel modo violento che abbiamo visto, in realtà rafforzano proprio l’odio anti-islamico contro la quale protestano.
Il genere di opere letterarie di Salman Rushdie rientra in una categoria diversa, naturalmente. Non può essere scartato considerandolo spazzatura. Rushdie è un importantissimo scrittore contemporaneo. Tuttavia, il suo libro, I versetti satanici, sono davvero molto innocui in confronto alla satire del cristianesimo o anche del giudaismo, peraltro, che sono liberamente disponibili in Occidente.

Q: Dai tempi della faccenda di Salman Rushdie, ci sono state le vignette danesi, il film di Geert Wilders, e ora il film prodotto negli Stati Uniti. Ogni volta osserviamo reazioni massicce. Come lo spiega?

GA: Il fatto è, molto chiaramente, che certe forze politiche sfruttano avvenimenti di questo genere per creare agitazioni a favore della loro causa, come ha fatto Khomeini nele caso della faccenda di Rushdie. Non ha mai letto il suo libro, allo stesso modo in cui la maggior parte di coloro che hanno dimostrato contro il film anti-islamico non lo hanno visto. E’ sempre la stessa storia:alcune forze politiche sfruttano queste occasioni per eccitare i sentimenti della gente politicamente analfabeta per mandare avanti il proprio programma politico. Le forze fondamentaliste hanno sempre colto al volo tali provocazioni. Questo è il modo in cui creano la loro influenza.

Q: In Pakistan, un’idea comune spacciata dal governo, dagli Islamisti e dai mezzi di informazione tradizionali è di richiedere una legge dell’ONU per tutto il mondo per bandire gli insulti contro la religione? Che cosa pensa di questa richiesta?

GA: sono contrario al cento per cento. La nozione di bestemmia è un’idea medievale. Coloro che fanno una richiesta del genere, ci vogliono riportare al Medio Evo. Se si vuole proibire la critica della religione, la dovrete proibire per tutte le religioni. Per attuare la proibizione della bestemmia, si dovranno vietare un enorme numero di opere di letteratura, di arte e di filosofia che si sono accumulate in molti secoli, scritte in tutte le lingue, compreso l’arabo, naturalmente. Queste opere sono attualmente proibite nel mondo arabo, ma questo fatto testimonia la mancanza di libertà di espressione.
La libertà di criticare la religione è una pietra di paragone del diritto della libertà di espressione . Fino a quando una società non tollera questo tipo di libertà, non ha raggiunto la libertà di espressione. E’ dovere di tutte le persone impegnate nelle libertà democratiche far sentire la propria voce contro le reazioni barbare alle provocazioni folli. Capitolare davanti alla demagogia religiosa implicherà un costo enorme a tutti i livelli. Una volta messo in moto, questo processo di riduzione della libertà di parola non avrà più limiti. Chi deciderà che cosa è blasfemo e che cosa non lo è?

Q: I dimostranti in Pakistan hanno preso come obiettivo i simboli della ricchezza (banche, automobili, i bancomat ) oppure la cultura occidentale (cinema, teatri). Della gente considera queste azioni violente nel mondo musulmano come parte di un più ampio conflitto tra l’Occidente e il mondo musulmano. Quale è la sua opinione?

GA: Non sono d’accordo. La violenza è comprensibile in certe circostanze, quando la gente dimostra contro assalti sociali ed economici ai loro mezzi di sussistenza o quando protestano contro veri stragi, massacri, invasioni o occupazioni perpetrate da potenze occidentali, o contro l’occupazione sionista della Palestina. E tuttavia, il fatto è che molti veri massacri commessi dalle forze occidentali o dai Sionisti non hanno portato a qualsiasi reazione equivalente. La verità è che la che la violenza è soprattutto uno sfruttamento politico da parte dei fondamentalisti di una provocazione per scopi totalmente reazionari.

Q: La Sinistra nella maggior parte dei paesi musulmani è una piccola forza ed è spesso in una strana situazione durante queste crisi. mentre la sinistra, in Pakistan per esempio, condanna le provocazioni razziste, difende la limitazione della libera espressione riguardo alla religione. Che cosa pensa di questo atteggiamento?

GA: Stiamo raccogliendo oggi i frutti del fatto che la sinistra non è riuscita in molti decenni a fare la fondamentale richiesta laica della separazione della religione dallo stato. Il laicismo – compresa la libertà di credo, di religione e di non religione – è una condizione elementare della democrazia. Dovrebbe quindi essere una parte elementare di qualsiasi progetto democratico, figuriamoci poi di un progetto della sinistra. La maggior parte di questa, però, nella mia parte di mondo, la regione araba, si è arresa davanti a questo problema. Per esempio, in Egitto, ampi settori della sinistra, anche della sinistra radicale, hanno praticamente eliminato il termine laicismo dal loro vocabolario. Per ironia, quando il primo ministro turco, ‘islamista’, Erdogan, ha visitato l’Egitto, ha affermato pubblicamente che egli rappresenta il laicismo, con grande dispiacere della Fratellanza Musulmana.

Se la sinistra vuole sfidare l’egemonia delle forze islamiche e sviluppare un movimento anti-egemonico nelle sfere politiche, sociali e culturali, deve lottare risolutamente per laicismo e anche contro l’oppressione delle donne – un’altra lotta davanti quale molta gente della sinistra indietreggia per timore di ‘urtare i sentimenti’ dei credenti. Questa è una strategia contro producente.

Traduzione di Maria Chiara Starace

TIMORI SULLA CADUTA DI ASSAD

“C’è il timore che la caduta di Assad porterebbe peggiorare le cose per gli interessi dell’Occidente e per Israele….” Un’intervista di Aykut Kiliç a Gilbert Achcar (aggiornata) di Gilbert Achcar
6 aprile 2012

Mi permetta di iniziare parlando delle diverse opinioni controverse sul carattere politico del Consiglio Nazionale Siriano (SNC- Syrian National Council). Che cosa ne pensa della sua composizione?

Il Consiglio Nazionale Siriano è una combinazione eterogenea di persone, dalla Fratellanza Musulmana a gente della sinistra, specialmente il Partito Democratico del Popolo, con molte persone legate ai governi occidentali, in particolare a Stati Uniti e Francia. E’ fondamentalmente eterogeneo e lo possiamo vedere, per esempio, dal fatto che non sono stati d’accordo sulla sostituzione di Burhan Galioun o nel modo in cui Burhan Ghalioun stesso è stato sconfessato dopo aver firmato l’accordo del Cairo con un’altra fazione dell’opposizione. Il SNC è tenuto insieme dalla pressione dei vari stati che intervengono nella situazione siriana. Questi stati effettivamente spingono verso una più ampia coalizione che includa altri gruppi, oltre a quelli che fanno già parte del SNC. Mirano a una qualche forma di unificazione dell’opposizione che renderebbe il SNC ancora più eterogeneo di quello che è già. Detto questo, il punto importante è che il SNC non è una forza di destra omogenea come viene descritta in alcuni circoli. All’interno del consiglio, ci sono delle persone che non possono essere classificate di destra, ma che sono piuttosto progressiste.
Recentemente, perfino i giornali di destra che appoggiano il governo del Partito Turco per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP), hanno pubblicato reportage circa le divisioni che si stanno accentuando all’interno del SNC e a una possibile escalation dell’opposizione verso la Fratellanza Musulmana al prossimo incontro degli “Amici della Siria” che si terrà a Istanbul proprio all’inizio di Aprile.

Questo incontro è inteso dalle le nazioni straniere e anche dal governo turco come mezzo per fare pressione per arrivare all’unificazione dei ranghi dell’opposizione. Non ho visto nessun segno di particolare volontà di ostracismo verso la Fratellanza Musulmana. Non penso ci sia nulla del genere. Perché il governo turco dovrebbe essere ostile alla Fratellanza Musulmana? Hanno collaborato per molto tempo. Fondamentalmente, i cosiddetti Amici della Siria sono arrabbiati per l’immagine che si riceve di divisioni nei ranghi dell’opposizione siriana, e che contrasta con la situazione che c’era in Libia. Lì si aveva un Consiglio Nazionale di Transizione senza alcun gruppo che lo contestasse in rappresentanza dell’opposizione, mentre l’opposizione siriana ha provocato una situazione di dissonanza a causa delle ulteriori spaccature tra i vari gruppi. Naturalmente questo giova al regime siriano e indebolisce l’opposizione. Ecco con che cosa stanno cercando di fare i conti la Turchia, le potenze occidentali e i regimi del Golfo Arabo: tentano di unificare l’opposizione e di presentare una sua immagine complessiva che sarebbe rassicurante per i paesi occidentali. La verità è che uno dei principali motivi di scetticismo e riluttanza mostrati in pratica dai paesi occidentali verso la situazione siriana è il timore che la caduta di Assad porterebbe a un risultato che sarebbe peggiore per gli interessi occidentali e per Israele.
Quale è la possibilità di un intervento straniero? Come valuta l’atteggiamento del governo turco rispetto alla situazione siriana?

“Intervento” è un termine molto ampio e ci sono già in corso tanti interventi sotto varie forme. Se lei intende: intervento militare diretto, penso che questa sia al momento una possibilità molto remota. E’ ovvio che nessuno pensa di inviare truppe da combattimento in Siria, e non ci sono richieste in questo senso da parte dell’opposizione siriana, così come era avvenuto nel caso della Libia. Inoltre, le potenze occidentali sono consapevoli che un tipo di campagna militare aerea per la Siria, sarebbe molto costosa, non soltanto in termini materiali, ma anche in termini di vite umane, naturalmente. Una campagna di quel genere provocherebbe una situazione molto pericolosa a livello regionale dato che la Siria è strettamente alleata con l’Iran e con il partito Hezbollah in Libano, ed è appoggiata dalla Russia. Inoltre possiede difese aeree e potenza militare più potenti di quelle che aveva la Libia, e la densità della sua popolazione e molto maggiore. Considerando tutto questo, non penso che ci sia una reale possibilità di qualsiasi intervento occidentale diretto. Il tipo di interferenza militare più fattibile in appoggio dell’opposizione potrebbe essere fatto sotto forma di forniture di armi, tanto più che c’è già un importante intervento militare sotto forma di invio di armi per aiutare il regime, da parte di Russia e Iran. Mandare armi all’opposizione siriana, può tuttavia essere fatto soltanto attraverso la Turchia: la Giordania non si assumerebbe il rischio di un’azione di questo tipo dal momento che la monarchia giordana è troppo debole per un’iniziativa di questo genere; l’Iraq non è un’opzione poiché il governo iracheno è più vicino al regime siriano e all’Iran; e il Libano non è un’opzione come canale di distribuzione ufficiale di armi all’opposizione siriana a causa di Hezbollah. Di conseguenza, l’unico paese che è abbastanza forte per potere essere il canale per questa distribuzione è la Turchia. Il governo turco, però, per il momento rifiuta questa idea. E questo è il motivo l’opposizione siriana, in particolare il Libero Esercito Siriano, stia avendo delle difficoltà nel contrattaccare l’offensiva militare scatenata dal regime. Non hanno armi in numero sufficiente e adeguate per contrattaccare in modo appropriato. La Turchia si trova di fronte a un dilemma nella situazione siriana. All’inizio il governo turco ha cercato di avere un ruolo di mediazione e di favorire un certo tipo di soluzione negoziata, ma il regime siriano non ascoltava. Erdogan è frustrato e ha cambiato il suo atteggiamento che è ora di aperta opposizione al regime siriano. Il governo turco non farebbe nulla senza l’aperto appoggio degli Stati Uniti e di altri paesi occidentali. Questa è un’ulteriore ragione per la quale non stanno aprendo la strada alla distribuzione di armi dal momento che l’Amministrazione Obama è apertamente contro questa iniziativa. Fondamentalmente, Washington teme un crollo del regime come è avvenuto in Libia e che potrebbe trasformare la Siria – come la Libia attuale – in un paese nel caos dove lo stato è sostituito da gruppi armati indipendenti. Hanno paura che la Siria diventi come l’Iraq, nel senso che diventi come quel paese dopo l’invasione statunitense, specialmente che al-Qaida sia presente e attivo nella regione. Anche Israele è molto preoccupato e questa è la ragione principale per cui gli Stati Uniti mostrano poco entusiasmo per ciò che accade in Siria e nessuna simpatia per l’opposizione siriana.
Dopo la visita di Kofi Annan a Damasco, come vede la recente situazione in Siria?Pensa che il regime di Assad possa ancora restare al potere?

Nel lungo termine, non penso che sia possibile che questo regime possa sopravvivere, ma nessuno può dire quanto tempo resterà attaccato al potere. Assad crede di poter continuare questa campagna spietata con l’appoggio della Russia e dell’Iran, mentre contemporaneamente scoraggia un intervento militare in aiuto dell’opposizione. Probabilmente progetta qualche gesto teatrale aggregando membri scelti dell’opposizione dopo aver soffocato l’insurrezione. Dovrebbe però farlo da una posizione di forza, in modo che non appaia come una concessione che gli hanno imposto. Ecco perché stanno lanciando adesso questa offensiva. Finora ha avuto alquanto successo, dal momento che l’altra parte non ha i mezzi per contrattaccare. D’altra parte, è molto difficile immaginare che il popolo siriano, l’opposizione popolare accetterebbe qualsiasi risultato che non li liberi dal regime dopo il pesantissimo tributo che hanno pagato finora. Quello che sta accadendo, quindi, è che le forze del regime invadono questa o quella città, ma poi devono spostarsi verso altre, e appena si ritirano il movimento ricomincia nella città che essi hanno lasciato. A meno che non commettano il triplo o il quadruplo delle uccisioni che hanno fatto finora, a meno che non commettano un massacro massiccio non so come questo movimento di massa possa estinguersi.
In Turchia, includendo anche importanti settori della sinistra socialista – c’è un’enorme confusione circa la composizione politica dell’opposizione all’interno della Siria. Come descrive l’opposizione siriana all’interno del paese?

L’opposizione siriana all’interno del paese inizia, naturalmente, con i Comitati Locali di Coordinamento (Local Coordination Committees – LCC). Essi sono la più autentica rappresentazione dell’insurrezione nel senso che ne sono gli organizzatori principali. Ci sono reti simili in tutta la regione che conducono l’insurrezione araba. Sono reti di gente, per lo più giovani, che coordinano la mobilitazione, usando soprattutto Internet. E’soltanto in uno stadio successivo che si sono formate le coalizioni dell’opposizione politica come il Consiglio Nazionale Siriano, o in esilio o all’interno del paese. Adesso la maggior parte del movimento nel paese ha accettato il SNC come suo rappresentante perché cercavano qualcuno che parlasse a suo nome all’estero. Il LCC non ha valore di dirigenza politica. In caso di crollo del regime a breve o medio termine, nessuno può dire quali forze dominerebbero la Siria dal punto di vista politico. E’ molto difficile valutarlo adesso, proprio perché questo paese non ha avuto alcuna forma di libere elezioni da molto decenni. Perciò è molto difficile sapere chi rappresenta che cosa sul posto. E’ però piuttosto ovvio che le forze politiche organizzate sono soltanto una piccola minoranza delle masse che si uniscono all’insurrezione siriana.
Sappiamo che in Siria c’è una lunga tradizione di politica di sinistra. Quale è l’influenza dei gruppi e dei personaggi della sinistra all’interno del movimento?

Contrariamente alla Libia, c’è in realtà un importante corrente e intellighenzia di sinistra in Siria. Non c’è stata nessuna importante tradizione di sinistra prima di Gheddafi in Libia, ed è egli ha governato per più di 40 anni sopprimendo qualsiasi forma di vita politica tranne quelle che lui stesso dirigeva. Perciò, oggi è piuttosto difficile trovare un qualche cosa che si possa chiamare “sinistra” in Libia, tranne pochissime persone. Per contrasto, in Siria c’è una lunga tradizione di politica di sinistra: i Comunisti, i Marxisti di vari colori, i nazionalisti, ecc. Questo è un paese si ha una vasta popolazione palestinese, in cui la sinistra palestinese è ben rappresentata. La gente che idee di sinistra – comprese quelle marxiste – rappresentano in Siria un numero molto più significativo che in altri paesi arabi circostanti. E’ quindi un motivo di ottimismo. Ma più tempo impiega il regime siriano a cadere, più esso crea le condizioni per una svolta in senso settario degli eventi e più è probabile che l’insurrezione degenererà in un conflitto settario. Questa è la paura principale per il futuro della rivolta siriana.
Il maggior timore dello stato turco è la questione dei Curdi, naturalmente. Quale è la sua opinione sui possibili sviluppi che riguardano la questione curda all’interno della rivolta siriana? Secondo, ci sono segnali molto strani di unificazione nazionale tra le diverse popolazioni curde. Malgrado l’enorme repressione messa in atto dallo stato, la fiducia che ha in se stessa la politica del movimento curdo in Turchia dimostra questo molto chiaramente…

Siamo testimoni di un crollo e di un indebolimento dei due regimi arabi che opprimono una frazione significativa del popolo curdo: la l’Iraq e la Siria. Naturalmente, perciò, la popolazione curda in entrambi i paesi ha beneficiato di questi avvenimenti. L’indebolimento e poi la caduta del regime di Saddam Hussein, ha permesso al Kurdistan iracheno di diventare di fatto indipendente. Attualmente fa parte dello stato iracheno, ma tutti sanno benissimo che il Kurdistan iracheno è indipendente in tutti i riguardi, ed è federato con il resto dell’Iraq in modo molto tenue. Uno dei primi gesti che Bashar al-Assad ha fatto quando è iniziata la rivolta, è stato di garantire la cittadinanza a sezioni di Curdi siriani, che erano stati precedentemente privati dei loro diritti di cittadinanza. Il Kurdistan siriano è stato corteggiato sia dal regime che dall’opposizione. Varie forze curde hanno appoggiato l’opposizione ma danno importanza soltanto alle loro richieste. Sono irremovibili per quanto riguarda ottenere espressioni di appoggio molto chiare per i diritti nazionali dei Curdi. Il Kurdistan siriano non ha ancora realmente aderito all’insurrezione. Ci sono state delle dimostrazioni all’inizio, ma finora non ha di fatto preso parte all’insurrezione. Fondamentalmente, stanno aspettando di vedere in che direzione procede la rivolta. D’altra parte, naturalmente, l’appoggio del governo turco all’opposizione non è visto con grande entusiasmo dai Curdi siriani. Questa potrebbe essere un motivo importante per la loro posizione di aspettiamo-e-vediamo. In effetti una ragione molto importante per l’atteggiamento relativamente cauto del governo turco riguardo alla rivolta siriana, è che il Kurdistan iracheno è praticamente indipendente. Il governo turco ha paura di una situazione di caos in Siria che potrebbe portare a un risultato analogo nel Kurdistan siriano. Potrebbero anche immaginare che si realizzi un collegamento tra queste due parti del Kurdistan, in Iraq e in Siria; avrebbe conseguenze molto preoccupanti per lo stato nazionalista turco e le forze armate.
Quale è l’impatto della rivolta siriana sull’atmosfera politica settaria in Libano? Secondo, questi sviluppi influenzeranno la lotta palestinese dopo la recente partenza di Hamas da Damasco?

Ciò che sta accadendo in Siria sta acuendo moltissimo le tensioni tra le due principali fazioni del Libano. L’animosità settaria dei Sunniti verso gli Sciiti è aumentata molto perché il confronto siriano è visto nella regione come un confronto che oppone i Sunniti agli Sciiti – sebbene gli Alauiti non siano strettamente Sciiti – sono più o meno considerati tali, tanto più che l’Iran appoggia la Siria. L’asse Iran-Hezbollah attraversa l’Iraq e la Siria. Se, perciò, ci sarà mai un’ulteriore degenerazione verso una guerra di sette in Siria, questa potrebbe influenzare molto il Libano e portare al diffondersi della guerra nel Libano stesso. Per il momento, le due parti in Libano si stanno trattenendo e osservano che cosa accade in Siria.
In quanto ai Palestinesi non hanno molto da perdere in Siria in entrambi i casi. Hamas non ha completamente rotto con il regime siriano. Sanno che se il regime siriano dovesse sopravvivere avrebbe comunque bisogno di continuare a usare la carta palestinese. Ecco perché il regime stesso non ha tagliato i suoi rapporti con Hamas. Ora, se il regime cade ed è sostituito da un governo in cui la Fratellanza Musulmana continua ad avere una forte influenza, Hamas sarebbe felicissimo perché, come sapete appartengono alla stessa famiglia ideologica e politica. Perciò si aspetterebbero, piuttosto, che questo porti a un miglioramento nelle condizioni per loro stessi. La verità è che il regime siriano ha appoggiato Hamas e alcune della fazioni di opposizione dell’OLP, nel tipico modo di un regimemukhabarat, cioè con un controllo molto stretto da parte dei servizi di sicurezza del regime. La prospettiva di poter operare in Siria senza questo tipo di controllo alle spalle, è una cosa che Hamas apprezzerebbe molto.

(Questa intervista fatta il 25 marzo sarà pubblicata nel numero di maggio 2012 di Yeni Yol, la rivista della sezione turca della Quarta Internazionale. Le domande aggiornate che seguono sono state fatte da Stephen R. Shalom per ZNet il 5 aprile).

Come valuta gli sforzi per la mediazione fatti da Kofi Annan e dall’ONU?

Qualsiasi sforzo che miri a trovare un esito politico per la crisi siriana che sia pacifico e anche democratico, è gradito. La mediazione dell’ONU è stata accettata da tutte le fazioni dell’opposizione siriana, anche se la maggior parte delle persone è scettica sulla vera disponibilità del regime siriano di realizzare il piano di Kofi Annan. Il regime sa fin troppo bene che se dovesse davvero ritirare le sue forze armate dalle città e fermare la sua repressione sanguinosa, la mobilitazione popolare contro di esso raggiungerà nuovi alti livelli – analoghi alle enormi dimostrazioni popolari che si sono svolte ad Hama l’estate scorsa quando le forze del regime si sono astenute per breve dall’attaccare le manifestazioni.
Il governo degli Stati Uniti ha appena annunciato che rifornirà di attrezzature di comunicazione i ribelli siriani, mentre varie nazioni arabe pagheranno i loro combattenti,. Che cosa pensa che Washington abbia in mente? Approva tutte queste misure? Dove le sembra che portino?

Tutti i gruppi dell’opposizione siriana sono d’accordo sul diritto di autodifesa dell’insurrezione siriana e lodano i soldati e gli ufficiali che si rifiutano di obbedire agli ordini criminali e che si staccano dalle forze armate. Perfino il NCC, il principale rivale del Consiglio Nazionale Siriano, che è critico nei confronti Libero Esercito Siriano, poiché hanno messo in evidenza il carattere pacifico dell’insurrezione e sulla ricerca di un accordo politico, hanno riconosciuto nel loro ultimo comunicato che il Libero esercito Siriano è “un aspetto della rivoluzione siriana” e hanno lodato “il nobile e coraggioso atteggiamento dei soldati e degli ufficiali dell’esercito che disertano per ragioni umanitarie, nazionali e morali.”
Tuttavia gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali hanno ripetutamente escluso non solo il loro intervento militare diretto nella crisi siriana, ma anche qualsiasi fornitura di armi. Sia Obama, la Clinton, che il ministro degli esteri francese Alain Juppé (in contrasto con l’atteggiamento bellicistico del governo francese riguardo alla Libia) hanno dichiarato ripetutamente che si oppongono alla fornitura di armi all’opposizione siriana, malgrado il fatto che l’opposizione abbia fatto richieste pressanti per ottenere tali forniture: all’inizio soltanto il Libero Esercito Siriano, e adesso anche il SNC e soprattutto i comitati di base popolare e le dimostrazioni popolari sul posto. Questo fatto non è una sorpresa: ricordatevi che anche in Libia le potenze occidentali conducevano un intervento diretto attraverso scioperi a distanza, mentre si opponevano alla fornitura di armi. La logica era che temevano che le armi potessero cadere in mani islamiche nemiche degli interessi occidentali, compresa al-Qaida. La verità è che volevano gestire la guerra civile in Libia allo scopo di imporvi la loro tutela e un esito negoziato che andasse bene per i loro interessi, senza dare agli insorti i mezzi per accelerare la loro lotta contro il regime di Gheddafi e ottenere la completa vittoria, come ho spiegato in un lungo articolo lo scorso agosto poco prima della liberazione di Tripoli ad opera degli insorti. Fin dai primi giorni dell’intervento occidentale in Libia, ho argomentato contro la continuazione dei bombardamenti della NATO e dei suoi alleati, mentre chiedevo che venissero date le armi agli insorti, come essi stessi domandavano.
Nel caso della Siria, le preoccupazioni occidentali sono di fatto molto più serie: la Siria è un paese adiacente all’Iraq, a maggioranza sunnita, mentre la minoranza sunnita in Iraq è il gruppo della lotta armata antistatunitense. Al-Qaida ha costruito un’importante rete in Iraq e sta ancora combattendo il governo di Maliki che era sponsorizzato congiuntamente da Washington e dall’Iran. Questo è il motivo per cui Maliki si è opposto categoricamente a qualsiasi consegna di armi all’opposizione siriana e di fatto appoggia il regime siriano.
Il Regno Saudita sta ora subendo la pressione dal suo ambiente sunnita Wahhabi affinché appoggi i Sunniti siriani contro il governo eretico che li sta massacrando: così i Sauditi dipingono la situazione, naturalmente con occhio settario. Tutte le critiche che puntano al fatto che lo stato saudita assolutamente non democratico si dimostra ipocrita quando appoggia un’insurrezione democratica, sono fuori tema: i Sauditi non sostengono di essere democratici, sono davvero e semplicemente Sunniti settari.
In quanto al Qatar, esso vuole compiacere i suoi alleati nella Fratellanza Musulmana di cui sono i sostenitori nella regione e che stanno facendo pressione perché siano inviati aiuti all’insurrezione siriana tanto più che il loro ramo siriano è un importante protagonista di essa, come avviene per la Fratellanza Musulmana e i suoi satelliti in Egitto e in molti altri teatri dell’insurrezione araba.
Queste dichiarazioni di disponibilità a inviare armi sono irrilevanti fino a quando non esiste un canale per farlo. Come ho già spiegato, l’Iraq è più vicino al regime siriano che all’insurrezione; in Libano Hezbolllah è un deterrente poderoso; la Giordania non è disposta a rischiare di vedere il regime siriano che reagisce armando i nemici del suo regno; e ugualmente la Turchia è preoccupata che il regime siriano reagisca armando la ribellione curda anti-turca. Nessuno stato, quindi, è disposto a destinare armi agli insorti siriani che devono fare affidamento sulle armi che, da una parte requisiscono alle forze armate del regime e su quelle che riescono a comprare da trafficanti di armi che sono attivi in questa parte del mondo. Questo, però, significa che si procurano soltanto armi poco efficaci e che mancano tragicamente di mezzi sufficienti per opporsi alla massiccia potenza di fuoco delle forze del regime.
Chiunque non è un vero sostenitore di Bashar al-Assad e si oppone ad ipotetiche consegne di armi agli insorti siriani – in nome di un impegno ideale alla non-violenza, per esempio – dovrebbe concentrare la propria opposizione sulle fornire molto reali e massicce che di armi russe e iraniane al regime siriano se vogliono rimanere coerenti.
Traduzione di Maria Chiara Starace

TUNISIA:OPPORTUNISTI E RIVOLUZIONARI

Ispirandosi allo spirito dell’orientalismo occidentale, quale è stato definito da Edward Said (1), certi Arabi hanno sostenuto che una mentalità dispotica si era radicata presso la maggior parte dei loro compatrioti quale conseguenza della loro formazione culturale e della loro educazione.

Uno dei sostenitori di questa visione, è stato, in un passato ancora recente, Moncef Marzouki, l’attuale presidente transitorio della Tunisia, all’epoca in cui viveva ancora  in Francia come oppositore dell’ ex-presidente, il tiranno Zine el Abidine Ben Ali.

In un articolo pubblicato in arabo il 19 febbraio 2010 sul sito internet di Al Jazeera, Marzouki cita l’universitaria francese Béatrice Hibou, che appartiene alla scuola orientalista ed è l’autrice di un opera intitolata La force de l’obéissance: économie politique de la répression en Tunisie (2), per spiegare che la pretesa “obbedienza” dei tunisini e delle tunisine ai loro tiranni è dovuta ad una mentalità istillata in loro di generazione in generazione (tesi simili sono state efficacemente confutate dall’universitario tunisino Mahmoud Ben Romdhane in un’opera apparsa recentemente in francese (3).

Marzouki affermava che chiunque leggesse l’opera di B.Hibou “capirebbe che ciò che intriga lo spirito occidentale a proposito degli Arabi, è la nostra straordinaria capacità di obbedire ai dirigenti più corrotti, mentre la cultura occidentale è invece fondata sul rifiuto di obbedire all’ingiustizia e sulla legittimazione del diritto a resisterle”.

Aggiungeva così alla percezione orientalista degli Arabi un’immagine idealizzata della “cultura occidentale”, come se quest’ultima fosse un dato eterno, e dimenticando il fatto che i due regimi più dispotici della storia moderna si sono sviluppati dopo la prima guerra mondiale in seno a due delle più antiche civiltà occidentali: l’Italia e la Germania. Senza parlare, peraltro, del fatto che prima dell’epoca moderna, l’Occidente è passato attraverso un lungo periodo di monarchie assolute.

Marzouki andava anche oltre, rincarando la dose rispetto all’orientalista francese: “Prendete un qualsiasi Tunisino o Egiziano o Yemenita dalla strada e portatelo al potere. Ci sono 90% di probabilità che esso agirà in una maniera che non sarà molto diversa da quella di Ben Ali, Mubarak o Saleh”.

Una delle realizzazioni più importanti delle rivoluzioni arabe in corso, per quel che concerne la percezione degli Arabi, è che esse hanno distrutto l’immagine caricaturale foggiata dall’orientalismo occidentale a proposito della sottomissione volontaria degli Arabi e del loro costume culturale, o di quello in generale dei mussulmani, alla servilità. Come se gli Arabi odiassero la libertà e amassero la tirannia.

L’ondata rivoluzionaria che dilagata partendo dalla Tunisia , e che si trova ancora al suo stadio iniziale, ha dimostrato al mondo intero che gli Arabi odiano la tirannia e aspirano alla libertà quanto ogni altro popolo. Essa ha anche dimostrato che a partire dal giorno in cui gli Arabi hanno deciso “di  aspirare a vivere” – per prendere a prestito il verso famoso del poeta tunisino Aboul-Kacem al-Chebbi (4) – e sono riusciti a spezzare la barriera della paura – essi hanno realizzato sollevamenti sociali che sono diventati esempi da seguire dappertutto nel mondo.

Dopo che Marzouki stesso è tornato in Tunisia in seguito alla caduta di Ben Ali, è stato talmente travolto dall’euforia della rivoluzione che ha, per un momento, fatta sua un’analisi di classe simile a quella  della sinistra radicale, scrivendo queste righe assai lucide pubblicate il 10 marzo 2011: “Non sono i rivoluzionari che colgono i frutti della rivoluzione. Dopo il tempo dei rivoluzionari viene quello degli opportunisti; dopo l’epopea viene il tempo delle speranze deluse. I poveri di Sidi Bouzid tornano alla loro povertà e gli abitanti dei cimiteri del Cairo ai loro cimiteri. Nessuna soluzione radicale viene trovata ai loro problemi, solo una gran quantità di promesse che non verranno realizzate. Nella nostra situazione, è la borghesia che ottiene di più: godeva di un livello di vita decente sotto il dispotismo, ma la sua esistenza era avvelenata dalla corruzione e dalla soppressione delle libertà. Con la fine del dispotismo, la borghesia – grazie al sacrificio degli umili e dei poveri – ha aggiunto ai suoi diritti economici e sociali i diritti politici di cui era privata, mentre le classi popolari hanno acquisito delle libertà politiche che non nutriranno gli affamati e le affamate”.

La saggezza popolare dice che il potere corrompe. Da quando è diventato presidente della Tunisia, Moncef Marzouki non riesce più a capire perché i poveri di Sidi Bouzid si sono rifiutati di tornare alla loro povertà, hanno rifiutato le promesse vuote e hanno insistito perché ai loro problemi vengano date soluzioni radicali. Ha improvvisamente trovato questo rifiuto e questa insistenza talmente detestabili, da dover ricorrere agli argomenti abituali dei tiranni, quasi per confermare quel che aveva scritto due anni prima.

In occasione di un’intervista accordata alla televisione Al Jazeera il 20 gennaio 2012, e rispondendo a una domanda a proposito della continuazione delle proteste popolari in Tunisia dopo la caduta del tiranno, da una parte Marzouki ha dichiarato che esse erano la conseguenza dell’eredità del regime deposto e della paralisi economica. Poi ha aggiunto:  “Ma c’è anche lo sfruttamento, la politicizzazione e l’agitazione da parte di certi ambienti, sia per irresponsabilità o con l’intenzione di sabotare questa rivoluzione – entrambi i fattori sono all’opera. Ci sono delle persone che io considero degli irresponsabili, come l’estrema sinistra che ora dichiara che essa ama la rivoluzione, mentre sanno che questo governo è istallato da solo un mese; è questo che considero come irresponsabile”.

Secondo il vecchio ritornello ben noto ai Tunisini e agli Arabi, le masse non possono sollevarsi spontaneamente contro le condizioni miserabili di esistenza. Ci sono sempre degli “agitatori”, dei “sovversivi”, dei “colpevoli irresponsabili” e degli “estremisti” – quale che sia il loro colore politico, del resto – che li spingono alla protesta e alla rivolta.

Ciò che sfugge a questa logica, è che la collera contro lo sfruttamento e la miseria porta naturalmente alla radicalizzazione politica. Questa logica rovescia la realtà sostenendo che sono i radicali che creano l’indignazione pubblica contro la miseria e lo sfruttamento.

Quel che il nuovo presidente tunisino non ha ancora capito, è che il suo appello, lo scorso dicembre, per una tregua sociale di sei mesi era votato all’insuccesso perché non era accompagnato da nessun programma che indicasse una reale intenzione da parte del nuovo governo tunisino di soddisfare i bisogni evidenti e le rivendicazioni elementari del popolo, per le quali questo era insorto e aveva rovesciato Ben Ali.

Hamadi Jebali, uno dei dirigenti del movimento Ennahda, oggi primo ministro del governo transitorio tunisino, non ha esitato ad affermare su Al Jazeera (il 22 gennaio 2012), che il declino economico della Tunisia nel corso dell’annata trascorsa “è dovuto alle occupazioni, blocchi di strade e scioperi selvaggi dei lavoratori”. Ha aggiunto che queste proteste di massa hanno impedito la messa in atto di nuovi progetti di investimento che avrebbero permesso di creare “migliaia” di impieghi.

Per riprendere le parole dello stesso Marzouki, questi signori che oggi sono al potere vogliono dunque che le masse cessino le loro lotte ora che il dittatore è stato rovesciato e che “i poveri di Sidi Bouzid tornino alla loro povertà […] Nessuna soluzione radicale viene data ai loro problemi, solo una quantità di promesse che verranno o non verranno realizzate. E` la borghesia che ottiene di più: essa godeva di un livello di vita decente sotto il despotismo, ma la sua esistenza era avvelenata dalla corruzione e la soppressione delle libertà. Con la fine del dispotismo, la borghesia,- grazie al sacrificio degli umili e dei poveri – ha aggiunto ai propri diritti economici e sociali i diritti politici di cui era privata, mentre le classi popolari hanno acquisito delle libertà politiche che non nutriranno gli affamati e le affamate“.

Non c’è bisogno di essere particolarmente perspicaci per comprendere che i vincitori delle prime elezioni organizzate dopo le rivolte, così come i governi che si sono insediati da allora, sono di fatto nelle mani degli opportunisti e non dei rivoluzionari, come Marzouki aveva giustamente detto quando era ancora ispirato dall’entusiasmo e dalla saggezza della rivoluzione.

La condanna degli scioperi dei lavoratori e delle lavoratrici come responsabili del declino economico del paese, così come il ricorso al vecchio ritornello a proposito degli “estremisti” e dei “sovversivi” appartenenti all’ “estrema sinistra”, costituiscono il linguaggio comune dei nuovi dirigenti, in Tunisia come in Egitto, al punto tale da rievocare irresistibilmente i regimi deposti.

Ma le masse che un giorno hanno aspirato a vivere e gustato la libertà non cesseranno di lottare e di protestare prima che “il destino” non risponda alle loro aspirazioni, anche se questo avrà bisogno di anni.

1. L’orientalisme, Ed. du Seuil, 2005
2. Ed. La Découverte, 2006
3. Tunisie : Etat, économie et société. Ressources politiques, légitimation et régulations sociales, Ed. PubliSud, 2011
4.1909-1934, considerato come il poeta nazionale tunisino, autore di un celebre poema indirizzato “Ai tiranni del mondo” (Ila Toghat Al-Aalam)
5. Parecchie centinaia di migliaia del Cairo, tra i più poveri, vivono nelle “città dei morti” della metropoli.

Traduzione a cura della redazione di Solidarietà-Ticino

LA REGIONE ARABA A CHE PUNTO SONO LE RIVOLUZIONI?
31/01/2012

Inprecor. Si avvicina il primo anniversario dello scoppio della «primavera araba», in Tunisia. Il rovesciamento di Ben Ali ha aperto la strada alle mobilitazioni di massa in Egitto e all’allontanamento dal potere di Hosni Mubarak, alla caduta di Gheddafi in Libia, alle mobilitazioni in Yemen e alle dimissioni del presidente Ali Abdallah Saleh, alle mobilitazioni negli Stati del Golfo e in Siria… in nome della democrazia. Come possono essere definiti questi movimenti?

Gilbert Achcar. Effettivamente sono dei movimenti che hanno come comun denominatore la rivendicazione della democrazia: si sviluppano in paesi con regimi dispotici ed esigono un cambiamento di regime, un cambiamento nelle forme del potere e la democratizzazione della vita politica. Questa è una dimensione comune a tali movimenti, che allo stesso tempo rappresenta la loro forza perché le rivendicazioni democratiche permettono di unire una grande massa di persone dagli orizzonti differenti, mentre queste rivendicazioni si sommano a un potenziale di rivolta sociale molto forte nella regione. Non bisogna dimenticare che in Tunisia il movimento è iniziato con un’esplosione sociale. Il giovane Mohammed Bouazizi, che si è suicidato dandosi fuoco, protestava contro le sue condizioni di vita e non avanzava rivendicazioni politiche. Il suo caso ha fatto emergere il problema della disoccupazione giovanile endemica nel paese, la crisi economica, l’assenza di prospettive sociali. In questo caso questi sono stati gli ingredienti di fondo. Ma quando si alleano con l’opposizione a un regime dispotico, tutto assume proporzioni considerevoli, come è appunto accaduto in Tunisia. Invece, nei paesi in cui la questione del dispotismo non si pone con la stessa acutezza, dove il regime è più liberale e più tollerante verso la diversificazione politica – il Marocco per esempio – il movimento si è costruito sulla base di esigenze sociali, ma non ha ancora assunto l’ampiezza esplosiva raggiunta molto rapidamente in Tunisia, in Egitto, in Libia, in Yemen, in Barhein e in Siria.

Inprecor. Come giudichi l’evoluzione della politica statunitense e quella dei paesi europei nella regione? Le elezioni in Tunisia, in Marocco e in Egitto, così come l’intervento militare in Libia, costituiscono una ripresa dell’iniziativa dell’imperialismo o delle borghesie nazionali compradore?

Gilbert Achcar. Nella tua domanda vi sono due attori: le borghesie e l’imperialismo, che non sono esattamente la stessa cosa. In più, parliamo di una parte del mondo dove coloro che oggi lavorano di concerto con le potenze occidentali, con gli Stati Uniti in particolare, non sono assolutamente dei governi che è possibile definire borghesi – mi riferisco alle monarchie petrolifere del Golfo, che hanno una dimensione pre-capitalistica e sono delle caste che vivono sfruttando le rendite del petrolio. In questi paesi non è la borghesia locale – compradora o meno che sia – che è al potere. Occorre fare le distinzioni necessarie. Per ciò che riguarda gli Stati Uniti – la principale forza imperialistica nella regione – si può sostenere che hanno relativamente riequilibrato la bilancia vista la situazione molto difficile in cui li avevano messi le sollevazioni tunisina ed egiziana, ma parlare di una «ripresa dell’iniziativa» mi sembra esagerato. Essi hanno potuto ridare lustro alla propria immagine intervenendo in Libia, pagando un prezzo relativamente basso e presentandosi come coloro che erano «al fianco della rivolta». Hanno affiancato questo con un generale discorso ipocrita sulla democrazia e – contrariamente a quanto alcuni sostengono – esso si estende anche alle monarchie del Golfo, benché in questo caso non si associ ad alcuna azione. Gli Stati Uniti tentano di presentarsi come i depositari dei valori della libertà che non hanno cessato di brandire come arma ideologica da diversi decenni, in particolare dalla «guerra fredda». In Siria, lo fanno con una certa disinvoltura, perché si tratta di un regime alleato dell’Iran, cui non tengono particolarmente, come è stato nel caso del regime libico. Ma sostenere che hanno recuperato la loro posizione egemonica nella regione sarebbe estremamente esagerato. In Libia, l’intervento occidentale è stato un intervento sostanzialmente a distanza, senza truppe sul terreno. L’influenza che possono avere gli Stati Uniti sul processo in corso in Libia è molto limitata. In effetti, in questo paese nessuno controlla la situazione e questo è stato dimostrato da dichiarazioni che non fanno alcun piacere agli Stati Uniti, compresa la crescente protesta contro il Consiglio Nazionale Transitorio e contro i suoi tentativi – d’altronde, molto timidi – di impegnarsi nella ricostruzione dello Stato. In Egitto, gli alleati militari di Washington mantengono sempre le redini della situazione nelle loro mani, ma è un potere assai contestato dalla piazza, dal  movimento popolare che continua – in particolare sul piano sociale dove si traduce in lotte dure e continue. L’affermazione significativa delle correnti islamiche sul piano elettorale è la prova di una nuova diffusione regionale: anche se queste correnti non rappresentano una minaccia per l’imperialismo statunitense, tuttavia non sono neppure uno strumento o un alleato docile quanto i militari.
Vi sono delle tensioni nell’alleanza e nella cooperazione tra i militari e i Fratelli musulmani. Questo non è paragonabile a ciò che rappresentava il regime di Mubarak per gli Stati Uniti. Ciò spiega, d’altronde, il fatto che gli Stati Uniti hanno dovuto ridefinire profondamente la loro politica nella regione a causa del fatto che i loro alleati tradizionali hanno ben poca legittimità popolare – cosa circa la quale non si facevano troppe illusioni, come hanno dimostrato le rivelazioni di Wikileaks. Ora che la rivendicazione della sovranità popolare si è affermata nelle strade e nelle piazze, gli Stati Uniti devono garantirsi la solidarietà di alleati provvisti di una vera base sociale. Per questo motivo si rivolgono ai Fratelli musulmani, che dopo essere stati demonizzati in questi ultimi anni, ora vengono presentati come «musulmani moderati», dei «buoni musulmani», in contrapposizione ai salafiti. I Fratelli musulmani sono presenti in tutta la regione. Gli Stati Uniti hanno bisogno di loro, come ai vecchi tempi dell’alleanza contro Nasser, contro il nazionalismo arabo, contro l’Unione sovietica e la sua influenza tra gli anni ‘50 agli anni ‘80. Le monarchie del Golfo – in particolare due tra queste che oggi svolgono un ruolo molto importante nel mondo arabo: il regno saudita e l’emirato del Qatar – cercano anche di riprendere l’iniziativa. Non per forza queste due monarchie perseguono la medesima politica, ma hanno una tradizione di rivalità che a volte ha portato a delle tensioni tra loro, ma fanno causa comune a fianco degli Stati Uniti nello sforzo di orientare gli eventi in una direzione che non minacci i loro interessi e che permetta loro di stabilizzare a breve termine la regione. Il Qatar, in particolare, ha visto aumentare considerevolmente la sua influenza grazie alle sollevazioni, contrariamente al regno saudita che condivide con gli Stati Uniti il declino e il riflusso della sua influenza. L’emirato del Qatar ha puntato da molti anni sul rapporto con i Fratelli musulmani, diventando il loro principale finanziatore e creando il canale satellitare Al Jazeera – uno strumento politico di rilevante potenza, che allo stesso tempo è a disposizione dei Fratelli musulmani, molto presenti tra il suo personale. Il Qatar ha giocato queste carte da molto tempo e gli avvenimenti attuali le hanno rese importanti strategicamente. In questo modo l’emirato si è trovato ad essere molto valorizzato ed è diventato un alleato molto importante per gli Stati Uniti, con i quali da lungo tempo intrattiene rapporti molto stretti, accettando sul proprio territorio la principale base militare americana della regione. Ma il Qatar per un certo periodo ha anche stabilito rapporti con l’Iran, con gli Hezbollah libanesi, ecc., per «ripartire i rischi» – è la mentalità di chi consolida le sue entrate diversificando gli investimenti. Oggi il Qatar può fare pienamente valere la sua influenza regionale agli occhi degli Stati Uniti. Tutto questo si aggiunge al ruolo svolto dalla Turchia nella regione. In questo caso è veramente possibile parlare di borghesia al potere, si può cioè parlare di un Paese in cui il governo è sicuramente espressione prima di tutto del capitalismo locale. Il governo turco è alleato degli Stati Uniti – la Turchia fa parte della NATO – ma interviene anche nella prospettiva degli interessi specifici del capitalismo turco e da questo deriva l’offensiva commerciale e gli investimenti nella regione che col passare degli anni hanno assunto un’importanza crescente. Questi sono, a grandi linee, i grandi giocatori nell’ambito degli Stati della regione. Ma il giocatore più importante, oggi, è il movimento di massa. Anche nei paesi in cui vi sono state delle mezze vittorie, come in Tunisia e in Egitto, il movimento di massa continua.

Inprecor. Come analizzi i successi elettorali dei partiti islamici in Tunisia, Marocco ed Egitto? Questi successi possono essere interpretati come una replica di ciò che avvenne durante la rivoluzione iraniana tra il 1979 e il 1981, o si tratta di un altro fenomeno.

Gilbert Achcar. Ci sono delle differenze secondo i paesi. In Marocco non vi è la stessa dinamica che vediamo in Egitto o in Tunisia. In Marocco il successo del partito islamico è molto relativo, prima di tutto perché le elezioni sono state massicciamente boicottate. Secondo le cifre ufficiali la partecipazione è stata al di sotto della maggioranza degli elettori iscritti, il cui numero, inoltre, si è curiosamente abbassato dopo la precedente tornata elettorale sullo sfondo di una energica campagna di boicottaggio contro le forze della effettiva opposizione che si erano riunite nel Movimento del 20 febbraio. Devo aggiungere, per evitare equivoci, che anche nelle forze di opposizione c’è una componente islamica, radicalmente opposta al regime. Il successo del partito islamico della «opposizione lealista» è quindi molto relativo in Marocco. Questo è stato probabilmente ben accolto dalla monarchia, se non auspicato, allo scopo di dare l’impressione che il Marocco abbia così conosciuto, con espressioni pacifiche e istituzionali, lo stesso processo in corso altrove. Inoltre, il partito in questione ha dei legami anche con i Fratelli musulmani. In Tunisia e in Egitto le vittorie elettorali dei partiti islamici sono più significative, ma non hanno niente di sorprendente. Nel caso dell’Egitto – occorre anche qui sottolineare le differenze tra i diversi paesi – le elezioni si sono svolte dopo decenni durante i quali i Fratelli musulmani erano l’unica opposizione di massa esistente, mentre i salafiti godevano di una certa libertà di manovra sotto Mubarak, che li considerava come una base di appoggio del suo regime per il fatto che essi dichiaravano la propria apoliticità. Nel corso degli anni queste due componenti del movimento islamico hanno potuto svilupparsi nonostante i soprusi subiti dai Fratelli musulmani. Nonostante queste due componenti non siano state alla testa del movimento di massa (si sono accodate), quando il movimento è riuscito a imporre una certa democratizzazione delle istituzioni esse erano organizzate meglio di qualunque altra forza per poterne trarre vantaggio. Non bisogna dimenticare che Mubarak ha dato le dimissioni soltanto lo scorso febbraio e che vi erano solo pochi mesi per preparare le elezioni. In così poco tempo non era possibile costruire una forza alternativa di opposizione credibile e capace di vincere sul piano elettorale. Il movimento di massa ha disarticolato il partito di regime – che era la principale macchina elettorale del paese – ma si trattava di una rivolta largamente decentralizzata nelle sue forme organizzative. Più che un «partito dirigente» era una rete di movimenti diversi. I Fratelli musulmani erano quindi l’unica forza organizzata presente nel movimento che disponesse di mezzi materiali. Il caso della Tunisia è differente perché Ennahda – il partito islamico – era stato interdetto e perseguitato sotto Ben Ali. Ma il regime repressivo di Ben Ali ha impedito anche la possibilità che emergessero forze di sinistra o anche democratiche. Queste forze non avevano l’ampiezza che aveva Ennahda agli inizi degli anni ‘90, prima che subisse la repressione che gli ha consentito di apparire nel corso del tempo come la forza di opposizione più forte e quella più radicalmente contraria Ben Ali, in particolare grazie all’aiuto di Al Jazeera. Neppure il partito Ennahda è stato alla testa della rivolta nel suo paese, ma, dato il breve lasso di tempo a disposizione per preparare le elezioni, era in una posizione migliore rispetto alle altre forze politiche. I partiti islamici in Egitto e in Tunisia disponevano di denaro, fattore essenziale per una campagna elettorale. Mentre in  passato le forze di sinistra nel mondo arabo potevano beneficiare del sostegno concreto dell’Unione sovietica o di questo o quel regime nazionalista, tutto questo è ormai finito da molto tempo. Invece per i partiti islamici si può constatare che c’è perfino concorrenza tra i  loro finanziatori: Qatar, Iran, l’Arabia saudita. Il ruolo del Qatar è molto importante sotto questo aspetto. Rached Gannouchi, il leader di Ennahda, si è recato in Qatar prima di rientrare in Tunisia. La nuova, fiammante sede di Ennahda a Tunisi, un edificio a più piani, non è certamente alla portata di un’organizzazione che esce da decenni di repressione. Dal febbraio scorso,  quando sono stati legalizzati, i Fratelli musulmani non hanno finito di inaugurare nuovi locali in tutti i punti del paese, con larga profusione di mezzi.  Un esempio è stato l’uso di fondi considerevoli durante la campagna elettorale. Il fattore denaro svolge un ruolo fondamentale e si aggiunge al loro capitale simbolico come principale forza di opposizione e, nel caso dell’Egitto, al loro radicamento come forza politico-religiosa che ha saputo sviluppare una rete importante realizzando opere sociali e facendo la carità. Non è per niente sorprendente che in tali condizioni queste forze emergano come i principali vincitori delle elezioni.

Inprecor. È possibile che, a più lungo termine, i partiti islamici possano essere sostituiti da forze che si stanno affermando?

Gilbert Achcar. Il problema grave, per il momento, è l’assenza di un’alternativa credibile. In questo senso, non è solo il tempo ad avere importanza, ma anche la capacità di dar vita a un progetto politico e organizzativo credibile. L’unica forza che, a mio avviso, potrebbe controbilanciare i partiti islamici nella regione non sono i liberali di qualsiasi tipo, che hanno per natura una base sociale limitata, ma lo è il movimento operaio. In paesi come la Tunisia e l’Egitto, il movimento operaio è ancora una forza significativa – una forza che contrariamente ai liberali ha delle radici popolari. Il movimento operaio è l’unica forza capace di costruire un’alternativa agli integralisti religiosi nei paesi coinvolti. Il problema cruciale è l’assenza di rappresentanza politica del movimento operaio. Un movimento operaio forte esiste sia in Tunisia sia in Egitto: l’UGTT in Tunisia, che è stato un fattore decisivo nel rovesciamento di Ben Ali, e in Egitto la nuova Federazione egiziana dei sindacati indipendenti. Quest’ultima non è una forza marginale:  dichiara di avere già un milione e mezzo di aderenti. La FESI (EFITU, secondo l’acronimo inglese) è stata fondata dopo la caduta di Mubarak sulla base dell’organizzazione degli scioperi che l’hanno preceduta e seguita. Questa organizzazione ha svolto un ruolo decisivo nel rovesciamento di Mubarak. Per certi versi la FESI assomiglia ai sindacati di opposizione che si sono organizzati contro le dittature in Corea, in Polonia e in Brasile. Il problema è che non esiste una rappresentanza politica del movimento operaio in Tunisia e in Egitto e, sfortunatamente, devo dire anche che la sinistra radicale in questi paesi non ha dato priorità a questo orientamento. La sinistra radicale pensa che auto-proclamandosi e auto-costruendosi politicamente possa svolgere un ruolo più importante  nel corso degli eventi, mentre questi si sviluppano a un tale ritmo da esigere delle politiche orientate più direttamente verso la promozione dello stesso movimento sociale. Si può dare priorità alla costruzione delle organizzazioni politiche nei periodi calmi, quando, per così dire, si è costretti ad attraversare il deserto, ma quando si vivono periodi di eccezionale fermento l’auto-costruzione non è sufficiente, anzi è del tutto insufficiente. A mio parere, in paesi come la Tunisia e l’Egitto l’idea classica dei partiti operai di massa basati sul movimento sindacale dovrebbe essere centrale, ma purtroppo tale idea è poco presente fra le problematiche politiche della sinistra radicale.

Inprecor. Perché le monarchie (Marocco, Giordania, penisola arabica) sembrano «reggere»? Per il Marocco hai menzionato gli elementi di «tolleranza» dell’attuale regime, ma questo non è il caso delle monarchie della penisola arabica…

Gilbert Achcar. Anche in questo caso è necessario fare delle distinzioni. Direi anzitutto che la Giordania è più simile al Marocco che a certe monarchie del Golfo. Anch’essa presenta una facciata di «dispotismo liberale» ovvero di «assolutismo liberale». Sono monarchie assolute, in cui non vi è sovranità popolare, ma che hanno concesso delle Costituzioni e una certa dose di liberalismo, con un pluralismo politico che non è un’illusione. Vi è anche una base sociale della monarchia, una base retrograda o di origine rurale protetta dalla monarchia. Tutto questo si combina, ben inteso, con una repressione selettiva. Ma l’attuale situazione sociale è diversa in Marocco e in Giordania. In Marocco c’è un forte movimento sociale. Il movimento del 20 febbraio è riuscito ad organizzare delle importanti mobilitazioni e finora ha dato prova di una considerevole perseveranza. Questo movimento ha commesso l’errore, a mio avviso, di fare i primi passi sulla questione costituzionale, ovvero sulla questione democratica che in Marocco non è molto grave, mentre molto più acuta è la questione sociale. Ma col passare dei mesi vi è stata un’evoluzione ed oggi i problemi sociali sono posti in primo piano. Tuttavia, nelle attuali condizioni, in Marocco potrà esserci una sollevazione popolare come quella tunisina o egiziana sulle questioni sociali ma non su quella democratica, perché il regime è così intelligente da non mostrare i denti su quest’ultima. Vi è ben poca repressione in Marocco se paragonata agli altri paesi della rivolta quali la Tunisia di Ben Ali o l’Egitto di Mubarak, per non parlare della Libia e della Siria. In questo caso vi sono degli elementi in comune tra il Marocco e la Giordania, dove il regime lascia fare pur controllando e, per così dire,  apre la valvola lasciando uscire il vapore. Allo stesso tempo il regime giordano punta sul fattore etnico. Anche in Giordania vi sono delle mobilitazioni importanti e che continuano. Quindi, in questi due paesi – Marocco e Giordania – c’è un movimento reale, anche se non è della stessa impressionante ampiezza rispetto a ciò che si è potuto vedere in Tunisia, in Egitto, in Barhein, in Yemen, in Libia o in Siria… Ma in Giordania lo squilibrio etnico, molto artificiale, tra o «giordani d’origine» e i palestinesi (ossia coloro che sono arrivati dall’altra riva del Giordano) è sfruttato dal regime. Sapendo che i palestinesi originari della Cisgiordania sono maggioritari nel Paese, la monarchia giordana soffia sul fuoco dell’ossessione dei «giordani originari» che temono di ritrovarsi in minoranza. È la classica soluzione del divide et impera, «dividere per regnare». Se volgiamo lo sguardo verso le monarchie del Golfo, la situazione è differente. Anche in questo caso vi sono, dov’era possibile, dei movimenti popolari. In Oman vi è stato un movimento sociale ed ora assistiamo allo sviluppo di un movimento politico in Kuwait. E vi sono stati movimenti di protesta e scontri – duramente repressi – anche nel regno saudita. E vi è sicuramente il Barhein, l’unica monarchia del Golfo che ha dovuto confrontarsi con una sollevazione di grande ampiezza. L’eccezione è rappresentata dai micro-Stati eminentemente artificiali – il Qatar e gli Emirati arabi uniti – dove dall’80% al 90% gli abitanti sono «stranieri»,  non hanno cioè alcun diritto e possono essere deportati in qualunque momento. Sono degli Stati che non temono troppo i movimenti sociali e che beneficiano della protezione diretta delle potenze occidentali – gli Stati Uniti, la Gran Bretagna o la Francia (che ha dei legami diretti in particolare con gli Emirati arabi uniti, soprattutto sul piano militare). D’altronde dappertutto vi sono stati dei movimenti – anche in Kuwait, che ha una popolazione autoctona più organica, benché anche in questo caso molto limitata. Vi è stato soprattutto il movimento nel Barhein, che la monarchia locale e i sauditi hanno tentato di presentare come un movimento sciita totalmente confessionale – gli sciiti sono la grande maggioranza della popolazione dell’isola – contro la monarchia sunnita. La dimensione esiste, certo, ed è forte nella regione: gli sciiti vengono perseguitati tanto in Barhein quanto nel regno saudita (dove sono una minoranza). I regimi esistenti usano il confessionalismo più abietto per impedire la saldatura del movimento di massa e sostengono l’ostilità della loro base sociale contro gli sciiti. Ben inteso, questi regimi utilizzano anche i propri mezzi finanziari per comprare coloro che possono essere comprati. In Barhein abbiamo assistito ad un considerevole movimento democratico e abbiamo visto i rapporti di forza. Senza l’intervento esterno questo movimento avrebbe potuto – e ancora potrebbe – rovesciare la monarchia. L’intervento esterno si è materializzato sotto forma di truppe dei Paesi del Golfo, soprattutto saudite, inviate sull’isola per supplire alle forze locali, offrendo loro la possibilità di dedicarsi alla repressione del movimento. Ma il movimento continua in Barhein ed è destinato a non spegnersi. Infine vi è lo Yemen, che non fa parte delle monarchie del Golfo, ma appartiene alla stessa regione. Esso è – con il Sudan e la Mauritania – uno dei paesi arabi più poveri. I due terzi della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. In questo paese è il fattore tribale assieme al fattore regionale ad essere utilizzato dal regime, in modo tale che gli eventi hanno assunto le sembianze di quello che potremmo definire una «guerra civile fredda» che vede contrapporsi due frazioni della popolazione con imponenti mobilitazioni da una parte e dall’altra. Questo paese è l’unico, tra quelli coinvolti, in cui il potere è riuscito ad organizzare delle mobilitazioni importanti e autentiche, contrariamente a quelle, in buona parte fittizie,  che Gheddafi organizzava a Tripoli e che Assad organizza in Siria. Lo Yemen è un paese la cui situazione colpisce direttamente il regno saudita e questo spiega perché i sauditi vi si sono impegnati esplicitamente. Essi sostengono Abdallah  Saleh e nello stesso tempo attendono le sue «dimissioni» – che sono una farsa che non ha ingannato nessuno e soprattutto non ha ingannato l’opposizione radicale che continua la lotta.

Inprecor. Il regime algerino non è stato finora attaccato dalle mobilitazioni popolari, come lo spieghi?

Gilbert Achcar. Altrettanto si può dire per l’Iraq, per il Sudan e anche per il Libano. Questi sono paesi che hanno conosciuto lunghi periodi di guerra civile. In condizioni simili è comprensibile che la gente non sia molto incline a destabilizzare la situazione attuale. C’è paura dell’ignoto, paura che risorgano le forze integraliste più estremistiche, paura del rinnovamento, comprese le manipolazioni da parte del potere, e della guerra sporca che l’Algeria ha vissuto e della quale la popolazione ha fatto le spese. Questo quadro di fondo è molto importante. Non bisogna dimenticare che l’Algeria è un paese che ha già vissuto una sollevazione popolare nel 1988, che certamente non aveva la stessa ampiezza, né le stesse forme organizzative di quelle che si sono viste quest’anno, ma che nondimeno si è conclusa con una liberalizzazione politica. L’ascesa elettorale del Fronte islamico di salvezza (FIS) che ne è seguita si è chiusa con il colpo di Stato, che conosciamo, e con la guerra civile. È naturale e normale che la gente non speri che si ripeta un simile scenario. Questo è un fattore di freno in Algeria, in assenza di forze capaci di organizzare una saldatura sociale orizzontale su basi di classe, che potrebbe essere la base di una nuova sollevazione. In Algeria vi sono stati dei tentativi di mobilitazione, ma che non hanno avuto una grande eco. Qualsiasi prospettiva non sembra avere oggi alcuno sbocco. La situazione potrebbe cambiare se il movimento a livello regionale, iniziato nel dicembre 2010 in Tunisia, continuasse ad acquistare ampiezza. Bisogna anche tener conto del fatto che l’Algeria vede le vicine Tunisia e Libia sperimentare delle forme di democratizzazione che in entrambi i casi vanno a vantaggio di forze islamiche simili a ciò che fu il FIS, represso in Algeria. A un certo punto ciò può avere delle conseguenze dirette sulla situazione algerina e questo preoccupa i militari al potere.

Inprecor. Pensi che in Siria i rivoluzionari potranno vincere? E chi sono questi rivoluzionari?

Gilbert Achcar. La sollevazione di massa in Siria è prima di tutto una sollevazione della base popolare, della quale i giovani sono la punta di diamante. È la dimostrazione dell’averne le tasche piene di fronte a una dittatura famigliare al comando da 41 anni. Hafez el-Assad si è impadronito del potere nel 1970, è morto nel 2000, dopo trent’anni di potere e da allora, da undici anni, è suo figlio Bashar che lo sostituisce, promosso a questa carica quando non aveva ancora 35 anni. La stanchezza è quindi facilmente comprensibile, tanto più che l’elemento sociale visibile ovunque come infrastruttura delle rivolte è molto presente in Siria. Questo è un paese sottoposto da decenni a riforme economiche liberistiche, che hanno subito un’accelerazione in questi ultimi anni e che si sono concretizzate in un galoppante aumento del costo della vita, in una situazione sociale molto difficile e una povertà considerevole (il 30% degli abitanti vivono al di sotto del livello di povertà). A questo si aggiunge il carattere minoritario e confessionale del potere poiché la cricca regnante appartiene in gran parte alla minoranza alauita. Tutto ciò spiega perché, mentre l’ispirazione è venuta dalla Tunisia, dall’Egitto e infine dalla Libia – compreso l’intervento internazionale nel paese libico, che ha incoraggiato i siriani ad entrare in azione sperando che quell’intervento dissuadesse il regime a reprimere violentemente le proteste in corso –, abbiamo assistito all’esplosione di questo movimento che nessuna forza politica può pretendere di controllare e ancor meno di avere avviato. Sono queste reti di giovani in particolare – come si è potuto vedere dappertutto dal Marocco fino in Siria, che utilizzano le nuove tecnologie di comunicazione (ad esempio Facebook, di cui tanto si parla) – che hanno lanciato e organizzato queste rivolte attraverso la costituzione di «comitati di coordinamento locale» che ora si sono federati e che continuano a promuovere il movimento non avendo alcuna affiliazione politica. Ma vi sono anche delle forze politiche che si organizzano al fine di «rappresentare» il movimento. Sono emerse due forze, due raggruppamenti concorrenti: l’uno riunisce essenzialmente forze di sinistra, tra cui alcune non sono favorevoli ad una opposizione radicale al regime e hanno atteggiamenti ambigui verso di esso, dopo averlo invitato al dialogo, credendo di potersi inserire come mediatori tra la rivolta popolare e il regime e di riuscire a convincere quest’ultimo a fare delle riforme. Ben presto hanno verificato che ciò non funzionava e in gran parte hanno aderito all’obiettivo di rovesciare il regime. L’altro raggruppamento unisce i partiti più radicali nella loro opposizione al regime, un ventaglio di forze che va dai Fratelli musulmani (che anche in questo caso svolgono un ruolo centrale) al Partito democratico del popolo (nato da una scissione del Partito comunista siriano), che è mutato ideologicamente «all’italiana» ma resta un’opposizione di sinistra al regime e dei partiti kurdi. Queste forze hanno dato vita al Consiglio nazionale siriano, che è stato considerato da una buona parte del movimento come il proprio rappresentante, senza che ciò fosse il risultato di un controllo da parte di reti militanti. Questa è quindi una situazione particolare che si è concretizzata nella scelta di affidare la presidenza del CNS a Burhan Ghalioun, un indipendente piuttosto di sinistra. Ora si vede quest’ultimo sempre più partecipare ad un gioco diplomatico guidato dai Fratelli musulmani in accordo con la Turchia e con gli Stati Uniti. Questa è una dinamica pericolosa. Infine, vi sono i disertori dell’esercito. Dopo diversi mesi di repressione, ciò che doveva succedere è successo. Anche in assenza di un’organizzazione capace di indurre di soldati a passare dalla parte della rivolta popolare, l’esasperazione dei soldati si è tradotta nelle defezioni, all’inizio completamente disorganizzate. Dopo il mese di agosto, i soldati hanno organizzato un Esercito siriano libero, sullo sfondo dell’inizio di una guerra civile e con degli scontri tra i soldati dissidenti e la guardia pretoriana del regime. In Siria, quindi, vi è un ventaglio di forze. A causa del fatto che il paese non ha conosciuto per decenni una vita politica – benché il regime fosse meno totalitario di quanto lo fosse in Libia – è impossibile sapere quale sia il peso relativo degli uni e degli altri. Bisognerà attendere la caduta del regime, posto che ciò avvenga, e di elezioni libere per verificare la forza relativa delle correnti politiche organizzate.
Inprecor. Tornando alla Libia, la caduta di Gheddafi significa la fine della guerra civile o si rischia di vedere riemergere degli scontri armati e, se questo è il caso, chi ne sono i protagonisti?

Gilbert Achcar. Bisogna sottolineare innanzitutto che in Libia più di quarant’ani di regime totalitario avevano cancellato ogni forma di vita politica. La Libia appariva, quindi, come un terreno politicamente vergine e nessuno sa che tipo di panorama politico vi si costruirà, né ciò che potrebbero offrire delle elezioni libere, se ve ne fossero. Se per guerra civile si intende quella culminata con l’arresto e la liquidazione di Gheddafi e poi con l’arresto di suo figlio, questa è una fase essenzialmente finita per il momento. Ciò che ora succede è il verificarsi di una situazione caotica, un po’ come in Libano nei primi anni della guerra civile nel 1975, o, per citare un caso estremo, come in Somalia. Vi è un governo, ma non c’è lo Stato. Se si definisce lo Stato prima di tutto attraverso la sua colonna vertebrale, e cioè l’esercito, si può dire che in Libia non c’è più alcun esercito (anche se si fanno dei tentativi per ricostituirlo): c’è una pletora di milizie, strutturate su diverse basi, regionali, tribali, politico-ideologiche, ecc. Il fattore regionale, in senso stretto – Misrata o Zintan, per esempio – è determinante. Ogni regione ha la sua milizia. Ciò prova d’altronde il carattere popolare della guerra che ha rovesciato il regime. È stata senza ombra di dubbio un’insurrezione popolare e anche una guerra popolare quella cui abbiamo assistito in Libia, del tipo più classico: civili che svolgevano ogni tipo di professione trasformati in combattenti che si sono lanciati nella battaglia contro il regime. Coloro che hanno creduto che l’intervento della NATO avrebbe significato la fine del carattere popolare della ribellione e avrebbe trasformato i ribelli in fantocci della NATO hanno commesso un grave errore. D’altronde gran parte di coloro che sostenevano questa tesi cercavano di giustificare il loro sostegno al regime di Gheddafi contro la rivoluzione libica. Abbiamo assistito ad una confusione indescrivibile nella sinistra internazionale e ad atteggiamenti di ogni genere. Credere che la NATO avrebbe avuto il controllo della situazione in Libia dopo la caduta di Gheddafi, significava farsi grosse illusioni. Gli Stati Uniti non sono riusciti a controllare l’Iraq con il massiccio dispiegamento di truppe in quel paese, come era possibile, quindi, credere che potessero controllare la Libia senza disporre di truppe sul terreno? Il potenziale di protesta popolare emerso con la rivolta contro Gheddafi è sempre presente in Libia. Ne sono testimonianza, per esempio, le manifestazioni che si sono svolte il 12 dicembre a Bengasi contro il Consiglio nazionale transitorio e contro il tentativo fatto di cooptare personaggi legati al vecchio regime. La NATO continua a consigliare il Consiglio nazionale transitorio di integrare i membri del regime di Gheddafi, spiegando che questi suggerimenti vengono dalla lezione che hanno imparato dal fiasco iracheno. Tutto questo è stato rifiutato dalla popolazione e ci sono movimenti che vi si oppongono. Lo testimonia anche l’organizzazione delle donne – per la prima volta in Libia un movimento autonomo di donne si è costituito e mobilitato tanto sulla questione degli stupri quanto sulla rappresentanza politica. Vi sono anche proteste di civili che vogliono sbarazzarsi delle milizie. La Libia è un paese dove tutto questo esplode in tutte le direzioni e dove le energie potenziali che sono state risvegliate dalla rivolta si esprimono energicamente. Certo, le prospettive sono irte di difficoltà a causa dell’assenza di una sinistra, e ciò a causa sia di quello che è stato il regime sia di quello che ha fatto contro di ogni forma di opposizione politica. Ma vi sono comunque dei piccoli progressi – per esempio la costituzione di una Federazione di sindacati indipendenti che ha stabilito dei contatti con il suo omologo egiziano. Bisognerà vedere ciò che tutto questo metterà in campo. Per il momento in ogni caso, visto l’evolversi della rivolta con il rovesciamento armato del regime, e a dispetto dell’intervento imperialistico nel conflitto, la Libia, tra tutti i Paesi della regione, è quello in cui finora il cambiamento è stato più radicale. Il regime di Gheddafi è stato distrutto del tutto, anche se sopravvivono dei resti che provocano delle mobilitazioni popolari. Ma le sue strutture politiche fondamentali sono state distrutte – cosa che è molto diversa rispetto alla Tunisia e all’Egitto, per non parlare dello Yemen. In Egitto, ancor più che in Tunisia, le strutture politiche  sono tuttora in piedi e al Cairo è persino al potere una giunta militare.

Inprecor. La Tunisia, tra i paesi arabi, è quello dove le organizzazioni del movimento operaio – il sindacalismo – hanno più antiche tradizioni e sono più strutturate. Ma il movimento operaio è stato marginalizzato nel processo elettorale per la Costituente. Pensi che siamo di fronte a una stabilizzazione o solo di fronte a un intermezzo elettorale?

Gilbert Achcar. La Tunisia è un paese in cui  esiste una autentica  borghesia che ha tollerato il regime di Ben Ali o ne tratto vantaggio. Questa borghesia ha fatto ricorso al successore del regime di Burghiba – quindi del regime che ha preceduto la presa del potere da parte di Ben Ali – rappresentato da Beji Caid Essebsi, che è stato primo ministro fino alle elezioni. Oggi la borghesia tunisina tenta di cooptare la nuova maggioranza – il partito Ennahda, il Congresso per la Repubblica del nuovo presidente Moncef Marzouki, eccetera. Queste forze sono assimilabili alla borghesia perché non hanno un programma sociale o economico anticapitalistico. Si tratta proprio al contrario sia di liberali democratici più o meno progressisti, come Marzouki, sia di un movimento islamico di origine integralista, Ennahda, al quale appartiene il nuovo primo ministro, Hamadi Jabali, che sostiene di aver rovesciato il suo integralismo e di essere diventato l’equivalente tunisino del partito AKP al potere in Turchia. Come il grande capitale turco si è perfettamente accordato con il partito AKP, diretto da Recep Tayyip Erdogan, che oggi è divenuto anche il suo migliore rappresentante, la borghesia tunisina mira a cooptare Ennahda. Nello stesso tempo il movimento continua ad affermarsi alla base. Non appena terminate le elezioni abbiamo assistito a una rivolta nel bacino minerario di Gafsa – le cui lotte, in particolare nel 2008, avevano preannunciato la rivoluzione scoppiata nel dicembre 2010. Questa volta la protesta, come nel 2008, si è spostata sulla questione sociale, con la rivendicazione del diritto al lavoro e la richiesta di impieghi. Tutto questo continuerà perché in Tunisia il movimento è iniziato dalle questioni sociali e perché la coalizione oggi al potere non ha risposte per queste richieste. In Tunisia, quindi, vi è il terreno favorevole per la costruzione di una forza politica fondata sul movimento operaio, purché le forze di sinistra prendano l’iniziativa in questa direzione.

Inprecor. Come si evolvono le mobilitazioni in Yemen dopo le dimissioni del presidente Ali Abdallah Saleh?

Gilbert Achcar. Anche in Yemen il movimento prosegue. Una parte importante dell’opposizione comprende perfettamente che le dimissioni di Saleh non sono altro che un tentativo per avviare un cambiamento di facciata, senza modificare la sostanza. Anche la rivendicazione separatistica prende sempre più vigore in Sud-Yemen di fronte a questo compromesso poco convincente. Non si deve dimenticare che lo Yemen è stato riunificato solo nel 1994, dopo una lunga divisione in due Stati. Lo Stato del Sud ha conosciuto l’unico regime che nella regione si rifaceva al marxismo, con un’esperienza sociale poco nota ma notevole. Dopo la degenerazione burocratica favorita dalla dipendenza dall’Unione sovietica, il regime ha finito per crollare dopo il fallimento della potenza che lo sosteneva. Ma ora si vede nuovamente emergere una rivendicazione separatistica al Sud, che ritiene di essere socialmente più avanzato del Nord dove le strutture pre-capitalistiche, tribali e di altro genere sono più rilevanti. In Yemen vi è anche una causa di guerra confessionale con una minoranza del paese che ha subito attacchi da parte del regime, così come vi è Al-Qaida – lo Yemen è oggi senza dubbio il paese arabo nel quale la rete di Al-Qaida è più forte sul piano militare. Lo Yemen è perciò una considerevole polveriera.

Inprecor. Che cosa pensi della difficoltà in Europa di attuare delle campagne di solidarietà con le rivoluzioni nella regione araba?

Gilbert Achcar. Contrariamente a ciò che lascia intendere la tua domanda, credo che vi sia stata una forte simpatia, anche negli Stati Uniti, verso la rivolta in Tunisia e ancor più verso quella egiziana. Il fatto che questo non si sia tradotto in mobilitazioni, penso sia accaduto perché la gente non ha trovato un motivo particolare per mobilitarsi. Non si tratta di fare la storia con i “se”, ma io penso che se vi fosse stato un tentativo di intervento repressivo da parte dei governi occidentali contro la rivoluzione in Tunisia, avremmo visto nascere un importante movimento di solidarietà. Nel caso della Libia, agli occhi delle opinioni pubbliche i governi occidentali intervenivano dal lato giusto, almeno in apparenza. Nel caso libico, si pone generalmente una domanda inversa rispetto al caso della Tunisia e dell’Egitto: perché non vi è stata mobilitazione contro quest’intervento militare occidentale? Nel caso della Siria, il pubblico ascolta posizioni contraddittorie e si rende conto che l’atteggiamento dei propri governi è «prudente», cosa che non lo sollecita a mobilitarsi… Io vedo le cose in modo diverso. L’eco delle rivolte arabe presso la popolazione mondiale è stata molto forte. Lo si è visto già nel febbraio 2011 in Wisconsin, negli Stati Uniti, dove la popolazione si ispirava all’Egitto. E lo si è visto anche nella grande manifestazione sindacale di Londra, in marzo, e ancora nei movimenti degli «indignati» in Spagna e in Grecia, e più recentemente nel movimento Occupy che si è diffuso negli Stati Uniti e altrove… Ovunque si ritrovano dei riferimenti a ciò che avviene nel mondo arabo e in particolare alla rivolta egiziana – perché vi è stata una concentrazione mediatica mondiale molto più importante sugli eventi in Egitto che su tutto il resto. La gente dice «faremo come loro», «loro hanno osato farlo, facciamolo»! Ben inteso, non bisogna esagerare nell’altro senso. Dicendo questo, sono perfettamente conscio dei limiti di tutto questo, anche dove i movimenti hanno assunto un’ampiezza considerevole, come in Spagna. In nessun paese europeo vi è una situazione simile a quella del mondo arabo, ossia una combinazione fra una crisi sociale acuta e un governo dispotico senza legittimazione. In Europa, con i regimi di democrazia borghese, le cose non hanno la stessa acutezza e c’è sempre la possibilità del ricorso alle urne che contribuisce a smorzare l’esplosività. A mio parere non si tratta di organizzare la solidarietà, perché per il momento non vi è un intervento occidentale contro le rivolte nella regione – se questo dovesse accadere, bisognerebbe, ben inteso, mobilitarsi contro, ma per il momento ciò che è più importante è basarsi sull’esempio regionale, che dimostra che un movimento di massa può provocare dei cambiamenti radicali nella situazione di un paese. Oggi è questo che può avere un effetto valanga ed è ciò che mi sembra l’elemento più evidente.

Inprecor. Non credi che nella sinistra storica, tradizionale, che ora è comunque assai decadente, vi sia una perdita di riferimenti che frena le mobilitazioni? Tu hai citato il movimento degli “indignati”, ma questo è anche un movimento che sostiene «nessun partito, nessun sindacato ci rappresenta» e che non si sente quindi legato a questa sinistra tradizionale, o almeno non nei modi che abbiamo visto in passato…

Gilbert Achcar. Io credo, più in profondità, che da un certo numero di anni siamo di fronte ad una mutazione storica delle forme politiche della sinistra, del movimento operaio e della lotta di classe. Mi sembra che questa mutazione sia interpretata in modi molto diversi all’interno di ciò che resta della sinistra. Vi sono troppe persone che continuano a pensare nel quadro del pensiero ereditato dal XX secolo. L’esperienza della sinistra del XX secolo, che è tragicamente fallita, oggi è completamente superata. È necessario rifarsi a delle concezioni della lotta di classe che siano molto più orizzontali, meno verticali e centralizzate rispetto al modello che si è imposto nella sinistra dopo la vittoria dei bolscevichi nel 1917. Oggi la rivoluzione tecnologica permette forme di organizzazione molto più democratiche, più orizzontali, in reticolo… E questo è ciò che fanno i giovani, ciò che si vede nella pratica dei movimenti in azione nel mondo arabo. Senza farsi delle illusioni: credere che Facebook sarà nel XXI secolo l’equivalente del partito leninista, significherebbe farsi molte illusioni. Ma tra i due esempi – Facebook e partito leninista – vi è spazio per una combinazione creativa di organizzazione politica molto più democratica, che funzioni usando le nuove tecnologie e che sia capace di collegarsi con le reti sociali e di cittadinanza, oltre che di fare appello alle nuove generazioni. Le nuove generazioni sono praticamente nate all’interno di queste tecnologie: lo si vede da come le utilizzano e vi sono inserite. Tutto questo disegna un futuro che passa attraverso a un riarmo politico, ideologico, organizzativo della sinistra su scala mondiale. Questa è la sfida che si è posta, come dimostra anche ciò che avviene nel mondo arabo. Questa sfida era già stata realizzata dalla rivolta zapatista, che era un primo, importante tentativo di dar vita a nuove forme espressive della sinistra radicale. Aveva fatto seguito il movimento altermondialista e la riflessione dei  componenti di questo movimento. E oggi, con le rivolte nel mondo arabo, gli indignati, gli attivisti di Occupy, ecc., noi assistiamo ad un’esplosione delle mobilitazioni, in particolare da parte dei giovani — ma non solo — che usano questi nuovi  metodi d’azione. Per costruire una sinistra rivoluzionaria del XXI secolo è necessario che la sinistra sappia ricaricarsi e che si arrivi a una combinazione fra il bagaglio programmatico e teorico, in particolare marxista, della sinistra radicale, da una parte e, dall’altra, le “forme moderne” e cioè il rinnovamento radicale delle forme di organizzazione e di espressione.

Traduzione dall’originale francese di Cinzia Nachira

LA SCINTILLA BOUAZIZI
12 gennaio 2012

Questo discorso è stato tenuto a Sidi Bouzid, in Tunisia, il 18 dicembre 2011 su invito del Comitato per la Commemorazione del Primo Anniversario della Rivoluzione del 17 dicembre 2010. Le opinioni espresso dall’autore non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al-Akhbar.
E’ per me un grande onore unirmi a voi nel celebrare il primo anniversario dell’inizio della rivoluzione tunisina proprio in questa città di Sidi Bouzid, la città di Mohamed Bouazizi, da dove è partita la scintilla della rivoluzione che ha fatto divampare l’incendio di tutto il mondo arabo, quale stupendo esempio del famoso detto cinese: “Una singola scintilla può incendiare una pianura.”
Sono stato lieto di notare nella lettera d’invito del Comitato per la Commemorazione del Primo Anniversario della Rivoluzione del 17 dicembre che il gruppo ha scelto di dare alla sollevazione tunisina il nome di “Rivoluzione del 17 dicembre”, dal nome della prima scintilla, invece di darle il nome di “Rivoluzione del 14 gennaio”, dalla data in cui Ben Ali è fuggito.
Nel dibattito attualmente in corso in Tunisia su quale delle due denominazioni sia la più appropriata – escludendo la fuorviante e orientalista “Rivoluzione Gelsomino”, già usata per il colpo di stato di Ben Ali del novembre 1987 – io sono fortemente a favore di dare alla rivoluzione il nome del giorno in cui è iniziata, proprio come gli egiziani hanno dato alla loro rivoluzione il nome di “Rivoluzione del 25 gennaio”.
La mia preferenza è dovuta alla stessa ragione che mi ha indotto a caratterizzare ciò cui stiamo assistendo nella regione araba come un processo rivoluzionario a lungo termine, non una “rivoluzione” completata che alcuni vorrebbero ridurre semplicemente alla cacciata del capo del vecchio regime.
In realtà la fuga di Ben Ali il 14 gennaio, in modo molto simile alle dimissioni di Mubarak l’11 febbraio, non è stata che una delle fasi di un processo rivoluzionario in corso, che può ben continuare per lungo tempo, in modo molto simile alla Rivoluzione Francese. Essa iniziò il 14 luglio 1789 e – secondo la maggior parte degli storici – fu completata solo dieci anni più tardi, con il colpo di stato di Napoleone Bonaparte del “18 Brumaio” (9 novembre 1799).
Basi socioeconomiche della Rivoluzione
Di certo la mia affermazione che siamo di fronte a un processo rivoluzionario di lungo termine non deriva da una qualche propensione a proiettare il modello francese sulle rivoluzioni arabe in corso. Spero molto che il nostro processo rivoluzionario non conduca a colpi di stato del genere di quello di Bonaparte, anche se eventi simili sono davvero possibili in una parte del mondo che ha visto così tanti colpi di stato militari nella storia contemporanea. Piuttosto, la mia insistenza sulla lunga durata del processo si basa su un fatto che dovrebbe risultare ovvio a chiunque contempli le attuali rivolte e cioè che esse sono fondamentalmente mosse da problemi socioeconomici profondamente radicati, anche in paesi in cui il movimento popolare ha combattuto, o sta ancora combattendo, per la democrazia e la libertà politica contro un regime dispotico.
Questa realtà emerge con chiarezza se si considerano le rivoluzioni attuali nel contesto dell’ascesa dalle lotte sociali che hanno aperto loro la via negli anni precedenti. Dovrebbe essere anche abbondantemente chiaro a chiunque osservi il vero significato della prima scintilla della rivoluzione, qui a Sidi Bouzid. Perché non è stato principalmente lo scontento di Bouazizi per la natura del governo politico della Tunisia ad avviarlo sul sentiero del martirio, bensì le miserabili condizioni di vita imposte a troppi giovani tunisini come lui, costretti a ricorrere a fonti marginali e precarie di reddito per poter tirare avanti. Queste condizioni sono ora ben simbolizzate nel monumento di pietra che rappresenta il carretto di un venditore di strada che è stato eretto nella piazza centrale di Sidi Bouzid in sua memoria.
Questa realtà è stata bene espressa dagli slogan che hanno prevalso nei primi giorni delle rivolte di massa in questa provincia, e poi nelle province impoverite vicine che costituiscono quella che un giornale tunisino ha appropriatamente chiamato ieri la “base della rivoluzione”. Lo slogan della rivolta a Sidi Bouzid – “Il lavoro è un diritto, banda di ladri!” – è stato un’eco diretta della rivolta del 2008 nella base mineraria di Gafsa che si incentrò sul problema dell’occupazione.
Inoltre, se consideriamo il motto in tre parti “Lavoro, Libertà e Dignità Nazionale” che riassume il programma della rivoluzione tunisina sul modello del famoso motto della rivoluzione francese “Libertà, Eguaglianza, Fraternità”, rileviamo che quella che è stata conseguita sinora è solo la libertà, per quanto importante essa possa essere. Quanto alla prima rivendicazione riguardante l’occupazione, la sua realizzazione non appare neppure all’orizzonte e, anche se aver ragione del dispotico dominio di Ben Ali sul popolo ha conseguito in parte la “dignità nazionale”, non può esserci dignità completa senza una vita resa dignitosa dalla liberazione dall’umiliazione della disoccupazione e della povertà.
La disoccupazione e le rivoluzioni arabe
Emergono due caratteristiche principali che distinguono la regione araba dal resto del mondo quando si cerca di identificare le cause dell’enorme sollevazione rivoluzionaria che sta spazzando tutti i nostri paesi. La prima è piuttosto chiara. La nostra regione è sede della maggior concentrazione mondiale di regimi dispotici in un unico spazio geopolitico. Per contro, la seconda caratteristica è spesso trascurata. Per molti decenni abbiamo avuto i tassi di disoccupazione più alti del mondo (compresa la disoccupazione dei laureati, che, nel caso della Tunisia, è salita dal 5 a più del 22% da quando Ben Ali prese il potere nel 1987).
Non solo la nostra regione spicca per la percentuale di disoccupazione femminile più alta del mondo – una delle caratteristiche principali del nostro sottosviluppo – ma ha anche le percentuali di disoccupazione giovanile degli uomini e delle donne di età inferiore ai 25 anni. La percentuale di disoccupazione giovanile in quello che le organizzazioni internazionali chiamano il Medio Oriente e Nord Africa (MENA) è circa del 24%, mentre non è superiore al 12% nell’Africa Sub-sahariana e al 15% nell’Asia Orientale, anche se sono aree parecchio più impoverite e popolate che non la nostra regione. Ciò avviene a dispetto del fatto che queste cifre si basano su statistiche ufficiali fornite dagli stati, e tutti sanno che esse sono molto inferiori alla realtà.
Inoltre la disoccupazione, come è calcolata qui, è limitata a coloro che affermano di essere in cerca di lavoro e non riferiscono nemmeno un’ora di attività economica nei giorni precedenti la rilevazione. Ciò significa che un gran numero di coloro che hanno rinunciato a cercare un’occupazione, o sono impegnati in attività marginali che possono giustamente andare sotto la categoria di “disoccupazione mascherata”, non viene rilevata.
E’ questa realtà sociale di fondo che costituisce l’origine profonda dell’esplosione rivoluzionaria che ha attraversato i nostri paesi. La disoccupazione record deriva da scarso sviluppo e, a sua volta, lo accresce, imprigionando i nostri paesi in un circolo vizioso che produce emarginazione sociale e miseria, sia materiale sia morale. Viste in quest’ottica le vittorie in Tunisia, Egitto e Libia sono soltanto il primo stadio di un processo rivoluzionario in tre paesi che a vari livelli sono stati privati della libertà e della democrazia.
Denaro e politica
Il primo stadio è consistito nel conquistare le libertà politiche e nell’ottenere la democrazia formale fondata su tali libertà. La vera democrazia, tuttavia, non può essere realizzata se l’uguaglianza non si aggiunge alla libertà; non solo l’uguaglianza di diritti, che resta strettamente formale, bensì anche l’uguaglianza di risorse materiali.
In realtà il principale difetto delle democrazie occidentali – riflesso nelle loro profonde crisi che si traducono nella bassa proporzione degli aventi diritto al voto che effettivamente partecipano alle elezioni – è che esse rappresentano “la miglior democrazia che il denaro può comprare”, per usare le appropriate parole di un critico statunitense. La procedura elettorale in una democrazia così carente e illusoria dipende fortemente dal denaro, compresa la televisione che è il principale strumento di propaganda nelle nostre società dello spettacolo.
Ci sono tentativi di limitare la divaricante disuguaglianza creata dal denaro nella politica in alcuni paesi occidentali in cui lo stato ha imposto un tetto ai bilanci delle campagne elettorali e partecipa nel finanziarle, garantendo anche a tutti i concorrenti la possibilità di presentare le proprie piattaforme al pubblico in televisione. Questi tentativi hanno un impatto limitato rispetto all’enorme influenza del denaro sulla politica, ma rappresentano almeno un riconoscimento che il problema esiste.
Quella che abbiamo ottenuto sin qui in Tunisia e in Egitto è una democrazia formale ma carente che pone pochi limiti al ruolo denaro nella politica per tenere il passo con la forma sfrenata di capitalismo che prevale nella nostra regione. Entrambi i paesi hanno tenuto elezioni per un’assemblea costituzionale che sono state spudoratamente dominate da risorse finanziarie. I fondi ricevuti dai partiti religiosi dei paesi petroliferi del Golfo hanno giocato un ruolo preminente nelle elezioni, in aggiunta alla copertura mediatica privilegiata che questi partiti ottengono dalla più importante rete televisiva araba: Al Jazeera, i cui collegamenti con essi e il cui sostegno ad essi sono noti a tutti.
Il denaro e la televisione non avvantaggiano comunque soltanto i partiti religiosi. Ha svolto un ruolo decisivo anche nei risultati elettorali di liste quali la Petizione Popolare, in Tunisia, guidata da Mohamed Hechmi Hamdi e la coalizione del Partito Libero degli Egiziani guidata da Naguib Sawiris, due imprenditori ciascuno dei quali è proprietario di una grande stazione televisiva.
I partiti religiosi hanno goduto di importanti risorse, in aggiunta al prestigio derivante dal fatto di aver costituito la principale forza d’opposizione negli ultimi decenni (ed essere riusciti a costruire un’organizzazione estesa in Egitto nel corso degli anni), per non citare la loro demagogia religiosa e il loro giocare con le emozioni dei credenti.
Non meraviglia, allora, che l’obiettivo principale di questi partiti dopo la caduta dei dittatori, sia in Tunisia sia in Egitto, sia stato di accelerare le elezioni. Hanno sostenuto di voler accelerare il consolidamento della “rivoluzione” e impedire che essa sia dirottata, ma in realtà stanno affrettandosi a raccogliere i frutti dell’opera della rivoluzione prima che altri abbiano una possibilità di negarglieli.
Sviluppo senza corruzione
In conseguenza, il problema fondamentale che ha innescato l’esplosione sociale e fatto esplodere il processo rivoluzionario nella nostra regione, meglio esemplificato dalla nostra disoccupazione record, è stato quasi un problema ignorato nelle elezioni, che sono state invece dominate dai richiami identitari (religiosi, settari, regionali e persino tribali).
Le forse che sono arrivate a dominare la scena politica hanno “programmi” (se si possono chiamare tali) che non differiscono significativamente da quelli dei precedenti regimi per quanto attiene alla sfera sociale ed economica, eccetto che per alcuni vaghi slogan e false promesse del tipo cui gli elettori sono abituati alla vigilia delle elezioni. Sono promesse e slogan vuoti che non hanno alle spalle alcun piano serio di attuazione; infatti sono basati sull’ignoranza degli elettori comuni.
Tutte le forze che dominano la scena elettorale aderiscono ai principi neoliberali che danno priorità al mercato, al settore privato e al libero scambio; gli stessi principi che, innanzitutto, hanno portato i nostri paesi nell’attuale palude. Il grave problema dello sviluppo di cui le nostre società soffrono deriva in realtà dal tipo di capitalismo che prevale nei nostri paesi, assieme al dominio della rendita petrolifera sulle nostre economie. E’ un capitalismo di profitti rapidi, senza incentivi a investimenti produttivi di lungo termine capaci di indurre una crescita intensa dell’occupazione, specialmente per timore della mancanza di stabilità che caratterizza la regione araba.
La verità è che le condizioni rivoluzionarie che si stanno manifestando nella nostra regione, con il corrispondente aumento delle rivendicazioni sociali, non faranno che peggiorare l’indisponibilità del capitalismo prevalente a impegnarsi in investimenti che creino occupazione.
La verità ineluttabile, dunque, è che il nostro sviluppo economico non verrà dal fare affidamento sul capitale privato. Esso richiede una chiara rottura con il modello neoliberale al fine di riportare lo stato e il settore pubblico al posto di guida riguardo allo sviluppo e di dedicare le risorse le paese a questa priorità principale mediante nazionalizzazioni e una tassazione progressiva.
Nonostante tutti i loro inconvenienti, le politiche di sviluppo attuate nella nostra regione dagli anni ’50 agli anni ’70 ebbero realmente un impatto ed effetti sociali migliori delle politiche neoliberali che sono seguite. Ciò di cui oggi c’è bisogno è un ritorno alle politiche di sviluppo di quei tempi senza il dispotismo e la corruzione concomitanti, mentre i regimi che le hanno sostituite hanno semplicemente abbandonato lo sviluppo, conservando il dispotismo e portando la corruzione a un livello molto più elevato.
Il fatto che, da quando la rivoluzione è iniziata a Sidi Bouzid, le masse si siano abituate a far sentire la loro voce nelle strade e nelle piazze crea la condizione chiave per un controllo popolare democratico sulla concentrazione del potenziale della nazione nelle mani dello stato. Questa è una condizione necessaria, se il mondo arabo deve finalmente procedere sul percorso dello sviluppo senza corruzione, dopo aver sperimentato lo sviluppo con la corruzione e la corruzione senza sviluppo, in successione, a partire dagli anni ’50.
I movimenti dei giovani e dei lavoratori
Poiché si trova al cuore del processo produttivo e combina il sapere e la competenza della classe lavoratrice, il movimento dei lavoratori è il più qualificato a controllare le politiche statali di sviluppo, fintanto che rimane indipendente e libero.
Conosciamo il ruolo cruciale che il movimento dei lavoratori ha svolto sia in Tunisia sia in Egitto nella prima fase della rivoluzione, abbattendo i dittatori e spazzando via i simboli e le istituzioni del vecchio ordine politico. Nessuno può ignorare il ruolo fondamentale svolto in proposito dal Sindacato Generale del Lavoro tunisino, né il ruolo decisivo del movimento degli scioperi dei lavoratori in Egitto che cominciò ad espandersi nei giorni che portarono alle dimissioni di Hosni Mubarak. Ciò ha portato anche alla creazione della Federazione Egiziana dei Sindacati Indipendenti le cui fila si sono ingrossate sino a raggiungere 1,5 milioni di membri nel giro di pochi mesi.
E’ qui il paradosso del processo rivoluzionario cui stiamo assistendo. Gli uomini e le donne del movimento del lavoro hanno aperto la strada alle rivoluzioni in Tunisia e in Egitto e hanno svolto un ruolo decisivo nell’abbattere il vecchio regime, ma sono stati totalmente assenti nella fase elettorale. Anche se il movimento del lavoro è indubitabilmente la sola forza progressista che ha radici popolari e una portata nazionale in grado di battere i partiti conservatori ed elevarsi alla posizione politica guida al fine di realizzare il necessario cambiamento rivoluzionario, esso è stato fisicamente assente nella competizione elettorale in quanto mancante di rappresentanza politica. Perciò è stato assente anche politicamente, con i partiti che hanno dominato la scena elettorale ignorando quasi completamente i problemi e le richieste della classe lavoratrice, relegandoli, al meglio, in una posizione secondaria.
Lo stesso vale per il movimento giovanile, con la sua significativa componente femminile, che ha dato il via alle rivolte e alle rivoluzioni e continua a essere dovunque in prima linea. Tuttavia è stato quasi completamente assente nella fase elettorale che è stata dominata da organizzazioni politiche guidate da persone più anziane che hanno appoggiato un regime morale puritano e una regressione culturale oscurantista, ben lungi dalle aspirazioni della gran maggioranza della gioventù rivoluzionaria.
In poche parole ci troviamo di fronte a un divario storico di natura sociale tra, da un lato, le forze che hanno aperto la via al movimento rivoluzionario, lo hanno innescato e hanno spinto per la sua radicalizzazione, cancellando le istituzioni del vecchio regime e, dall’altro lato, le forze che sono giunte a dominare la scena elettorale e a conquistare la maggioranza dei seggi parlamentari, forze tutte che si sono unite alla mobilitazione rivoluzionaria dopo che essa era già stata avviata e dopo aver inizialmente denunciato quelli che l’avevano fatta esplodere. E’ un divario di fondo tra, da un lato, i gravi problemi che hanno provocato l’esplosione e continuano ad affliggere i lavoratori, gli emarginati, le donne e i giovani e, dall’altro, le forze che si sono impossessate della luce della ribalta politica e stanno cercando di ridurre lo scontro a una battaglia tra “laicismo” ed “Islam”. Dicono di rappresentare l’ “Islam” che promuovono come la “soluzione”, dimostrando così la correttezza della critica all’uso della religione come “oppio delle masse”, inteso a distrarre le persone dal guardare in faccia i problemi fondamentali che le affliggono.
Il divario può essere colmato soltanto attraverso la costruzione della rappresentanza politica del movimento dei lavoratori e il suo ingresso nell’arena elettorale con lo scopo di arrivare al potere in alleanza con le organizzazioni indipendenti dei giovani e delle donne. Fino a quando ciò non sarà conseguito, la cause che hanno provocato la sollevazione rivoluzionaria non scompariranno ma, in realtà, peggioreranno, facendo sì, in tal modo, che il processo rivoluzionario che è stato avviato a Sidi Bouzid il 17 dicembre 2010 sarà davvero un processo a lungo termine.

traduzione di Giuseppe Volpe

LA RIVOLUZIONE CONTINUA
29 novembre 2011

Mentre si stavano alzando voci dalla destra e da parte della sinistra che dichiaravano che la “Primavera Araba” era finita, e che consigliavano alle masse ribelli di tornarsene a casa, di recente è diventato molto chiaro che il processo rivoluzionario che è stato avviato in Tunisia alla fine dello scorso anno, rimane vivo e vegeto. Di fatto si è rinvigorito e sta sperimentando un nuovo impennata che sarà indubbiamente seguito da altre nei prossimi anni.
La rivoluzione continua ovunque, sfidando tentativi di farla fallire o di sviarla dal suo corso progressista e liberatore. Questi sforzi sono appoggiati dagli Stati Uniti protettori della maggior parte dei regimi afflitti e controllati dai baluardi della reazione Araba negli stati petroliferi del Golfo.
Sono impegnati in un vano tentativo di spegnere le fiamme della rivoluzione versandogli addosso petrodollari. E li stanno aiutando e incoraggiando in cambio di una fetta della torta che è stata loro promessa – dai capi della Fratellanza Musulmana appoggiati dall’emirato del Qatar e dai gruppi Salafiti sostenuti dal regno Saudita.
La rivoluzione, tuttavia, continua dovunque: in Yemen dove “La nostra rivoluzione continua” è il nome dato alle dimostrazioni di venerdì scorso che rifiutavano il patto di “compromesso” sul quale il [Pesidente] Saleh, facendo un ampio sorriso, ha apposto la sua firma. Il regno Saudita sta cercando di imporre il patto agli Yemeniti per perpetuare il regime di Saleh, come quello di Mubarak in Egitto, mentre lo stesso Saleh continua a dirigere il gioco dietro le quinte o proprio in Yemen o dal regno Saudita – il santuario dei despoti corrotti che ha accolto Ben Ali, che si è offerto di ospitare Mubarak e che ha curato Saleh dopo che era stato ferito (in un attentato).
La rivoluzione continua dovunque: in Egitto dove le masse sono scese nelle strade per insorgere di nuovo contro il governo militare. Hanno capito che il comando dell’esercito, che per un po’hanno ritenuto fosse leale verso il popolo, è una parte inseparabile, in effetti una colonna, del regime, del quale il popolo aveva invocato la caduta. La più grande delle rivoluzioni arabe sia per vastità che per importanza, ha riguadagnato vitalità. La visione e la determinazione di coloro che hanno continuato la lotta senza scoraggiarsi per l’isolamento temporaneo, sono state difese. Erano fiduciosi che la massiccia energia scatenatasi il 25 gennaio non si era esaurita, e che doveva continuare a essere utilizzata nelle lotte democratiche e sociali. Queste lotte gemelle possono riuscire soltanto quando si saldano insieme. E’avvenuto quando il tiranno è stato abbattuto e dovrà accadere di nuovo su più vasta scala una volta che il movimento dei lavoratori avrà consolidato la sua nuova organizzazione.
La rivoluzione continua dovunque: in Tunisia, dove nei giorni scorsi le masse si sono risvegliate nel bacino minerario di Gafsa dove l’insurrezione del 2008 ha preparato la rivoluzione che è scoppiata due anni dopo a Sidi Bouzid. Hanno rilanciato la richiesta originaria della rivoluzione tunisina: il diritto a un lavoro. Non sono stati ingannati dalla “transizione ordinata” organizzata dell’élite sociale dominante per mantenere il proprio status, dopo aver cacciato Ben Ali come un agnello sacrificale. Questa “elite” oggi sta cercando di cooptare gli oppositori di ieri.
La rivoluzione continua dovunque: in Siria, dove la lotta popolare continua a intensificarsi, a dispetto della brutalità e dell’atroce repressione del regime. Un numero crescente di soldati osa disertare dai ranghi dell’esercito per mettere in atto veramente il loro dovere di difendere la gente. Le richieste di intervento militare straniero fatte dall’ala destra dell’opposizione vengono nel frattempo ostacolate. La destra spera che l’intervento militare consegnerà loro il potere su un piatto d’argento, temendo che l’insurrezione popolare possa riuscire a far cadere il regime per conto proprio.
La rivoluzione continua dovunque: in Libia, dove le voci che denunciano tentativi di sottomettere il paese alla tutela straniera, stanno diventando più forti. I rivoluzionari Amazigh (Berberi) * che hanno avuto una parte importante nel liberare il paese dal dominio del tiranno, hanno rifiutato di riconoscere il nuovo governo perché esso non riconosceva i loro diritti. Si levano sempre più di frequente richieste di tipo sociale, sia nelle regioni che sono state più svantaggiate durante l’ex regime, che nel cuore della capitale. Tutto questo accade in assenza di un apparato che abbia il monopolio delle armi e capace di proteggere coloro che hanno accumulato ricchezza e privilegi durante il lungo governo di Gheddafi.
La rivoluzione continua dovunque: in Marocco, dove una maggioranza di persone ha boicottato le elezioni pere mezzo del quali la monarchia ha tentato di contenere le proteste popolari, con la speranza che i loro collaboratori nella “opposizione leale”, sarebbero stati in grado di far tacere il vulcano che invece continua a brontolare, con dimostrazioni dall’opposizione genuina. E condizioni di vita intollerabili rendono inevitabile un’eruzione.
La rivoluzione continua dovunque: in Bahrein, dove le masse ribelli non sono state ingannate dalla pantomima di “indagare sui fatti”che gli Stati Uniti hanno imposto al regno per far passare con cautela il loro patto programmato per la fornitura di armi. La gente continua a manifestare e a protestare, giorno dopo giorno, convinti che la vittoria alla fine sarà loro e che non gli può essere negata per sempre dalla dinastia Al Khalifa e dal suo patrono, il casato di Saud per il quale arriverà invece, inevitabilmente, il giorno della resa dei conti.
La rivoluzione continua dovunque, anche nel regno Saudita, dove la gente di Qatif (nella provincia orientale) è insorta qualche giorno fa, senza farsi scoraggiare dalla repressione accanita del regime. Continueranno a loro lotta fino a quando il “contagio” non si diffonderà in ogni parte della Penisola Araba e tra tutta sua popolazione, malgrado il malvagio incitamento settario che è diventata l’ultima arma ideologica della tirannia del Casato di Saud e dell’establishment oscurantista Wahhabita ** che, insieme agli Stati Uniti, loro protettori, li sostiene.
Quando cadrà il trono del Regno della casata di Saud nella Penisola Arabica, cadrà anche il baluardo della reazione araba, e il suo alleato di più lunga data e intermediario dell’egemonia statunitense nella nostra zona (anche più vecchio dell’alleato sionista). Quel giorno l’intero ordine arabo autocratico e basato sullo sfruttamento sarà ormai crollato.
Finché, però, non arriverà quel giorno, la rivoluzione deve continuare. Certamente sperimenterà fallimenti, battute d’arresto, reazioni violente, tragedie, trappole e cospirazioni. Come si è espresso un giorno il principale capo della Rivoluzione cinese: “La Rivoluzione cinese non è una cena elegante, né un saggio, né un dipinto, non un ricamo; non si può realizzare delicatamente, gradualmente…”La rivoluzione deve quindi continuare a marciare senza stancarsi, tenendo a mente un’altra famosa massima di uno dei capi della Rivoluzione Francese: “Coloro che fanno la rivoluzione a metà, si scavano soltanto la tomba. Ciò che costituisce una repubblica è la distruzione di tutto ciò che la ostacola”.

SIRIA:LA MILITARIZZAZIONE E L’ASSENZA DI STRATEGIA

(…) Ho potuto assistere alla riunione dell’opposizione siriana che si è svolta l’8 e il 9 ottobre scorsi in Svezia, nei pressi della capitale Stoccolma. Un certo numero di oppositori, uomini e donne, attivi in Siria o all’estero, si sono riuniti con degli importanti membri del Comitato di coordinamento (CC) venuti appositamente dalla Siria per l’occasione, con la partecipazione dell’esponente più significativo del Consiglio Nazionale siriano [CNS, l’altra fazione della opposizione siriana, quella maggiormente riconosciuta all’estero], Burhan Ghalioun, il suo presidente.

Gli organizzatori della conferenza mi avevano invitato a parlare del tema dell’intervento militare straniero nell’attuale situazione in Siria. Il mio intervento è stato accolto con interesse e mi era stato chiesto di scriverlo (avevo pronunciato il mio discorso basandomi su brevi note). Mi sono impegnato a farlo, ma diverse incombenze mi hanno impedito fino ad oggi di mantenere l’impegno.
Gli eventi in Siria in questi ultimi giorni sono precipitati, dando vita a un dibattito sempre più vivace intorno alle questioni dell’intervento militare e della militarizzazione della crisi, i due argomenti del mio intervento in Svezia. Questi sviluppi mi hanno spinto a ottemperare al mio impegno prima che fosse troppo tardi. Svilupperò, quindi, le tesi che ho sostenuto in Svezia, con un commento sugli sviluppi più recenti relativi a queste questioni.
Il mio intervento alla conferenza di ottobre era stato preceduto da una domanda rivolta da un partecipante a Burhan Ghalioun relativamente alla sua posizione, o quella del CNS, riguardo agli appelli per un intervento militare in Siria. Ghalioun aveva risposto che questa questione non era attualmente in discussione, poiché nessun Paese esprimeva una qualsiasi volontà di intervenire militarmente e che «quando saremo di fronte a una simile volontà d’intervento, adotteremo la posizione appropriata».
Ho iniziato il mio intervento sottolineando che l’opposizione siriana doveva definire una posizione chiara sulla questione dell’intervento militare straniero, perché è evidente che questa ha un’influenza importante sulla prospettiva di un intervento del genere. La reticenza che oggi possiamo osservare da parte degli Stati occidentali e regionali rispetto a un intervento diretto potrebbe cambiare domani se le richieste d’intervento fatte dall’opposizione dovessero moltiplicarsi.
È stata la richiesta del Consiglio Nazionale Transitorio libico per un intervento militare internazionale, formulata agli inizi di marzo, che ha spianato la strada alla Lega araba per fare un’eguale richiesta, seguita dalla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Se l’opposizione libica avesse rifiutato ogni genere di intervento militare diretto (invece, come ha fatto, di opporsi solo a un intervento terrestre e di chiedere un sostegno aereo), la Lega araba non avrebbe potuto chiedere l’intervento e l’ONU non avrebbe potuto avallarlo.
La Libia e i costi dell’intervento militare straniero
Avendo partecipato alle discussioni relative a quest’argomento, ho preso spunto per il mio intervento dalle lezioni dell’esperienza libica. Come la grande maggioranza dell’opinione pubblica araba, avevo espresso la mia comprensione per il fatto che i ribelli libici fossero stati costretti a chiedere un sostegno straniero per evitare il massacro di massa che avrebbe potuto essere commesso se le forze di Gheddafi avessero assaltato i bastioni della rivolta a Bengasi, a Misrata e altrove, non essendo in quel momento i ribelli in grado di respingere un simile attacco con le proprie forze.
Abbiamo addossato a Gheddafi tutta la responsabilità d’aver creato le condizioni che hanno portato all’intervento straniero, mettendo in guardia i ribelli verso ogni illusione relativamente alle intenzioni delle potenze occidentali che evidentemente intervenivano in loro favore. Infatti, l’intervento militare straniero in Libia si è realizzato ad un costo elevato, che può essere riassunto in questo modo:

Il prezzo politico immediato dell’intervento straniero è stato quello che ha permesso a Gheddafi di rivendicare che in qualche modo egli rappresentasse la sovranità nazionale e di poter accusare i ribelli di «essere agenti dell’imperialismo occidentale». Ciò ha influenzato una parte della società libica, seppure limitata.
Il prezzo politico più importante è stato che le potenze che sono intervenute si sono sforzate di togliere ai ribelli libici il loro potere decisionale. Esse non si sono limitate a fermare l’attacco contro i bastioni della sollevazione e a impedire a Gheddafi di usare la sua forza aerea. Sono andate ben oltre, distruggendo le forze aeree libiche (gli Stati occidentali, in particolare la Francia e la Gran Bretagna, aspettano con impazienza di poter vendere armi alla Libia del dopo-Gheddafi) così come parti importanti delle infrastrutture e degli edifici pubblici del Paese (gli Stati occidentali e la Turchia hanno iniziato a farsi concorrenza per [accaparrarsi] il mercato libico della ricostruzione anche prima della caduta del regime di Gheddafi). Le potenze occidentali hanno rifiutato di fornire ai ribelli libici le armi che chiedevano urgentemente e insistentemente per poter proseguire la liberazione del loro Paese senza intervento straniero diretto. Delle armi sono state fornite (dal Qatar e dalla Francia) solo nella fase finale della battaglia. Questi invii limitati hanno accelerato la caduta del regime di Gheddafi, dopo un lungo periodo di impasse sui fronti.
L’obiettivo delle potenze occidentali era quello di imporsi come attori principali nella guerra contro Gheddafi in modo da poterla dirigere. Hanno voluto stabilire una mappa per la Libia del dopo-Gheddafi; a questo scopo hanno creato anche un comitato internazionale. Esse hanno anche cercato, ad un certo momento, di concludere un accordo con la famiglia Gheddafi, alle spalle del Consiglio Nazionale libico. In conseguenza, il destino della Libia stessa veniva elaborato a Washington, Londra, Parigi e Doha più che in Libia, prima della liberazione di Tripoli. Certo, il desiderio degli Stati occidentali di controllare la situazione in Libia dopo Gheddafi era del tutto illusorio, come avevamo previsto. Ma ciò avviene oggi mentre in Libia regna il caos, aggravato dall’ingerenza occidentale e regionale.

La Siria: tra la Libia e l’Egitto

Tuttavia, l’impressione che oggi prevale è che l’intervento straniero ha evitato che la sollevazione libica venisse schiacciata, cosa che, se fosse avvenuta, avrebbe posto fine al processo rivoluzionario in tutta la regione araba. L’intervento ha permesso ai ribelli libici di liberare il loro paese dalle grinfie del brutale dittatore ad un costo che è stato comunque ben inferiore a quello che gli iracheni hanno dovuto pagare per essere liberati dal regime tirannico di Saddam Hussein da un’invasione straniera. L’occupazione dell’Iraq giunge al termine dopo otto anni terribili, durante i quali il Paese ha toccato il fondo ed ha pagato un prezzo umano e materiale esorbitante, tutto questo per trovarsi oggi di fronte un futuro oscuro e minaccioso.
La conseguenza di questa differenza tra la Libia e l’Iraq è che, mentre il secondo è un esempio piuttosto repellente per i siriani, l’esempio libico ha instillato in molti il desidero di imitarlo. Ciò si riflette nei crescenti appelli a un intervento militare dopo la liberazione di Tripoli, al punto che la giornata di mobilitazione di venerdì 28 ottobre è stata contrassegnata dalla richiesta di una no-fly zone.
Tuttavia, chiunque immagini che uno scenario simile a quello libico possa ripetersi in Siria, si sbaglia crudelmente. L’opposizione siriana deve essere cosciente che un eventuale intervento militare diretto in Siria (a causa dell’opposizione a un intervento indiretto, come la fornitura di armi) sarà più costoso del caso libico e questo per diverse ragioni che si possono così riassumere:

La situazione militare in Siria è molto diversa da quella che c’era in Libia. Quest’ultimo paese è caratterizzato dall’esistenza di concentrazioni urbane separate da spazi territoriali quasi desertici, spesso vasti. In queste condizioni la forza aerea diventava essenziale, tanto più che le zone controllate dai ribelli libici erano pressoché prive di sostenitori del regime. Per questo il regime ha fatto ricorso alla forza aerea nella sua offensiva controrivoluzionaria. E questo ha anche reso il sostegno aereo straniero molto efficace per la protezione delle zone ribelli e la limitazione del movimento delle forze del regime al di fuori delle zone abitate, tutto ciò ad un costo in perdite di civili relativamente contenuto.

Invece, la densità di popolazione in Siria è molto più elevata che in Libia e oppositori e sostenitori del regime molto più mescolati fra di loro, cosa che ha impedito al regime siriano di usare la sua forza aerea in modo massiccio. Di conseguenza, una zona di esclusione aerea sulla Siria avrebbe solo degli effetti molto limitati se dovesse riferirsi solo al suo significato effettivo. Oppure avrebbe conseguenze devastanti in termini di vite umane e di distruzione, se dovesse assumere l’aspetto di una guerra aerea generalizzata contro il regime, come è stato nel caso della Libia. Dato che le capacità difensive dell’esercito siriano sono ben più significative di quelle di Gheddafi, il livello e l’intensità dei combattimenti sarebbero molto più elevati in Siria – senza dimenticare che il regime siriano non è isolato come lo era quello di Gheddafi e che un intervento militare straniero in Siria infiammerebbe l’intera regione, che è altamente esplosiva.
D’altronde, attualmente nessuna città siriana corre il rischio di un massacro su vasta scala come lo correva Bengasi, e nessuna si trova di fronte a un destino paragonabile a quello della città siriana di Hama nel 1982, quando il regime di Assad[1] riuscì a isolarla dal resto del Paese. La forza dell’insurrezione siriana risiede nell’essere largamente estesa e che i ribelli non hanno commesso l’errore di prendere le armi, cosa che, se fosse avvenuta, avrebbe considerevolmente indebolito lo slancio della sollevazione e avrebbe permesso al regime di sopprimerlo molto più facilmente.
I ribelli siriani fino ad ora hanno fatto ricorso a delle forme di lotta come le proteste notturne e le manifestazioni del venerdì (e ciò non per ragioni religiose, ma perché il venerdì è il giorno ufficiale di vacanza ed è difficile per il regime impedire alle persone di riunirsi nelle moschee), in modo da preservare l’anonimato della maggioranza dei manifestanti. Questo metodo di manifestare che si coniuga alla guerriglia è il più appropriato quando una sollevazione popolare deve far fronte a una repressione brutale messa in atto da una forza militare di una superiorità schiacciante.

Al contrario del caricaturale regime di Gheddafi – che si era da anni rivolto a diversi Stati occidentali con i quali aveva stabilito una stretta cooperazione in ambito economico, in quello della sicurezza e dei servizi segreti – il regime siriano resta un ostacolo per gli Stati Uniti nella realizzazione dei loro progetti nella regione, a causa della sua alleanza con l’Iran e con gli Hezbollah libanesi e a causa del suo sostegno a diverse forze palestinesi che si oppongono alla loro capitolazione sotto l’egida degli Stati Uniti.

Riconoscere questa realtà non deve in nessun modo suggerire l’astensione dal sostegno delle rivendicazioni popolari per la democrazia e i diritti umani, sia che ciò avvenga in Siria o in Iran. Tuttavia, occorre prenderla in considerazione nel modo in cui lo fa l’opposizione iraniana che si è categoricamente opposta ad un intervento militare straniero negli affari interni del Paese e difende il proprio diritto a sviluppare l’energia nucleare di fronte alle minacce israelo-americane che tentano di impedirlo sostenendo che l’Iran costruisce delle armi nucleari.
L’opposizione siriana giustamente critica il regime per il suo opportunismo, ricordando tanto l’intervento in Libano contro la resistenza palestinese e il movimento nazionale libanese nel 1976 quanto la sua adesione alla coalizione sotto la direzione degli Stati Uniti nella guerra del 1991 contro l’Iraq. Coloro che criticano la doppiezza del regime siriano rispetto alla causa nazionale non devono consentire a quest’ultimo di apparire credibile quando pretende di combattere «agenti» di potenze occidentali, chiedendo l’intervento di queste stesse potenze occidentali. L’opposizione nazionale non deve consentire al regime di scavalcarla nella difesa della causa nazionale. Essa deve comprendere che, poiché il territorio siriano è parzialmente occupato da Israele con il sostegno degli Stati occidentali, non deve chiedere aiuto rivolgendosi ai nemici e agli oppressori della Siria. Se queste potenze intervenissero, sicuramente cercherebbero di indebolire la Siria, così come hanno indebolito l’Iraq.
Rovesciare un regime, qualunque esso sia, è un obiettivo strategico per raggiungere il quale i mezzi cambiano secondo i casi e i Paesi. La strategia dipende dalla composizione del regime che i rivoluzionari decidono di abbattere.

Prendiamo in considerazione, per esempio, le differenze tra il caso dell’Egitto e quello della Libia.
In Egitto, l’esercito regolare in quanto istituzione era e continua ad essere la spina dorsale del regime. Il potere di Mubarak ne era il prodotto e si basava sull’esercito, ma non lo «possedeva». Per questo motivo la sollevazione popolare si è sforzata di preservare la neutralità dell’esercito per rovesciare il despota. Questa strategia si è rivelata vincente, anche se ha creato nelle masse l’illusione che l’esercito in quanto istituzione e i suoi comandanti potessero mettersi a disposizione del popolo in maniera disinteressata. Invece di stimolare lo spirito critico del popolo e dei soldati e di avvertire che le alte sfere dell’esercito avrebbero fatto in modo da preservare i loro privilegi e il loro controllo sullo Stato, le principali forze del movimento di opposizione hanno in realtà contribuito a diffondere delle illusioni fra le masse. Il risultato è stato che la rivoluzione egiziana è rimasta incompiuta; vi sono infatti tanti elementi di continuità quanti sono gli elementi di cambiamento, se non di più.
In Libia, invece, Gheddafi aveva dissolto l’istituzione militare e l’aveva ricostruita sotto forma di brigate collegate alla sua persona attraverso legami tribali, famigliari e finanziari. Era dunque impossibile contare sulla neutralità dell’esercito ed era ancora meno possibile far si che si unisse alla rivoluzione. Il regime libico poteva essere rovesciato solo attraverso la sconfitta delle sue forze armate; in altri termini, per mezzo della guerra. Dato che l’equilibrio militare tra le forze di Gheddafi e i ribelli, che erano quasi disarmati, era in maniera schiacciante sfavorevole a questi ultimi, l’intervento di un fattore esterno era inevitabile: armando l’insurrezione (lo scenario migliore) o sotto forma di un intervento diretto nella guerra tra i ribelli e il regime attraverso l’occupazione del Paese (lo scenario peggiore) o ancora attraverso dei bombardamenti aerei senza invasione, come è stato il caso della Libia. Il risultato è stato che in Libia il cambiamento è stato molto più profondo rispetto all’Egitto visto l’affossamento generalizzato delle istituzioni del regime di Gheddafi. Oggi, la Libia è un Paese senza Stato, ossia senza un apparato che monopolizza le forze armate e nessuno sa quando uno Stato sarà ricostruito, o a cosa assomiglierà.
Dove si situa, quindi, la Siria in questa equazione strategica? Essa si situa in un certo modo tra il caso egiziano e quello libico. In Siria, come nel caso della Libia, il regime si è circondato da forze speciali che sono tenute insieme da legami famigliari e confessionali e da privilegi. È necessario battersi contro questa guardia pretoriana per far cadere il regime. In questo senso, il comandante dell’Esercito libero siriano, il colonnello Riyad al-Assaad, ha fatto bene lo scorso 5 novembre a dichiarare al giornale Al-Sharq Al-Awsat [un quotidiano arabo con sede a Londra] che «chiunque pensi che il regime cadrà pacificamente sogna semplicemente».
Tuttavia, dato che Israele occupa una parte del suo territorio, la Siria, contrariamente alla Libia, dispone anche di un esercito regolare basato sulla coscrizione generale di giovani e i cui soldati e sotto-ufficiali riflettono la composizione del popolo siriano da cui provengono. Di conseguenza, uno degli assi principali della strategia rivoluzionaria siriana deve essere quello di associare i ranghi dell’esercito alla causa della rivoluzione.

Il ruolo dell’esercito nella strategia dell’opposizione

Se l’insurrezione siriana avesse avuto una direzione dotata di una visione strategica (qui possiamo osservare chiaramente i limiti delle «rivoluzioni Facebook»), avrebbe cercato di estendere le reti dell’opposizione all’interno dell’esercito insistendo allo stesso tempo perché i soldati non disertassero individualmente o in piccoli gruppi, ma invece lo facessero nel più gran numero possibile. In assenza di direzione e di strategia, soldati e ufficiali hanno iniziato ad abbandonare i loro ranghi in maniera disorganizzata. In questi ultimi due mesi la portata delle defezioni si è estesa. Queste defezioni hanno messo in imbarazzo l’opposizione politica, alcuni membri della quale  rimproverano ai militari dissidenti di rappresentare una minaccia e di far deviare la sollevazione dalla via pacifica, mentre altri li salutano chiedendo loro contemporaneamente di non impugnare le loro armi contro il regime. Quest’ultimo appello è una proposta suicida della quale i dissidenti hanno buoni motivi per infischiarsene.
Il compito strategico di convincere i soldati siriani a unirsi alla rivoluzione non deve contrapporsi alle manifestazioni popolari e alla loro natura non violenta. Qui, ancora una volta, il caso siriano combina fra loro elementi dell’esperienza egiziana e dell’esperienza libica, ossia folle di manifestanti pacifici e scontri armati. La non-violenza delle manifestazioni popolari era, e resta, una condizione fondamentale dello slancio di questo movimento e del suo carattere di massa, con la partecipazione femminile. Questo slancio è esso stesso un fattore decisivo nell’incitare i soldati a ribellarsi contro il regime.
Così, la questione strategica più complicata in Siria è quella di poter combinare le mobilitazioni pacifiche di massa con l’estensione del dissenso militare e degli scontri armati senza i quali le forze del regime non saranno mai sconfitte e questo mai accadrà. A meno che, ovviamente, non si aspetti che degli ufficiali di alto rango del vertice della gerarchia del regime escano allo scoperto e forzino la famiglia regnante a fuggire dal Paese e a rifugiarsi in Iran. Se ciò dovesse accadere, la Siria si troverebbe in una situazione simile a quella dell’Egitto, dove una parte del vertice della piramide è caduta senza che questa crollasse completamente.
Quanto a un intervento diretto in Siria, sia che questo assuma la forma di un’invasione o si limiti a dei bombardamenti a distanza, esso metterebbe fine alla tendenza verso la dissidenza all’interno dell’esercito e compatterebbe i suoi ranghi causando uno scontro che convincerebbe i soldati che è stato sempre vero ciò che il regime non smette di ripetere dall’inizio della sollevazione, ossia che esso è di fronte a un «complotto straniero» che cerca di asservire la Siria. Le richieste avanzate da Riyad al-Assaad, il dirigente dell’Esercito siriano libero (nell’intervista citata precedentemente), per un intervento internazionale che miri a «imporre una no-fly zone o una zona interdetta alla navigazione» e a creare una «zona di sicurezza al nord della Siria che verrebbe amministrata dall’Esercito libero siriano» sono, nei migliori dei casi, prove ulteriori della mancanza di una visione strategica nella direzione della sollevazione siriana. Queste sono anche un effetto della miscela fra miopia e reazione emotiva di fronte alla brutalità del regime, un effetto che porta alcuni suoi oppositori a sperare che ciò arrivi a determinare una catastrofe ancora maggiore in Siria e in tutta la regione.
Coloro che auspicano la vittoria della sollevazione per la libertà e per la democrazia del popolo siriano in modo da rafforzare la propria patria invece che indebolirla, devono elaborare una posizione più chiara su queste questioni cruciali. Non è possibile limitarsi ad ignorarle in nome dell’unità contro il regime, perché da queste dipendono sia il destino della lotta che quello del paese stesso.

Questo articolo è stato pubblicato in arabo nella sezione «opinione» dal giornale libanese Al-Akhbar il 16 novembre 2011. Traduzione di Cinzia Nachira

IL DISCORSO DI BARACK OBAMA SULLA LIBIA E I COMPITI DEGLI ANTIMPERIALISTI

Il discorso tenuto da Barack Obama il 28 marzo fa luce in maniera interessante sia sull’attuale intervento occidentale in Libia, sia sul dibattito a proposito di esso che si è generato nel movimento contro la guerra. Ciò che segue è un’analisi dei passaggi chiave del discorso – lasciando da parte la retorica vuota e ampollosa del tipo “destino manifesto” – con un commento su entrambe le questioni, per finire con una valutazione dell’attuale situazione 12 giorni dopo l’adozione della Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU 1973 e dei compiti degli anti-imperialisti.

Consci dei rischi e dei costi impliciti in ogni azione militare, siamo riluttanti a ricorrere alla forza per risolvere i numerosi problemi del mondo.
Ma quando sono in gioco i nostri interessi e i nostri valori, abbiamo la responsabilità di agire. È ciò che è successo in Libia nel corso delle ultime sei settimane…

“[Sono state poste] alcune domande sul perché l’America deve intervenire – anche in maniera limitata – in questo lontano paese.[Molti] argomentano che ci sono molti luoghi nel mondo dove civili innocenti subiscono le brutali violenze dei loro governi e che l’America non deve per forza proteggere il mondo, specialmente quando abbiamo così tanti affari urgenti a casa nostra.

“È vero che l’America non può usare il proprio esercito ovunque ci sia repressione. E considerando i costi e i rischi dell’intervento,  dobbiamo sempre valutare i nostri interessi rispetto alle necessità di un’azione. Ma questo non può essere un motivo per non agire nell’interesse di ciò che è giusto. In questo paese – la Libia; in questo momento ci trovavamo di fronte alla possibilità di uno spaventoso massacro.”

In questo discorso gli interessi sono deliberatamente posti prima dei valori in questi passaggi. La verità è che gli interessi imperialistici degli Stati Uniti sono innanzitutto e soprattutto ciò che motiva l’intervento americano. I valori sono secondari, quando non sono solo una facciata, come testimonia l’intera storia degli interventi militari americani. A volte, gli interessi degli Stati Uniti possono coincidere con i loro valori proclamati come nel caso della partecipazione americana nella Seconda Guerra Mondiale, ma la maggior parte degli interventi statunitensi sono stati effettuati violando i valori proclamati, considerato che gli USA si sono astenuti dal sostenere i propri valori in innumerevoli casi, quando essi non combaciavano con gli interessi imperialisti.

“Per più di quarant’anni, il popolo libico è stato governato da un tiranno – Muammar Gheddafi. Egli ha privato il suo popolo della libertà, sfruttato le ricchezze del paese, assassinato i suoi oppositori in patria e all’estero, e terrorizzato persone innocenti in tutto il mondo – compresi gli americani uccisi dagli agenti libici.”

Questo è assolutamente vero. Eppure gli Stati Uniti si sono senza vergogna ingraziati il tiranno dal 2003, e non solo l’amministrazione Bush. Il 21 aprile 2009, il Segretario di Stato Hillary Clinton ha ricevuto a Washington uno dei sette figli di Gheddafi, il losco “dottor” Al-Mutassim-Billah Gheddafi, il “consigliere per la sicurezza nazionale” della Libia, che contribuì alla “guerra al terrorismo” intraprendendo missioni sporche per il governo degli Stati Uniti. “Sono lieta di dare il benvenuto al Ministro Gheddafi qui al Dipartimento di Stato. Valutiamo profondamente il rapporto tra gli Stati Uniti e la Libia. Abbiamo molte opportunità di approfondire e ampliare la nostra cooperazione. E non vedo l’ora di costruire questo rapporto.”(Dipartimento di Stato USA.)
E, ovviamente, molti alleati europei di Washington si sono ingraziati Gheddafi anche più degli stessi Stati Uniti, il più importante tra i quali è l’insopportabile buffone razzista-sessista che governa l’Italia.
“Dieci giorni fa, dopo aver cercato di porre fine alla violenza senza l’uso della forza, la comunità internazionale ha offerto a Gheddafi un’ultima possibilità per interrompere le uccisioni, o affrontarne le conseguenze. Invece di fermarsi, le sue forze hanno proseguito nella loro avanzata, lanciandosi sulla città di Benghazi, abitata da quasi 700.000 tra uomini, donne e bambini che hanno cercato la loro libertà dalla paura.

A questo punto, gli Stati Uniti e il mondo hanno dovuto prendere una decisione. Gheddafi ha dichiarato che non avrebbe mostrato “alcuna pietà” verso il suo popolo. Li ha paragonati ai ratti, e ha minacciato di stanarli uno a uno per punirli. In passato, lo avevamo visto impiccare i civili per strada e uccidere più di mille persone in un solo giorno. Oggi, abbiamo visto le forze del regime alla periferia della città. Sapevamo che se avessimo aspettato un giorno in più, a Benghazi – una città grande quasi quanto Charlotte – ci sarebbe stato un massacro che avrebbe avuto eco in tutta la regione e che avrebbe macchiato la coscienza del mondo.

“Non era nel nostro interesse nazionale lasciare che ciò accadesse. …

“L’America ha un importante interesse strategico nell’impedire a Gheddafi di devastare coloro che si oppongono a lui. Un massacro avrebbe portato altre migliaia di profughi ad attraversare i confini della Libia…”

Questo è vero. In un commento inviato da Benghazi per The New Yorker e intitolato “Chi sono i ribelli?”, Jon Lee Anderson ha recentemente confermato ciò che molti altri osservatori avevano affermato, corroborando le paure espresse dalla rivolta a Benghazi e l’urgenza della loro richiesta di copertura aerea: “Quando le prime colonne di soldati [di Gheddafi] hanno raggiunto i dintorni della città, molte migliaia di abitanti di Benghazi – inclusi alcuni membri del Consiglio della città – sono fuggite a est. Tra coloro che sono rimasti a combattere ne sono morti più di trenta, e lo sforzo è stato salvato solo dall’arrivo degli aerei da guerra francesi.” Come ha raccontato un camionista libico di Ajdabiya a un reporter del Financial Times: “Sappiamo che le armi della rivoluzione non sono nulla paragonate a quelle di Gheddafi… Se non fosse stato per gli aerei, avrebbe fatto zanga zanga” – che in arabo significa “vicolo per vicolo”, riferendosi al discorso ormai famoso di Gheddafi  in cui minacciava di schiacciare la rivolta con minacce spaventose.

Nel suo editoriale nell’edizione del 28 marzo del giornale in lingua araba con sede a Londra al-Quds al-Arabi, Abdul-Bari Atwan, che conosce molto bene la Libia, ha spiegato il motivo della superiorità militare di Gheddafi sulla rivolta: “L’armamento dei ribelli, specialmente di coloro che sono concentrati nelle province orientali, è estremamente debole paragonato a quello delle forze fedeli al leader libico … Il Colonnello Gheddafi ha dissolto l’esercito libico circa vent’anni fa, dopo il tentativo di colpo di stato di Omar al-Mihayshi, e lo ha rimpiazzato con milizie armate guidate dai suoi figli o da membri della sua tribù, per garantire la loro totale fedeltà.”

Era questione di pochi giorni al massimo perché le forze di Gheddafi prendessero Benghazi e compissero un enorme massacro “che avrebbe avuto eco in tutta la regione e che avrebbe macchiato la coscienza del mondo,” mettendo così i governi occidentali nella difficile situazione politica di aver fallito nel rispondere alle richieste di protezione di una popolazione in pericolo, con un massacro su larga scala causato dalla loro inattività. Il punto chiave qui non erano né i “valori” né la “coscienza” in quanto tale, ma il fatto che la “coscienza sporca” delle potenze occidentali, se non avessero agito, li avrebbe obbligati a porre un embargo sulla Libia, in un periodo in cui il mercato del petrolio era così in tensione che l’embargo avrebbe portato i prezzi a un livello ancora più alto di quello che avevano raggiunto prima della crisi libica, con conseguenze disastrose per l’economia globale. Ecco perché, come ha detto Obama: “ Non era nel nostro interesse nazionale lasciare che ciò accadesse.”
Ho autorizzato un’azione militare per fermare il massacro e imporre la risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Abbiamo attaccato le forze del regime che si stavano avvicinando a Benghazi per salvare quella città e la sua popolazione. Abbiamo colpito le truppe di Gheddafi nella vicina Ajdabiya, permettendo all’opposizione di cacciarli. Abbiamo colpito le sue difese aeree, e questo ha preparato la strada alla no-fly zone. Abbiamo colpito i carri armati e le forze militari che assediavano città e villaggi e abbiamo tagliato molte delle loro fonti di rifornimento. E stasera, posso dirvi che abbiamo fermato l’avanzata mortale di Gheddafi.”

Questa è un’accurata descrizione di ciò che è successo, insieme all’inevitabile uccisione di civili a causa dei bombardamenti della coalizione, che, per essere onesti, è stata relativamente limitata finora nell’intervento in Libia, se lo paragoniamo alle guerre in Iraq e Afghanistan. Ovviamente, lo spettacolo degli aerei e dei missili occidentali che colpiscono la posizione di Gheddafi in Libia ha suscitato emozioni legittime e non poteva non evocare lo spettacolo delle aggressioni puramente imperialiste come l’invasione dell’Iraq del 2003. Ma non c’era modo di impedire a Gheddafi di commettere il suo massacro senza imporre una no-fly zone e arrestare l’avanzata dei suoi veicoli armati verso le zone popolate tenute dalla rivolta. Non potevamo appoggiare gli attacchi occidentali per la nostra totale mancanza di fiducia nell’approccio pesante del Pentagono e dei suoi alleati, e la nostra certezza, derivante dalle esperienze passate, che essi avrebbero oltrepassato il mandato delle Nazioni Unite di proteggere i civili. Ma non potevamo neanche opporci alla no-fly zone e all’iniziale bombardamento dell’armata di Gheddafi che richiesti insistentemente dalla rivolta per salvarla dalla vendetta assassina di Gheddafi.

“Un massacro avrebbe [portato] enormi tensioni sulle pacifiche – e fragili – transizioni in Egitto e Tunisia. Gli impulsi democratici che si stanno facendo strada nella regione verrebbero eclissati dalle più oscure forme di dittatura, se i leader repressivi giungessero alla conclusione che la violenza sia miglior strategia per aggrapparsi al potere.”

Per una volta, Obama ha ragione sugli scrittori occidentali che sostenevano che l’intervento occidentale in Libia fosse stato progettate per fermare – e avrebbe fermato – l’ondata di rivolte democratiche che sta attraversando il Nord Africa e il Medioriente. Al contrario, se Gheddafi fosse stato in grado di soffocare la rivolta libica in un bagno di sangue, questo avrebbe avuto effetti drammatici sulla situazione, avrebbe dato una spinta alla contro-rivoluzione e dissuaso il movimento di protesta dal proseguire la lotta in molti paesi. Il fatto che il massacro sia stato evitato e che la rivolta abbia ripreso la sua offensiva in Libia, ha incoraggiato ancor di più il processo rivoluzionario della regione. Da allora il movimento non solo ha avuto maggior impulso dove già esisteva, in paesi come il Marocco e lo Yemen, ma si è diffuso e amplificato in Siria, l’unico grande paese della regione in cui le proteste finora erano state molto deboli.
“Inoltre, abbiamo raggiunto questo obiettivo rispettando la promessa che avevo fatto al popolo americano all’inizio delle operazioni militari. Dissi che il ruolo dell’America sarebbe stato limitato, che non avremmo impiegato truppe di terra in Libia; che avremmo concentrato le nostre capacità uniche sul fine ultimo dell’operazione, e che avremmo trasferito le responsabilità ai nostri alleati. Questa sera, stiamo realizzando quell’impegno.

“La nostra più importante alleanza, la NATO, ha assunto il comando dell’imposizione dell’embargo sulle armi e della no-fly zone. Ieri sera, la NATO ha deciso di assumersi anche la responsabilità della protezione dei civili libici. …

“Ovviamente, non c’è dubbio che la Libia – e il mondo intero – sarebbe migliore senza Gheddafi. Io, insieme a molti altri leader mondiali, ho accolto questo obiettivo, e lo perseguirò attivamente mediante mezzi non militari. Ma estendere la nostra missione fino a includere un cambio di regime sarebbe un errore.  

“Il compito che ho affidato alle nostre forze – proteggere il popolo libico dal pericolo immediato, e imporre una no-fly zone – porta con sé un mandato dell’ONU e il sostegno internazionale. È anche ciò che l’opposizione libica ci ha chiesto di fare. Se cercassimo di rovesciare Gheddafi con la forza, la nostra coalizione si spaccherebbe. Probabilmente saremmo costretti a inviare truppe di terra, o a rischiare di uccidere molti civili negli attacchi aerei. …

“ Siamo intervenuti per fermare un massacro, e lavoreremo con i nostri alleati finché saranno al comando per mantenere la sicurezza dei civili. Negheremo le armi al regime, taglieremo i finanziamenti in denaro, assisteremo l’opposizione, e lavoreremo con altre nazioni per accelerare la rinuncia al potere di Gheddafi.”
Eccoci al punto chiave della risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU 1973, che invocava la responsabilità di proteggere i civili. A parte l’esplicita richiesta della rivolta, escludeva “un’occupazione di forze straniere di ogni tipo in qualsiasi parte del territorio libico”, e questa tutela contro il controllo imperialistico della Libia è davvero cruciale. Coloro che credono che gli Stati Uniti potrebbero imporre un “Karzai” alla Libia per mezzo della sola forza aerea devono ancora mostrarci come questo potrebbe accadere. Chiunque abbia familiarità con la situazione afghana dovrebbe sapere che, se le truppe americane non avessero avuto il controllo di Kabul, Hamid Karzai, che aveva un’influenza trascurabile nel paese, non sarebbe mai stato in grado di diventare presidente. E mentre gli alleati afghani degli Stati Uniti riuniti nell’Alleanza del Nord non avevano una base sociale oltre alla loro regione etnica, l’opposizione libica è chiaramente basata sulle masse nelle regioni chiave del paese, e questo rende molto più difficile per gli stranieri controllare il risultato politico senza una presenza militare sul territorio. Gli scrupoli dei circoli dominanti politici e militari occidentali, nonché i resoconti dei tradizionali media occidentali sulla rivolta libica sono molto eloquenti in proposito (si veda, per esempio, il recente resoconto su The Independent).

Individuare pochi individui di identità politiche varie e contraddittorie che hanno o cercano di avere un ruolo nella rivolta libica non indica quale influenza essi abbiano realmente, e non può essere un indizio convincente della forma di una Libia post-Gheddafi, tanto meno considerando che il Consiglio Nazionale di Transizione ha avanzato un chiaro programma di cambiamento democratico che prevede elezioni libere ed eque. La campagna di discredito contro la rivolta libica è l’equivalente di quella portata avanti da coloro che cercavano di calunniare la rivolta egiziana, puntando il dito contro il ruolo dei Fratelli Musulmani o descrivendo Mohamed El-Baradei come un burattino dell’imperialismo e il movimento giovanile 6 aprile come un’operazione degli Stati Uniti. E qualsiasi dichiarazione che questo o quel membro del Consiglio possa fare ai media occidentali per compiacere i governi che stanno aiutando la rivolta è secondaria rispetto al fatto che la caduta di Gheddafi permetterà alla sinistra di emergere in Libia per la prima volta in più di quarant’anni, e ai movimenti progressisti internazionali di esercitare pressione sullo stato libico affinché abbandoni l’accordo che Gheddafi ha concluso col suo amico Silvio Berlusconi nel 2008 per facilitare il  respingimento illegale da parte dell’Italia delle barche provenienti dall’Africa.

Il punto ora è cosa accadrà dopo. Il massacro è stato evitato, la forza aerea di Gheddafi è stata paralizzata, le sue forze sono state indebolite nonostante abbiano ancora un chiaro vantaggio sugli insorti. Il mandato dell’ONU è stato eseguito in tutti i suoi punti  e [ha raggiunto tutti i suoi] fini secondo Obama, e ancora la NATO sta subentrando con un piano per un’operazione di tre mesi in Libia. Qualsiasi altro bombardamento oltrepassa il mandato dell’ONU trasformando la NATO in un attivo partecipante alla guerra civile in Libia, sebbene soltanto per via aerea e marittima. Il pretesto che questo faccia parte delle “misure necessarie” per “proteggere i civili” autorizzate dall’inaccettabile vaghezza della risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, è confermato dalla superiorità militare dei fedeli di Gheddafi sulla rivolta.

Tuttavia, il modo di eliminare questa superiorità e permettere alla rivolta di vincere, in conformità con il diritto all’autodeterminazione del popolo libico, è per gli ipocriti governi occidentali – che hanno venduto molte armi a Gheddafi da quando l’embargo sulle armi alla Libia è stato abolito nell’ottobre del 2004, e Gheddafi è diventato un modello da seguire – quello di inviare armi agli insorti. (L’Unione Europea ha concesso l’esportazione di armi a Gheddafi per un totale di 834.5 milioni di dollari nel 2009, senza contare l’aumento della vendita di armi del 2010; il governo degli Stati Uniti sotto l’amministrazione Bush ha approvato la vendita di armi alla Libia per 46 milioni di dollari nel 2008; l’amministrazione Obama ha ridotto la cifra a 17 milioni di dollari, mentre considerava l’invio di mezzi corazzati che l’avrebbero aumentata considerevolmente.) Mahmoud Shammam, uno dei portavoce dell’opposizione libica, ha dichiarato, durante il meeting internazionale sulla Libia tenutosi a Londra il 29 marzo, che i ribelli, adeguatamente equipaggiati, “sconfiggerebbero Gheddafi nel giro di pochi giorni.” Dichiarazioni simili sono state fatte da altri membri dell’opposizione libica. E ancora, col pretesto che la risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU impone l’embargo sulle armi al territorio libico, i governi occidentali si astengono dall’invio di armi alla rivolta, mentre l’amministrazione americana è indecisa al punto che Obama ha accuratamente evitato la questione nel suo discorso, parlando solo del rifiuto di inviare armi al regime. Davanti alle domande dei media su questo argomento, ha risposto: “Non lo escludo, ma neanche lo ammetto.” Questo dovrebbe assolutamente essere denunciato.
In breve, era sbagliato per le forze di sinistra opporsi a una no-fly zone e all’iniziale attacco contro l’esercito di Gheddafi in assenza di altre alternative per evitare il massacro in Libia. Opporsi alla no-fly zone offrendo alternative non plausibili, come hanno fatto molti gruppi della sinistra con le migliori intenzioni, era poco convincente. Ha messo la sinistra in una posizione debole agli occhi dell’opinione pubblica. Opporsi alla no-fly zone non mostrando alcuna preoccupazione per i civili, come hanno fatto alcune frange, era immorale – per non parlare dell’atteggiamento di quegli stalinisti irriducibili che sostengono che Gheddafi sia un progressista anti-imperialista e che la rivolta sia una cospirazione guidata dagli Stati Uniti o da Al-Qaeda ( mentre ricorrono alla calunnia in stile stalinista discutendo la posizione di coloro che nella sinistra simpatizzano con la richiesta di protezione della rivolta libica).

La richiesta di una no-fly zone fatta dalla rivolta non doveva essere contrastata. Avremmo invece dovuto esprimere le nostre riserve sulla risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, e mettere in guardia su qualsiasi tentativo di  impadronirsene per ulteriori programmi imperialistici. Come ho detto il giorno dopo l’adozione della risoluzione 1973, “senza dichiararci contro la no-fly zone, dobbiamo mostrare resistenza e sostenere un’assoluta vigilanza nel controllare le azioni di quegli stati che le conducono, per essere certi che non vadano al di là della protezione dei civili secondo il mandato della risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.” La nostra consueta prevenzione contro gli interventi militari di Stati imperialistici è stata resa nulla dalla situazione di emergenza data da un massacro imminente, ma questa situazione di emergenza non esiste più, e la rivolta può ora essere protetta in un modo migliore, cioè fornendole armi.

Ora che la no-fly zone è stata istituita in maniera pesante, tipica della NATO, e che la capacità delle forze di Gheddafi di minacciare i civili con un massacro è stata nettamente indebolita, dovremmo concentrare la nostra campagna su due importanti richieste inseparabili rivolte alla coalizione guidata dalla NATO:

Fermate i bombardamenti! Inviate armi agli insorti!

Associare le due richieste è il nostro modo di dimostrare concretamente che ci preoccupiamo per la rivolta del popolo libico contro il tiranno molto più di coloro che negano loro le armi mentre cercano di imporre il controllo sul loro movimento.

Traduzione di Letizia Menziani

SVILUPPI IN LIBIA

Chi è l’opposizione libica? Alcuni hanno notato la presenza della vecchia bandiera monarchica tra le fila dei ribelli.

La bandiera non è usata come simbolo della monarchia ma come  bandiera adottata dallo stato libico dopo la conquista dell’indipendenza dall’Italia. E’ usata dalla rivolta per rifiutare la Bandiera Verde imposta da Gheddafi assieme al suo Libro Verde, quando scimmiottava Mao Zedong e il Libretto Rosso. La bandiera tricolore non indica in alcun modo nostalgia per la monarchia. Nell’interpretazione più comune, simbolizza le tre regioni storiche della Libia e la mezzaluna  e la stella sono le stesse che si vedono nelle bandiere delle repubbliche algerina, tunisina e turca, non simboli della monarchia.

E dunque chi è l’opposizione?

La composizione dell’opposizione è –come in tutte le altre rivolte che scuotono la regione – molto eterogenea. Ciò che unisce le forze disparate è un rifiuto della dittatura e un anelito alla democrazia e ai diritti umani.  Al di là di ciò vi sono molte prospettive diverse. In Libia, più in particolare, c’è una miscela di attivisti dei diritti umani, di sostenitori della democrazia, di intellettuali, di elementi tribali e di forze islamiche; un insieme molto vasto.  La forza politica preminente della rivolta libica è la “Gioventù della Rivoluzione del 17 febbraio” che ha una piattaforma democratica che richiede lo stato di diritto, libertà politiche ed elezioni libere. Il movimento libico include anche segmenti del governo e delle forze armate che hanno disertato e si sono uniti all’opposizione, cosa che non è accaduta in Tunisia o in Egitto.
L’opposizione libica rappresenta quindi un insieme di forze, e la sintesi è che non c’è alcun motivo per un atteggiamento nei suoi confronti diverso da quello verso ogni altra rivolta nella regione.

Gheddafi è – o è stato – una figura progressista?

Quando Gheddafi salì al potere nel 1969 egli fu l’ultima manifestazione del nazionalismo arabo che seguì la seconda guerra mondiale e la Nakba del 1948. Cercò di imitare il leader egiziano Gamal Abdel Nasser che considerava il suo modello e la sua ispirazione. Sostituì allora la monarchia con una repubblica, si fece campione dell’unità araba, costrinse al ritiro dal territorio arabo della base aerea americana  Wheelus e diede il via ad un programma di cambiamento sociale.

Poi il regime seguì la propria strada, assieme al sentiero della radicalizzazione, ispirato da un maoismo islamizzato. Ci furono vaste nazionalizzazioni nei tardi anni ’70 – quasi tutto fu nazionalizzato, Gheddafi affermò di aver istituito la democrazia diretta – e fu cambiato formalmente il nome del paese da Repubblica a Stato delle Masse (Jamahirya). Egli fece finta di aver trasformato il paese nella realizzazione dell’utopia socialista attraverso la democrazia diretta, ma pochi furono ingannati. I “comitati rivoluzionari” agivano in realtà da apparato di governo assieme ai servizi di sicurezza nel controllare il paese. Al tempo stesso Gheddafi svolse anche un ruolo particolarmente reazionario nel rafforzare il tribalismo come estrumento del proprio potere. La sua politica estera si fece sempre più avventata e molti arabi arrivarono a considerarlo pazzo.

Con l’Unione Sovietica in crisi, Gheddafi abbandonò le sue pretese socialiste e riaprì la sua economia alle imprese occidentali. Affermò che la sua liberalizzazione economica sarebbe stata accompagnata da una politica, scimmiottando la perestroika di Gorbaciov dopo aver scimmiottato la “rivoluzione culturale” di Mao Zedong, ma la dichiarazione politica era vuota di sostanza. Quando gli Stati Uniti invasero l’Iraq nel 2003 sotto il pretesto della ricerca delle “armi di distruzione di massa”, Gheddafi, preoccupato di poter essere il prossimo, mise in atto un’improvvisa e sorprendente giravolta in politica estera, guadagnandosi una spettacolare promozione dallo status di “stato canaglia” a quello di stretto collaboratore degli stati occidentali. Collaboratore, in particolare, degli Stati Uniti, che aiutò nella cosiddetta guerra al terrore, e dell’Italia, per la quale fece il lavoro sporco di rimandare indietro gli aspiranti immigrati che cercavano di arrivare in Europa dall’Africa.

Attraverso queste metamorfosi, il regime di Gheddafi è sempre stato una dittatura. Qualsiasi misura progressista Gheddafi possa aver messo in atto, nell’ultima fase non rimaneva nulla del progressismo e dell’anti-imperialismo del suo regime. Il suo carattere dittatoriale si è mostrato nel modo in cui ha reagito alle proteste: decidendo immediatamente di domarle con la forza. Non c’è stato alcun tentativo di offrire un qualche canale democratico alla popolazione. Ha avvertito i manifestanti in un suo ora famoso discorso tragicomico: “Arriveremo metro per metro, casa per case, strada per strada … vi scoveremo nei vostri gabinetti. Non avremo compassione né pietà.” Nessuna sorpresa, sapendo che Gheddafi era l’unico governante arabo che aveva pubblicamente condannato il popolo tunisino per aver rovesciato il proprio dittatore Ben Ali, che egli descriveva come il miglior governate che i tunisini potessero trovare.

Gheddafi ha fatto ricorso a minacce e alla repressione violenta, affermando che i dimostranti erano stati trasformati in tossicomani da Al Qaeda che aveva versato allucinogeni nei loro caffè. Denunciare Al Qaeda per la rivolta è stato il suo modo di cercare di ottenere il sostegno dell’occidente. Se ci fosse stata una qualsiasi offerta di aiuto da Washington o da Roma, si può star certi che Gheddafi l’avrebbe accolta con piacere.  Ha effettivamente espresso la sua delusione per l’atteggiamento del suo compare Silvio Berlusconi, il primo ministro italiano, con il quale aveva condiviso festeggiamenti e ha denunciato il fatto che anche altri suoi “amici” europei lo avevano tradito. Negli ultimissimi anni Gheddafi era effettivamente diventato amico di diversi governanti occidentali e di altre figure del potere che, per un pugno di dollari, sono stati disponibili a rendersi ridicoli scambiando abbracci con lui.  Lo stesso Anthony Giddens, l’eminente teorico della Terza Via di Tony Blair, ha seguito i passi del suo discepolo visitando Gheddafi nel 2007 e scrivendo sul Guardian come la Libia era sulla strada delle riforme e sulla via di diventare la Norvegia del Medio Oriente.

Come valuti la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU adottata il 17 marzo?

La risoluzione stessa è formulata in un modo che tiene conto delle – e sembra rispondere alle –  richieste della rivolta per una zona di interdizione al volo (no-fly zone). L’opposizione ha in effetti chiesto esplicitamente una zona di interdizione al volo a condizione che nessuna truppa straniera sia impiegata in territorio libico. Gheddafi ha il grosso delle forze armate d’élite, con aerei e carri armati, e la zona di interdizione al volo neutralizzerebbe in concreto il suo principale vantaggio militare. Questa richiesta della rivolta è riflessa nel testo della risoluzione, che autorizza gli stati membri dell’ONU “ad adottare tutte le misure necessarieper proteggere i civili e le aree popolate da civili sotto minaccia di attacco nella Jamahiryia Araba Libica, compresa Bengasi, con l’esclusione di una forza di occupazione straniera sotto qualsiasi forma in qualsiasi parte del territorio libico.”  La risoluzione stabilisce “un divieto di tutti i voli nello spazio aereo della Jamahiryia Araba Libica al fine di proteggere i civili.”

Ora, non ci sono sufficienti salvaguardie nella formulazione della risoluzione per impedire il suo utilizzo a fini imperialistici. Anche se si suppone che lo scopo di qualsiasi azione sia la protezione dei civili e non un “cambiamento di regime”, decidere se un’azione adempia a questo scopo o meno è lasciato alle potenze che intervengono e non alla rivolta o almeno al Consiglio di Sicurezza. La risoluzione è sorprendentemente confusa. Ma considerata l’urgenza di impedire il massacro che inevitabilmente deriverebbe da un attacco a Bengasi da parte delle forze di Gheddafi e l’assenza di qualsiasi mezzo alternativo per conseguire l’obiettivo della protezione, nessuno può opporvisi ragionevolmente. Si possono comprendere le astensioni; alcuni dei cinque stati che si sono astenuti dal voto nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite hanno voluto esprimere la loro resistenza e/o il loro disagio per la mancanza di un controllo adeguato, ma senza assumere la responsabilità di un massacro incombente.

La reazione occidentale, ovviamente, sa di petrolio. L’occidente teme un conflitto prolungato. Se ci fosse un grande massacro, dovrebbero imporre un embargo al petrolio libico, mantenendo i prezzi del petrolio a un livello alto in un periodo in cui, dato lo stato attuale dell’economia globale, ciò avrebbe grosse conseguenze negative. Alcuni paesi, inclusi gli Stati Uniti, hanno agito con riluttanza. Solo la Francia è emersa come fortemente a favore di un’azione forte, il che può ben essere collegato al fatto che la Francia – diversamente dalla Germania (che si è astenuta dal voto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite) – non ha un grande accesso al petrolio libico e certamente spera in una quota maggiore dopo Gheddafi.

Sappiamo tutti che i pretesti delle potenze occidentali si basano su una doppia morale. Ad esempio la loro asserita preoccupazione per i civili bombardati dall’alto non è sembrata applicarsi a Gaza nel 2008-09, quando centinaia di non combattenti sono stati uccisi da aerei israeliani nell’appoggio a una occupazione illegale. O il fatto che gli USA consentano al loro regime cliente del Bahrein, dove hanno una base navale principale, di reprimere violentemente la rivolta locale, con l’aiuto di altri vassalli regionali di Washington.

Rimane il fatto, tuttavia, che se a Gheddafi fosse permesso di continuare la sua offensiva militare e di prendere Bengasi, ci sarebbe un grande massacro. Ecco un caso in cui la popolazione è davvero in pericolo e in cui non ci sono plausibili alternative per proteggerla. All’attacco delle forze di Gheddafi mancano ore, al massimo giorni. Nel nome di principi anti-imperialisti non ci si può opporre a un’azione che eviterà il massacro di civili. Analogamente, anche se conosciamo bene la natura e la doppia morale dei poliziotti nello stato borghese, nel nome di principi anticapitalisti non si può biasimare chi li chiami quando qualcuno sta per essere violentato e non c’è altro modo di fermare il violentatore.

Detto questo, senza dichiararci contro la zona di interdizione al volo, dobbiamo mostrare resistenza e sostenere un’assoluta vigilanza nel controllare le azioni di quegli stati che le conducono, per essere certi che non vadano al di là della protezione dei civili secondo il mandato della risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Guardano il televisione le folle di Bengasi che inneggiavano all’approvazione della risoluzione, ho visto in mezzo a loro un grande cartello che diceva in arabo “No all’intervento straniero”. La gente, là, distingue tra l’”intervento straniero” che loro intendono come truppe sul territorio, e una zona protettiva di interdizione al volo. Si oppongono alle truppe straniere. Sono consapevoli dei pericoli e saggiamente non si fidano delle potenze occidentali.

Così, per tirare le somme, io credo che da un punto di vista anti-imperialista non ci si possa e non ci si debba opporre alla zona di interdizione al volo, dato che non c’è alcuna alternativa plausibile per proteggere la popolazione in pericolo.  Viene riferito che gli egiziani stanno fornendo armi all’opposizione libica – ed è bene – ma di per sé non determinerebbe una differenza che potrebbe salvare Bengasi in tempo. Ma, di nuovo, si deve mantenere un atteggiamento molto critico verso ciò che le potenze occidentali potrebbero fare.

Cosa succederà ora?

E’ difficile dire cosa succederà ora. La risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU non chiede un cambiamento di regime; riguarda la protezione dei civili. Il futuro del regime di Gheddafi è incerto. La questione chiave è se vedremo la ripresa della rivolta nella Libia occidentale, Tripoli compresa, portare a una disintegrazione delle forze armate del regime. Se ciò accadrà, allora Gheddafi può essere spodestato presto.  Ma se il regime riesce a rimanere fermamente al controllo dell’occidente, allora ci sarà una divisione di fatto del paese, anche se la risoluzione afferma l’integrità territoriale e l’unità nazionale della Libia.  Può essere questo che il regime ha scelto, avendo appena annunciato la sua adesione alla risoluzione dell’ONU e proclamato il cessate il fuoco.  Quello che potremmo avere, allora, sarebbe uno stallo prolungato, con Gheddafi che controlla l’occidente e l’opposizione l’oriente. Ci vorrà ovviamente tempo prima che l’opposizione possa utilizzare le armi che sta ricevendo da e attraverso l’Egitto al punto da diventare capace di infliggere una sconfitta militare alle forze di Gheddafi.  Data la natura del territorio libico, questa può essere soltanto una guerra regolare piuttosto che una guerra popolare, una guerra di movimento su grandi estensioni di territorio. E’ per questo che è così difficile prevedere il risultato. La sintesi finale qui, di nuovo, è che dovremmo appoggiare la vittoria della rivolta democratica libica. La sua sconfitta per mano di Gheddafi sarebbe un contraccolpo che influenzerebbe negativamente l’onda rivoluzionaria che sta attualmente scuotendo il Medio Oriente e l’Africa del nord.

* Gilbert Achcar è cresciuto in Libano ed è attualmente professore alla Scuola di Studi Orientali e Africani (SOAS) dell’Università di Londra. I suoi libri comprendono “The Clash of Barbarism: The Making of the New World Disorder”, pubblicato in 13 lingue [Lo scontro di barbarie: la costruzione del nuovo disordine mondiale], “Perilous Power: The Middle East and U.S. Foreign Policy” scritto insieme con Noam Chomsky  [Il potere pericoloso: il Medio Oriente e la politica estera americana] e, più recentemente, “The Arabs and the Holocaust: The Arab-Israeli War of Narratives” [Gli arabi e l’olocausto: la guerra arabo-israeliana delle narrazioni]. E’ stato intervistato da Stephen R. Shalom.

19 marzo 2011

(da ZNet Italia ) Traduzione di Giuseppe Volpe

DOVE VA L’EGITTO

Intervista di Farooq Sulehnia a Gilbert Achcar

Per aiutare a spiegare gli interessanti sviluppi in Egitto, Farooq Sulehnia ha intervistato il 4 febbraio, il principale studioso e attivista arabo Gilbert Achcar.

Pensa che l’impegno di Mubarak del 1° febbraio di non ripresentarsi alle prossime elezioni abbia rappresentato una vittoria per il movimento  o fosse solo un trucco per calmare le masse dato, che il giorno dopo i dimostranti in piazza Al-Tahrir sono stati brutalmente attaccati dalle forze pro-Mubarak?

La ribellione egiziana popolare e anti-regime ha raggiunto un primo picco il 1° febbraio, spronando Mubarak ad annunciare concessioni in serata. Era un riconoscimento della forza della protesta popolare e una chiara ritirata da parte dell’autocrate, cominciata con l’annuncio della volontà del governo di negoziare con l’opposizione. Queste erano concessioni significative, soprattutto provenendo da un regime così autoritario e una testimonianza dell’importanza della mobilitazione popolare. Mubarak si è addirittura impegnato ad accelerare le azioni giudiziarie in corso contro la frode perpetrata durante le precedenti elezioni parlamentari.
Ha chiarito, però, che non aveva intenzione di andare oltre questo. Con l’esercito dalla sua parte, stava cercando di tranquillizzare il movimento di massa e i governi occidentali che lo incitavano a riformare il sistema politico. Senza dare le dimissioni, ha concesso alcune delle richieste chiave che il movimento di protesta egiziano aveva inizialmente formulato, quando ha lanciato la sua campagna il 25 gennaio. Il movimento, però, è diventato più radicale da quel giorno, al punto che nulla al di fuori delle dimissioni di Mubarak lo può soddisfare, con molti al suo interno che chiedono addirittura che Mubarak sia processato.
Inoltre, tutte le istituzioni chiave del regime sono ora denunciate dal movimento come illegittimeil potere esecutivo, quello legislativo e il parlamento. Il risultato di tutto questo è che parte dell’opposizione chiede che il capo della Corte costituzionale sia nominato presidente ad interim, per soprintendere alla elezione di un’assemblea costituente. Altri addirittura vogliono una commissione nazionale delle forze di opposizione per supervisionare la transizione. Certamente, queste richieste costituiscono una prospettiva radicalmente democratica. Per imporre un cambiamento così radicale, il movimento avrà bisogno di rompere o destabilizzare la spina dorsale del regime, cioè l’esercito egiziano.

Intende dire che l’esercito egiziano sta appoggiando Mubarak?

L’Egitto – anche più di Paesi come il Pakistan e la Turchia– è essenzialmente una dittatura militare con una facciata civile, che è essa stessa è piena di uomini provenienti dall’esercito. Il problema è che la maggioranza dell’opposizione egiziana, a partire dai Fratelli Musulmani, ha seminato illusioni sull’esercito e la sua presunta “neutralità“, se non “benevolenza“. L’esercito è  stato dipinto, da questa opposizione, come un mediatore onesto, mentre la verità è che l’esercito come istituzione non è assolutamente “neutrale”. Se questo ancora non è stato usato per reprimere il movimento, è solo perchè Mubarak e lo stato-maggiore non hanno ritenuto conveniente fare ricorso a una mossa del genere, probabilmente perchè temono che i soldati sarebbero riluttanti ad attuare la repressione. Questo è il motivo per cui il regime ha preferito orchestrare contro-dimostrazioni e attacchi di teppisti contro il movimento di protesta. Il regime ha cercato di scatenare un’apparente guerra civile, volendo lasciare intendere che l’Egitto fosse diviso in due campi contrapposti, creando così una giustificazione per l’intervento dell’esercito come “arbitro” della situazione.
Se il regime fosse riuscito a mobilitare un significativo contro-movimento e a provocare scontri su larga scala, l’esercito avrebbe potuto farsi avanti dicendo: “La ricreazione è finita, ora tutti devono andare a casa” mentre promettevano che le promesse di Mubarak sarebbero state mantenute. Come molti osservatori, ho temuto negli ultimi due giorni che questo stratagemma potesse riuscire ad indebolire il movimento di protesta, ma la grande mobilitazione di oggi, “giorno della partenza” – il 4 febbraio – , è rassicurante. L’esercito dovrà fare sempre più significative concessioni alla ribellione popolare.

Quando parla di opposizione, a quali forze si riferisce? Ovviamente, abbiamo sentito parlare dei Fratelli Musulmani e di El Baradei. Esistono altre forze, per esempio di sinistra o i sindacati ecc.?

L’opposizione egiziana include un vasto schieramento di forze. Ci sono partiti come il Wafd, che sono partiti legali e costituiscono quella che può essere chiamata l’opposizione liberale. Poi c’è una zona grigia occupata dai Fratelli Musulmani. Non ha uno status legale ma è tollerato dal regime. La sua struttura è completamente visibile; non è una forza clandestina. I Fratelli Musulmani sono certamente la più grande forza nell’opposizione. Quando il regime di Mubarak, sotto pressione degli USA, ha garantito uno spazio all’opposizione al momento delle elezioni parlamentari del 2005, i Fratelli Musulmani – presentandosi come “indipendenti” – sono riusciti ad ottenere 88 seggi parlamentari, cioè il 20% dei seggi parlamentari, nonostante gli ostacoli. Alle ultime elezioni, tenutesi lo scorso novembre e dicembre, dopo che il regime di Mubarak ha deciso di chiudere lo spazio limitato che aveva aperto nel 2005, i Fratelli Musulmani sono quasi spariti dal parlamento, perdendo tutti i seggi tranne uno.
Tra le forze di sinistra, la più grande è il partito Tagammu, che ha uno status legale e 5 seggi. Fa riferimento all’eredità di Nasser. I comunisti sono stati importanti nelle sue schiere. E’ essenzialmente un partito riformista di sinistra, che non è considerato una minaccia per il regime. Al contrario, è stato accondiscendente con esso in varie occasioni. In Egitto ci sono anche gruppi di sinistra nasseriani e della sinistra radicale – piccoli ma vivaci e molto coinvolti nel movimento di massa.
Poi ci sono i movimenti della “società civile”, come Kefaya [«Basta!», Movimento egiziano per il cambiamento], una coalizione di attivisti provenienti da varie forze di opposizione formatasi in solidarietà con la Seconda Intifada palestinese nel 2000. Questa organizzazione si è opposta successivamente all’invasione dell’Iraq ed è diventata famosa come movimento promotore della campagna democratica contro il regime di Mubarak. Dal 2006 al 2009, l’Egitto ha conosciuto un’ondata di conflitti sociali, inclusi alcuni scioperi operai impressionanti. In Egitto non ci sono sindacati indipendenti, con una o due eccezioni recenti, che sono il risultato della radicalizzazione sociale. La maggior parte della classe lavoratrice non può avvalersi di rappresentanze o organizzazioni autonome. Il tentativo di convocare uno sciopero generale il 6 aprile 2008 in solidarietà con i lavoratori ha portato alla creazione del “Movimento Giovanile 6 aprile”. Associazioni come questa e Kefaya sono gruppi concentrati sulla campagna per la democrazia, non partiti politici e includono persone di diverse affiliazioni politiche insieme ad attivisti non affiliati.
Quando Mohamed El Baradei è tornato in Egitto nel 2009, dopo il suo terzo mandato a capo della IAEA e grazie al suo prestigio personale accresciuto dal Premio Nobel per la Pace del 2005, si è raccolta intorno a lui una coalizione liberale e di sinistra, con i Fratelli Musulmani che hanno adottato nei suoi riguardi una posizione tiepida e con delle riserve. Molti nell’opposizione hanno considerato El Baradei un candidato forte, che godendo di fama e contatti internazionali, poteva rappresentare, di conseguenza, una candidatura credibile alla presidenza contro Mubarak e suo figlio. El Baradei così è diventato una figura di collegamento per un largo settore dell’opposizione, che raggruppava sia forze politiche, sia personalità indipendenti. In questo modo è nata l’Associazione Nazionale per il Cambiamento.
Questo schieramento di forze è molto coinvolto nelle attuali sollevazioni. La stragrande maggioranza delle persone nelle strade è, tuttavia, senza alcuna affiliazione politica. E’ un’enorme sfogo di massa per il risentimento di vivere sotto un regime dispotico, nutrita da condizioni economiche in peggioramento, dato che i prezzi dei beni di consumo di base, come cibo, carburante e elettricità, sono aumentati bruscamente insieme a una disastrosa disoccupazione. Per altro, questo è il caso non solo dell’Egitto ma anche nella maggior parte dei Paesi della regione ed è questo il motivo per cui il fuoco della rivolta, che è cominciata in Tunisia, si è esteso così velocemente in molti Paesi arabi.

El Baradei è veramente popolare o è in qualche modo il Mir-Hossein Mousavi [il leader dell’opposizione iraniana] del movimento egiziano, che cerca di preservare il regime cambiandone la facciata?

In primo luogo, non sono d’accordo con questa descrizione di Mousavi. Mir-Hossein Mousavi non voleva “cambiare il regime” se con questo si intende una rivoluzione sociale. Ma vi è stato sicuramente uno scontro tra le forze sociali autoritarie dirette dai Pasdaran e rappresentate da Ahmadinejad e dall’altra parte delle forze che si sono coalizzate intorno a una prospettiva liberale rappresentata da Mousavi. È stato uno scontro sulla natura del “regime”, ossia sull’assetto politico del governo del Paese.
Mohamed El Baradei è un liberale autentico, che spera che il suo Paese passi dalla dittatura attuale a un regime liberale e democratico, con elezioni libere e libertà politiche. Se un così grande schieramento di forze politiche vuole cooperare con lui, è perchè lo considerano la più credibile alternativa liberale al regime esistente, un uomo che non dirige un suo collegio elettorale, ed è perciò una figura adatta ad un cambiamento democratico.
Tornando alla sua analogia, non può paragonare El Baradei a Mousavi che era un membro del regime iraniano, uno degli uomini che guidò la rivoluzione del 1979. Mousavi aveva dei seguaci in Iran, prima di emergere come leader del movimento di protesta del 2009. In Egitto, El Baradei non può avere, e non pretende di averlo, un ruolo simile. E’ appoggiato da un grande arco di forze, ma nessuna di queste lo vede come proprio leader.
Le iniziali riserve dei Fratelli Musulmani nei confronti di El Baradei sono in parte collegate al fatto che lui non ha un’inclinazione religiosa ed è troppo laico per i loro gusti. In più, i Fratelli Musulmani hanno coltivato negli anni una relazione ambigua con il regime. Se avessero sostenuto pienamente El Baradei avrebbero ridotto i loro margini di negoziazione col regime di Mubarak, con cui hanno trattato per molto tempo. Il regime ha concesso loro molto nella sfera socio-culturale, un esempio è l’aumento della censura islamica in campo culturale. Questa era la cosa più semplice che il regime potesse fare per rabbonire i Fratelli Musulmani. Il risultato è stato che l’Egitto ha fatto grandi passi indietro rispetto alla laicizzazione consolidata sotto Gamal Abdul-Nasser negli anni ’50 e ’60.
Lo scopo dei Fratelli Musulmani è di assicurare un cambiamento democratico che garantisca loro di prendere parte a libere elezioni, sia parlamentari che presidenziali. Il modello che aspirano a riprodurre in Egitto è quello della Turchia, dove il processo di democratizzazione è stato controllato dai militari, con l’esercito che è rimasto pilastro del sistema politico. D’altra parte questo stesso processo ha creato uno spazio che ha permesso all’AKP, un partito conservatore islamico, di vincere le elezioni. Non intendono abbattere lo Stato e da queste ragioni deriva il loro corteggiare l’esercito e la loro attenzione ad evitare ogni mossa che possa renderlo ostile. Aderiscono a una strategia di graduale conquista del potere: sono dei gradualisti e non dei radicali.

I media occidentali accennano alla possibilità che la democrazia in Medioriente potrebbe portare ad un maggior controllo da parte dei fondamentalisti islamici. Abbiamo visto il ritorno trionfale di Rached Ghannouchi in Tunisia dopo un esilio di anni. E’ probabile che i Fratelli Musulmani vincano libere elezioni in Egitto. Qual’è il suo commento?

Invertirei l’intera domanda. Direi che è la mancanza di democrazia che ha permesso alle forze fondamentaliste di occupare questo spazio. La repressione e la mancanza di libertà politica ha ridotto considerevolmente la possibilità di svilupparsi per i movimenti di sinistra, per quelli dei lavoratori e per quelli femministi, tutto questo in un contesto di crescente ingiustizia sociale e di degrado economico. In questa situazione, il luogo di incontro più adatto per organizzare una protesta di massa è quello raggiungibile attraverso le vie più rapidamente e facilmente accessibili. Per questo motivo l’opposizione è stata dominata da forze che aderivano a ideologie e programmi religiosi.
Aspiriamo a una società dove queste forze siano libere di difendere i propri punti di vista, ma in una competizione aperta e democratica tra tutte le correnti politiche. Per far sì che le società del Medioriente tornino sulle orme della laicità politica, all’atteggiamento popolare critico nei confronti dello sfruttamento politico della religione che prevalse negli anni ’50 e ’60, è neccessario che esse acquisiscano quel tipo di educazione politica che può essere raggiunta solo attraverso un lungo esercizio della democrazia.
Detto questo, il ruolo dei partiti religiosi è diverso nei diversi Paesi. È vero, Rached Ghannouchi è stato accolto da alcune migliaia di persone al suo arrivo all’aereoporto di Tunisi. Ma il suo movimento Ennahda ha molta meno influenza in Tunisia di quanta ne abbiano i Fratelli Musulmani in Egitto. Certamente, questo è dovuto in parte al fatto che il movimento Ennahda ha subito una dura repressione a partire dagli anni ’90. Ma è anche dovuto al fatto che la società tunisina è meno favorevole alle idee fondamentaliste religiose rispetto a quella egiziana, dato il suo alto grado di occidentalizzazione e vista la storia del Paese.
Ma non c’è dubbio che i partiti islamici siano diventati la maggiore forza nell’opposizione ai regimi esistenti nell’intera regione. Servirà una prolungata esperienza democratica per cambiare direzione rispetto a quella che ha prevalso per più di trent’anni. L’alternativa è uno scenario simile a quello algerino, dove un processo elettorale  è stato bloccato dall’esercito con un colpo di stato militare nel 1992, che ha portato a una devastante guerra civile di cui l’Algeria sta ancora pagando il prezzo.
L’ondata sorprendente di aspirazioni democratiche tra la popolazione araba di queste ultime settimane è molto incoraggiante. Né in Tunisia, né in Egitto, o in altri Paesi, le mobilitazioni popolari avevano come obiettivo la realizzazione di programmi religiosi, né sono state guidate principalmente da forze religiose. Questi sono movimenti democratici, che dimostrano un forte desiderio di democrazia. I sondaggi hanno mostrato da molti anni che la democrazia come valore è molto apprezzata nei Paesi del Medioriente, contro ogni pregiudizio “orientalistico” sulla presunta “incompatibilità” culturale tra Paesi musulmani e democrazia. Gli eventi attuali dimostrano ancora una volta che ogni popolazione privata della libertà può manifestare per la democrazia, a qualsiasi “sfera culturale” appartenga.

Chiunque partecipi e vinca le future elezioni libere nel Medioriente dovrà affrontare una società dove la richiesta di democrazia è diventata molto forte. Sarà difficile per qualsiasi partito – qualsiasi sia il suo programma – far cambiare direzione a queste aspirazioni. Non sto dicendo che sia impossibile. Ma, una delle conseguenze più importanti degli eventi attuali è che le aspirazioni popolari alla democrazia sono decisamente aumentate. Queste aspirazioni creano le condizioni ideali per la sinistra di ricostruirsi come alternativa.
09/02/2011 (Traduzione dall’inglese di Letizia Menziani)

MAGHREB IN FIAMME

Questa intervista telefonica è stata rilasciata da Gilbert Achcar a Doug Henwood  il 27 gennaio 2011. Con gli eventi in corso e quindi dagli esiti imprevedibili al momento in cui è stata rilasciata questa intervista, essa è comunque utile per individuare le dinamiche che sono alla base di questa ondata di proteste popolari che sta dilagando in Medio Oriente e nel Maghreb. [Cinzia Nachira]

Domanda: Nelle ultime due settimane sono scoppiate delle incredibili rivolte in tutto il Medioriente. Cominciamo con la Tunisia: qual è la tua opinione su ciò che sta avvenendo nel Paese?

Risposta: È importante, in primo luogo, chiedersi quali sono le prospettive dal punto di vista politico. Bisogna capire se c’è la possibilità che il regime passato trovi qualche forma di continuità o se verranno apportate delle modifiche radicali almeno in campo politico. Nello scontro, infatti, entrano in scena due forze, che rappresentano due alternative: la possibile partecipazione al nuovo governo dei rappresentanti del vecchio regime e la pressione esercitata dagli esponenti dell’opposizione politica di sinistra, dei movimenti sociali e della federazione sindacale,  affinché si crei un nuovo governo, in cui non figurino personaggi provenienti dal vecchio regime. Nella lotta si inserisce l’esercito, che prova a ritagliarsi un ruolo in questi avvenimenti, avendo contribuito in qualche modo alla  fuga del dittatore, abbandonandolo, ma continuando d’altra parte a rappresentare una forza di riserva per il regime.
Al momento la situazione è abbastanza instabile ed è ancora aperta ogni possibilità se parliamo di chi, in ultima istanza, farà parte del prossimo governo e chi coordinerà l’organizzazione delle elezioni future, che è un’altra delle questioni in campo.

D: Attualmente esistono delle formazioni politiche, dei movimenti alternativi che possano inserirsi in questo vuoto politico?

R: Sì. Certo, le strutture di regime sono ancora lì, anche se sono indebolite. Lo stesso partito di maggioranza è in stato di decomposizione. Molti esponenti, fra cui anche i ministri, appartenenti a quel partito hanno rassegnato formalmente le dimissioni. Il partito di maggioranza di fatto non ha più la maggioranza.
Le strutture repressive, di solito considerate la spina dorsale dei regimi (mi riferisco alle forze di polizia, le forze di sicurezza e via dicendo), ed in misura minore l’esercito stesso, sono divise. Questa spaccatura negli apparati ha sicuramente indebolito il dittatore e l’ha portato alla fuga. Ma il regime, se pensiamo al suo carattere sociale, non è realmente minacciato, nel senso che  vi è uno scontro  su chi governerà o su chi imporrà la forza nel prossimo periodo, ma la federazione sindacale in sé non rappresenta un’alternativa radicale rispetto a quello che già esiste.
Dopo tutto la burocrazia della federazione sindacale, la sua leadership, è coesistita con il regime molto più a lungo di quanto non ci si sia scontrata. È per questo che non rappresenta in sé, nella sua struttura, un’alternativa radicale. Anche se è vero che ha una qualche forma di autonomia. Adesso, ad esempio, all’interno dell’unione sindacale c’è un ripiegamento a sinistra ed è in corso una battaglia politica. Quindi il sindacato è l’alternativa più accreditata, in termini di istituzioni già esistenti, alla struttura tradizionale di regime. Riguardo alle forze di opposizione, il partito Ennahdha, che è un’organizzazione islamica ed ha un background fondamentalista, considerata  l’alternativa più forte, è comunque in Tunisia molto più debole rispetto ai suoi corrispettivi di altri Paesi della regione e quindi non può assolutamente ricoprire il loro stesso ruolo. Le cose in Tunisia sono in continuo mutamento. Non possiamo neanche dire con certezza se questo governo cadrà o meno. Attualmente le forze che mirano alla conciliazione sono alla ricerca di un compromesso e dicono: “Bene, adesso dobbiamo lasciare che a decidere sia il popolo e  dobbiamo solo preoccuparci che le elezioni siano veramente libere per la prima volta nella storia di questo Paese. Potremo farlo solo grazie agli ultimi avvenimenti: la rivolta popolare. Per alcuni questo non è sufficiente e la questione centrale resta chi presiederà l’organizzazione delle elezioni, che è poi una questione centrale per determinare la successione

D: Qual è il ruolo giocato dagli Stati Uniti e dalla Francia, l’ex potenza coloniale?

R: È curioso vedere come questo Paese sia vessato da istituzioni internazionali/occidentali. Considerando quello che è sempre successo nei Paesi circostanti, la Tunisia è sempre stata considerata un modello positivo, soprattutto dalla Francia. Negli Stati Uniti, invece, (come abbiamo scoperto grazie a Wikileaks) esisteva una certa consapevolezza riguardo al livello di corruzione del regime. Questo è quanto viene fuori dalle pubblicazioni di Wikileaks, ovvero dai report del personale statunitense presente in Tunisia. Da quanto emerge dai documenti, sono tutti d’accordo nel sottolineare l’alto grado di corruzione presente all’interno del regime di Ben Ali. Adesso, il fatto che questo regime sia scosso dalle fondamenta preoccupa molto sia Washington che Parigi per quanto riguarda le possibili ripercussioni e soprattutto a causa dell’ossessione rappresentata  dai movimenti fondamentalisti islamici e dalla possibilità che essi possano rappresentare un interlocutore attivo. Ad essere spaventata, però, è soprattutto la Francia, per ovvi motivi di prossimità geografica e a causa dell’ immigrazione tunisina verso il suo territorio. Proprio per il fatto che, come dicevi, la Francia è l’ex potenza coloniale, puoi immaginare quali e quanti siano i legami esistenti fra i due Paesi. Ovviamente sia Washington che Parigi vorrebbero sin da ora stabilizzare la situazione e dire : “Ok, avete avuto la vostra Rivoluzione dei gelsomini”, cercando di inscriverla nella stessa categoria della Rivoluzione delle rose o altre simili. Insomma, niente di temibile, dopotutto. Comunque una manifestazione appartenente alla sfera della democrazia. Nelle ultime analisi è stata addirittura associata a categorie occidentali. Una rivoluzione, insomma, che non ha un reale potere sovversivo, non va oltre le manifestazioni. L’analisi dominante è questa. Anche gli ammonimenti pronunciati dal capo dell’esercito tunisino, le sue dichiarazioni contro il protrarsi delle proteste, sono certamente incoraggiate da Francia e Stati Uniti. Sarebbero contenti, questi ultimi, di vedere segni di continuità nell’apparato politico piuttosto che vederlo minacciato.
D: Quindi l’esempio della Tunisia è stato seguito da manifestazioni simili in tutta la regione. La più grande è quella esplosa in Egitto. Cosa pensi stia accadendo adesso in Egitto?

R: Sì, la rivolta tunisina ha creato una sorta di onda d’urto in tutta la regione. Gli effetti dell’onda d’urto si sono visti in Algeria, in Egitto, in Yemen, in Giordania. È un movimento esteso e non finirà di certo qui. Gli ingredienti principali della rivolta sono da una parte le condizioni economico-sociali, pessime già da tempo, e dall’altra i regimi oppressivi presenti in tutta l’area. Non dimentichiamo che questi regimi sono privi di qualsiasi forma di legittimità reale. La scintilla di tutto, pertanto, è rappresentata dagli avvenimenti tunisini che danno una lezione importante e per  tutti facilmente individuabile: quando le masse scendono in strada a protestare possono vincere la repressione. È per questo che la paura che attanagliava i popoli della regione, sta finalmente svanendo, o per lo meno è molto ridotta. Questo è quello che sta succedendo anche in Egitto. La differenza è che in Egitto la sollevazione non ha avuto un inizio spontaneo, come quella tunisina. Più che altro è stata organizzata dalle forze politiche e in particolare da una coalizione di forze di opposizione al regime di Mubarak, forze liberali e di sinistra, ma anche la più grande forza di opposizione del Paese rappresentata dai Fratelli Musulmani, alla luce di quanto accaduto in Tunisia. Questo tipo di opposizione al regime è figlia di un movimento nato da tempo allo scopo di impedire all’attuale presidente di designare il figlio come suo successore, di ottenere elezioni presidenziali libere e di dare la possibilità a chi ne abbia voglia di partecipare in qualità di candidato alle elezioni, che attualmente sono completamente controllate dal regime. La figura centrale che viene fuori da questa mobilitazione come possibile alternativa al presidente Mubarak è l’ex capo dell’Agenzia Atomica, Muhammad El-Baradei, che è visto dall’opposizione liberale, come dall’opposizione di sinistra e da tutte le forme di opposizione del Paese, come l’unica figura che goda di prestigio sia a livello nazionale che internazionale in grado di rappresentare un’alternativa credibile per l’opposizione. È in atto, dunque, una specie di braccio di ferro tra opposizione e regime. Se la situazione continua a evolversi in questo modo, ossia: se il regime si dimostra incapace di controllare la rivolta, di fermarla, potrebbe darsi la possibilità che il regime cambi, creando i presupposti perché l’esercito abbandoni Mubarak. Sappiamo che la spina dorsale del regime è l’esercito. Mubarak stesso proviene dall’esercito, così come i suoi predecessori. Dal 1952 il Paese è stato governato dall’esercito e l’esercito potrebbe abbandonare Mubarak – se le cose diventassero molto serie – in un modo o nell’altro, creando un qualche tipo di commissione militare o qualcosa di simile. Oltre a ciò, è difficile al momento intravedere una prospettiva, nel senso che gli eventi non hanno raggiunto il livello in cui l’esercito, per esempio, possa considerarsi minacciato nella sua struttura. Non resta che vedere l’evoluzione della situazione.

Traduzione dall’inglese di Teresa Patarnello

LIBANO:VERSO UNA NUOVA GUERRA CIVILE?

A cura di Cinzia Nachira

Dopo gli eventi di questi giorni. La situazione ad oggi sembra confermare la vittoria del «primo round» da parte di Hezbollah e i suoi alleati. Cosa ne pensi?

Quello che è accaduto è molto chiaramente un cambiamento sul piano dei rapporti fino ad oggi latenti e che ora si sono esplicitati. Hezbollah e i suoi alleati hanno posto l’accento sulla priorità militare, per prendere il controllo di Beirut Ovest. Questo significa prendere il controllo di una zona a predominanza sunnita, dato che, invece, i cristiani sono predominanti nell’Est della capitale; con combattimenti che si sono estesi anche in altre regioni del Libano, che però non hanno avuto implicazioni così drammatiche come a Beirut.

È soprattutto ciò che è avvenuto a Beirut che fa emergere una situazione nella quale Hezbollah e i suoi alleati appaiano come nettamente superiori militarmente, soprattutto agli occhi della maggioranza di governo.

Da questo punto di vista è una ulteriore sconfitta eclatante per Washington, visto che la maggioranza governativa è alleata degli Stati Uniti, sostenuta dagli alleati arabi degli Stati Uniti, il regno saudita, l’Egitto.

L’amministrazione Bush non cessa di accumulare sconfitte in Medio Oriente. Per usare un’immagine calcistica è come una squadra che ha già chiaramente perso e continua a incassare altri goal negli ultimi minuti della partita.

Questo ulteriore obiettivo raggiunto da Hezbollah e dai suoi alleati, compresi la Siria e l’Iran, conferma ciò che era stato rilevato fin dalla guerra del 2006 contro il Libano: ossia, che l’amministrazione Bush è un vero disastro nella politica estera e interna.

In questa situazione qual è il ruolo dell’esercito libanese?

Nell’atteggiamento dell’esercito libanese ci sono due parametri importanti che lo determinano.

Il primo è che in ogni caso questo esercito non può avere un ruolo «interventista» nel conflitto. Esso non può agire che come forza di «interposizione». È un esercito si potrebbe dire che equivale ai Caschi Blu dell’ONU. E questo perché è un esercito che riflette la composizione della popolazione del Paese e che se dovesse prendere parte attiva nello scontro, da una parte o dell’altra, andrebbe incontro a una divisione. E questo produrrebbe un fenomeno sconosciuto in Libano: l’esplosione dell’esercito.

Il secondo parametro è che il capo dell’esercito è accettato sia da Washington e gli altri che da Hezbollah come il futuro Presidente della Repubblica, ed egli vuole coltivare quest’immagine di neutralità nel conflitto interno, per salvaguardare la possibilità di essere eletto.

Questi due parametri: la composizione dell’esercito e i calcoli del suo capo fanno si che l’esercito si limiti a un ruolo di interposizione.

Secondo te c’è un legame tra lo sciopero generale e gli scontri scoppiati nello stesso giorno?

No, onestamente penso che lo sciopero generale sia stato un puro pretesto. D’altronde ben presto sono stati dimenticati i motivi per cui era stato proclamato: le rivendicazioni sociali ed economiche.

Sicuramente lo sciopero era stato proclamato contro il governo, ma la stessa opposizione egemonizzata da Hezbollah non fa alcuna allusione a queste rivendicazioni.

Tutto si concentra da una parte sulle misure adottate dal governo che hanno fatto esplodere la situazione, dall’altra le trattative politiche sul futuro delle istituzioni tra l’opposizione e la maggioranza parlamentare. Dico maggioranza parlamentare perché è maggioranza in parlamento ma probabilmente non nel Paese.

In Occidente molti descrivono l’azione di Hezbollah come un colpo di Stato, facendo, anche, un paragone con l’azione di Hamas a Gaza nel giugno 2007. Sempre in Occidente molti osservatori sostengono che lo scopo di Hezbollah sarebbe quello di instaurare una repubblica islamica in Libano, tu cosa ne pensi?

Inizio a rispondere dalla fine. No, non credo che lo scopo ultimo di Hezbollah sia quello di instaurare una repubblica islamica in Libano. Questa è un’assurdità.

Già è più serio porsi la domanda se si tratta di un colpo di Stato e se ci sono analogie con quello che è accaduto a Gaza con Hamas, e a questo proposito, direi, che ci sono dei punti in comune, ma anche, sicuramente delle differenze importanti tra le due situazioni.

Iniziamo con le differenze. Gaza, innanzitutto, è un territorio molto più piccolo del Libano, geograficamente isolato dall’ambiente circostante; questo non è il caso di Beirut.

Beirut è la capitale del Libano e non è isolata dal resto del Paese.

In secondo luogo Gaza ha una popolazione omogenea a livello confessionale, quindi la presa del potere a Gaza era una possibilità e Hamas l’ha fatto.

In Libano, Hezbollah sa perfettamente che non può prendere il potere. E lo ha dichiarato apertamente fin dalla sua fondazione. Ha dichiarato che non vi sono le condizioni per realizzare una repubblica islamica in Libano, perché è un Paese multi-religioso, multi-confessionale. Hezbollah è soprattutto impegnato nel controllo della propria comunità religiosa.

Ciò che è avvenuto a Beirut in questi ultimi giorni non è una presa del potere da parte di Hezbollah. È, molto evidentemente, un’azione militare di Hezbollah contro il campo avverso, una «presa del territorio» da parte di Hezbollah e dei suoi alleati, che sono per la maggior parte delle forze strettamente legate alla Siria. Anche Hezbollah è legato alla Siria, ma prioritariamente all’Iran, come è noto.

Hezbollah ha spinto l’esercito a dispiegarsi nelle zone che ha conquistato militarmente, pur ripetendo di non avere intenzione di prendere il potere.

Ha, invece, continuato a ripetere di voler segnare un rapporto di forza e mostrare chi è il più forte.

All’inizio Hezbollah ha presentato la sua come un’azione di difesa. Ossia ha detto: il governo ci ha dichiarato guerra decidendo lo smantellamento la nostra rete telefonica e destituendo l’ufficiale responsabile dell’aeroporto, che è vicino all’opposizione. Hezbollah ha interpretato questo come un segno ulteriore della volontà di aggredirlo militarmente e non solo politicamente. Quindi ha reagito come si è visto.

Ma, visto quello che ha fatto e l’ampiezza dell’azione, non si può dire che si tratti di un atto di difesa, se non nel senso della difesa preventiva. Visto che Hezbollah ha lanciato una campagna che va ben al di là di ciò che sarebbe stato necessario per annullare i provvedimenti del governo a esso contrari.

Da questo punto di vista c’è un punto in comune con Gaza. Nel senso che anche a Gaza l’azione di Hamas è stata un’azione preventiva contro ciò che andava preparando Dahlan, la frazione dell’Autorità palestinese più legata a Washington. Che con il suo aiuto preparava un’azione contro Hamas e quindi ha messo le mani avanti con un’azione preventiva.

Con la differenza che, a Gaza, Hamas è andato ben oltre lo smantellamento delle forze di Dahlan. Esso ha semplicemente soppresso l’Autorità palestinese di Fatah a Gaza. Ma Hamas aveva dalla sua parte l’argomento di essere il governo eletto nei territori palestinesi.

In Libano anche se Hezbollah non ha preso il potere, l’ho detto e lo ripeto, non toglie che io pensi che sia andato nella sua azione di forza ben oltre di ciò che era necessario.

Ossia, oggi di fronte a questa azione l’immagine di Hezbollah, in quanto forza militare che si è sempre presentata come forza di resistenza e che quindi era differente dalle milizie che sono esistite ed esistono ancora in Libano, sulla quale Hezbollah ha fondato la sua legittimità, è stata pesantemente incrinata. Per la ragione che Hezbollah ha usato la sua forza militare, alleandosi con dei gruppi che in buona parte sono agenti di Damasco e che sono delle vere e proprie bande senza alcuna legittimità politica, a differenza di Hezbollah. E questo cominciando da Amal, l’alleato più stretto di Hezbollah, che è una banda che assomiglia molto più a una milizia confessionale che a una forza di resistenza.

Hezbollah ha impegnato la sua forza militare con questi alleati, in un’azione per la presa del controllo di Beirut Ovest e delle zone a predominanza sunnita. Da quel momento, Hezbollah, appare come una forza che utilizza le sue armi all’interno del conflitto confessionale libanese. E questo ha già aggravato la polarizzazione confessionale e bisogna temere fortemente che quello che hanno rilevato alcuni mass media si avveri, ossia: l’irachizzazione del Libano. E per irachizzazione del Libano si intende lo scenario in cui le forze dominanti sciite, numericamente e politicamente dopo l’invasione americana, hanno dovuto far fronte a una guerra confessionale delle forze sunnite, molto sanguinosa, che ha preso la forma di attentati suicidi, con macchine imbottite di esplosivo, ecc.

Temo che questo succederà anche in Libano nel prossimo futuro e che le fazioni wahhabite e salafiti, del tipo di quelle presenti in Iraq, entrino in azione anche in Libano contro gli sciiti, rafforzando la dinamica di guerra religiosa e confessionale, rilanciata dai recenti scontri. Fino ad ora in Libano questo è stato evitato esattamente grazie all’immagine di Hezbollah e quella sorta di «accordo di pace» tra le comunità che esisteva dalla fine della guerra civile nel 1990. E il fatto che Hezbollah, effettivamente, appare come una forza orientata alla difesa contro Israele ha fatto si che anche i salafiti, estremisti alla Bin Laden, non potessero attaccare gli sciiti libanesi perché ciò sarebbe stato estremamente impopolare nel mondo arabo.

Dopo quello che è avvenuto l’immagine di Hezbollah sta cambiando, anche se non completamente. Però bisogna dire che dopo gli ultimi eventi, la propaganda attraverso la quale gli alleati di Washington, Arabia Saudita, Egitto e Giordania, hanno tentato in particolare dall’estate del 2006 di discreditare l’Iran e Hezbollah usando l’argomento religioso, che fino ad oggi aveva avuto un impatto minimo, mi sembra che siano rafforzati.

E questo è l’aspetto più grave.

In questa situazione Israele può cogliere l’occasione per intervenire?

Credo che Israele non sia in grado, anche vista la sua crisi interna, di lanciarsi nuovamente in un’azione ampia come quella del 2006 in Libano. Non a causa della presenza dell’UNIFIL. Non è questo che impedisce a Israele, se lo volesse, di invadere il Libano. Le truppe della NATO non si contrapporrebbero a un intervento israeliano. L’impedimento deriva dalla forza della resistenza contro la quale le truppe israeliane si sono già scontrate. Già nel 2000 esse hanno dovuto ritirarsi dall’ultima parte del Sud del Libano che avevano occupato dal 1982. Tutto questo fa si che Israele non prenda in considerazione un’invasione terrestre. Quindi ciò che mi sembra gli israeliani prendano in esame per vendicarsi dell’onta del 2006, sono degli attacchi più mirati. L’assassinio di Mughniyeh, il capo militare di Hezbollah, qualche tempo fa, è stato percepito da Hezbollah come un segnale.

Questo, credo, sia anche alla base degli ultimi eventi. Ossia, il timore di un’operazione israeliana mirata, compresa un’operazione di commando, che miri a decapitare Hezbollah. Questa, d’altronde, questa è la ragione per cui Nasrallah non si mostra più in pubblico. Lo ha fatto qualche volta subito dopo l’estate 2006, ma egli sapeva che all’epoca Israele era ancora sotto shock per la sconfitta subita. Nasrallah sa di essere minacciato e che Israele tenterà alla prima occasione di assassinarlo.

D’altronde nessuno auspica un intervento di Israele nel conflitto libanese. Anche Washington non lo vuole, perché questo metterebbe in grave imbarazzo i suoi alleati.

Anche la maggioranza governativa non vuole l’intervento di Israele.

D’altronde anche gli Stati Uniti non possono che limitarsi a dei bombardamenti grazie alla loro flotta e a un intervento aereo. Viste le difficoltà in cui essi si trovano in Afghanistan e in Iraq è difficilmente immaginabile possano aprire un nuovo fronte, con un nuovo intervento terrestre. Un fronte così è difficile, si è visto fino a che punto è difficile ottenere qualcosa sul terreno, dopo la capacità di resistenza dimostrata da Hezbollah nel 2006.

Quindi Hezbollah si sente minacciato e vede accumularsi all’orizzonte molti segnali preoccupanti come anche le dichiarazioni di Berlusconi e del suo ministro degli esteri sul cambiamento del mandato dell’UNIFIL.

Queste dichiarazioni sono state interpretate da Hezbollah come la volontà di mettere in atto quello che sembra essere il piano di Washington. Ossia, una combinazione tra le truppe libanesi, l’esercito e i suoi alleati, e le forze NATO presenti in Libano per ingaggiare uno scontro con Hezbollah.

Questo, e Hezbollah lo sa bene, è lo scenario pianificato da Washington.

In questo quadro anche se l’azione di Hezbollah è stata un’azione di difesa preventiva, essa ha, a mio parere, oltrepassato i limiti e ha creato una situazione che a media scadenza potrà rivelarsi pericolosa e nefasta. Ed è fortemente possibile che ciò che è appena accaduto resti nella storia non come un episodio passeggero, ma come il primo round di una nuova guerra in Libano, anche se potranno esservi dei periodi più o meno lunghi di tregua tra i diversi round. Perché oggi le tensioni e rancori accumulati sono forti, d’altra parte la dimostrazione di questo è il fatto che la coesistenza tra la forza militare di Hezbollah e uno Stato libanese che sia sovrano sul proprio territorio, si dimostra nei fatti quasi impossibile.

Hezbollah è uno Stato nello Stato, ma in più ha confermato di essere in grado di imporre le sue condizioni allo Stato [ufficiale]. Mentre prima poteva sembrare uno «Stato di resistenza» contro le invasioni di Israele, che invece lo Stato «ufficiale» non è in grado di contrastare, né di proteggere la popolazione del sud del Paese.

Come interpreti il fatto che Michel Aoun2 non prenda parte al conflitto?

Si dagli scontri è fuori. Credo non abbia alcun interesse a uno scontro. Se Aoun intervenisse si creerebbe uno scontro inter-cristiano. Egli sa che militarmente sarebbe facilmente sconfitto da Samir Geagea, il capo delle Forze Libanesi dell’estrema destra. Geagea oggi è probabilmente maggioritario nelle regioni cristiane.

Aoun non ha interesse a spostare nelle regioni cristiane il conflitto.

Quello che è interessante è che Geagea non ha reagito. E credo che questo avvenga perché l’opinione pubblica nelle regioni cristiane è estremamente ostile a ogni tipo di scontro nelle loro regioni. Queste vorrebbero preservarsi dallo scontro, come avviene ora. E la gente vede il vantaggio di ciò. Estendere lo scontro lo renderebbe impopolare. Penso che aspetti perché se scoppiano degli scontri nelle zone cristiane, non si limiterebbero a queste. Hezbollah darebbe il suo appoggio a Aoun e questo significherebbe fare la scelta di incendiare tutto il Paese. Facendolo piombare in piena guerra civile.

Se la dinamica attuale prosegue, acuendosi, cosa che mi sembra la cosa più probabile nel lungo periodo, le condizioni di una soluzione sono difficili da immaginare.

Se tutto ciò accade assisteremo ancora a una nuova guerra civile in Libano, all’esplosione dell’esercito, all’aiuto e all’intervento delle potenze regionali e internazionali a fianco di ciascun campo.

Che ruolo gioca la Siria?

La Siria teme di vedere la guerra confessionale libanese estendersi al suo interno: già nel Libano del Nord vi sono stati scontri tra la minoranza alauita libanese e sunniti. Questo è un fattore di rischio per il regime siriano perché esso stesso è dominato dagli alauiti, minoritari in Siria, dove la maggioranza della popolazione è sunnita. Se scoppiasse un conflitto confessionale in Siria, significherebbe la fine del regime attuale. Per ora il regime ha tutto sotto controllo.

Invece, è sufficiente leggere i tanti commenti sulla stampa israeliana che dicono: il problema di Hezbollah noi non siamo in grado di affrontarlo e risolverlo, come anche Washington. Dell’Europa è inutile parlare. Quanto a delle truppe arabe, mi sembra che esse avrebbero difficoltà a gestire la situazione senza un accordo con Damasco. Quindi, l’unica soluzione è parlare con Damasco. Sia su Haaretz che altri giornali israeliani spesso si leggono rimproveri a Washington per non aver spinto il governo israeliano a parlare con Damasco. A questo si aggiungono le raccomandazioni agli Stati Uniti del «Iraq Study Group» di Baker-Hamilton, nelle quali i negoziati con Damasco sono un elemento importante. La Siria può interpretare tutto questo come dei segnali a suo favore.

Quindi è chiaro che la Siria mette tutto sul tappeto esigendo 1) che spariscono le minacce che pesano su di essa soprattutto per il Tribunale Internazionale per l’assassinio di Rafic Hariri, 2) un cambiamento di atteggiamento verso di essa e il riconoscimento della sua tutela sul Libano. Non bisogna dimenticare che è già intervenuto in due riprese a Beirut nel 1976 et 1987, per sostenere gli alleati di Washington dopo aver sostenuto i loro avversari dall’esterno. La seconda volta fu seguita da scontri tra le truppe siriane e Hezbollah. Non è da escludere vi sia una terza volta.

Non è da escludere che il regime siriano venga «implorato» di reintervenire anche militarmente, direttamente o indirettamente, ossia bloccando le strade di comunicazione da dove transitano gli aiuti iraniani per Hezbollah che attraversano la Siria, dato che sia per Israele che per Washington il regime siriano è molto meno inquietante del regime iraniano. Israele non ha problemi con il regime siriano: la sua frontiera con la Siria è la più calma di tutte.

Ovviamente questi sono elementi della complicata equazione mediorientale, di cui il Libano fa parte.

Intervista realizzata il 13 maggio 2008

1 Gilbert Achcar, di origine libanese, vive e lavora a Londra. Docente presso la School of Oriental and African Studies – University of London – SOAS. Ha pubblicato numerose opere che hanno visto la traduzione in diverse lingue, tra cui in italiano: Scontro tra barbarie. Terrorismi e disordine mondiale, edizioni Alegre, 2006; La guerra dei 33 giorni. Un libanese e un israeliano sulla guerra di Israele in Libano (con Michel Warschawski), edizioni Alegre, 2007; Potere pericoloso. Il Medio Oriente e la politica estera statunitense (con Noam Chomsky), edizioni Palomar, 2007.

2 Michel Aoun, cristiano maronita, tra il 22 settembre 1988 e il 13 ottobre 1990, nelle fasi terminali della guerra civile libanese, già capo di stato maggiore, ha presieduto un governo militare osteggiato dalla Siria e da altre fazioni combattenti.

Tornato in Libano nel maggio del 2005 dopo quindici anni di esilio a Parigi, Aoun guida il Movimento Patriottico Libero, che insieme a Hezbollah e Amal si oppone alla maggioranza parlamentare che sostiene l’esecutivo guidato da Fouad Siniora.

PALESTINESI E SHOAH

Ce cosa c’entra Hitler con il conflitto in Medio Oriente? È vero che tra il mondo arabo e il terzo Reich fu luna di miele in virtù del nemico comune ebraico-sionista? Perché ancora oggi Israele e i suoi nemici si accusano a vicenda di essere “come i nazisti”?

All’indomani della storica dichiarazione di Abu Mazen, il primo leader palestinese a riconoscere la Shoah come “il più atroce dei crimini”, ho incontrato Gilbert Achcar, autore di “Gli Arabi e la Shoah, la Guerra Arabo-israeliana delle Narrazioni”.

Il sessantatreenne intellettuale libanese è nel suo ufficio della “School of Oriental and African Studies” di Londra, dove è approdato dopo aver insegnato a Parigi e Berlino, con le pareti tappezzate da foto della primavera araba.

Professore, la dichiarazione di Abu Mazen è rivoluzionaria per il mondo arabo?

Rivoluzionaria mi sembra eccessivo, nel mondo arabo esiste una frazione di popolazione istruita che non metterebbe in dubbio una virgola di ciò che ha detto Abu Mazen. Tuttavia è molto importante perché arriva da un leader palestinese, che fra l’altro in passato aveva negato o perlomeno sminuito l’Olocausto, e in particolar modo perché in essa viene utilizzato il superlativo. La Shoah viene definita il crimine “più” atroce che sia stato commesso nell’era moderna, il che implica un riconoscimento della sua maggiore efferatezza rispetto alla Nakba (la “Nakba” è la “tragedia” palestinese del 1948, quando in 700.000 furono ridotti a rifugiati in seguito alla guerra d’indipendenza israeliana, ndr). La “guerra delle narrazioni” è anche una competizione per chi è più vittima, per stabilire quale parte rappresenti Davide e quale Golia. Non è facile per un Rais palestinese ammettere che la Shoah appartiene, come tragedia storica, a un ordine di grandezza superiore rispetto alla Nakba.

Quale fu il rapporto fra mondo arabo e Germania nazista?

La narrativa che descrive gli anni Trenta e i primi anni Quaranta come anni di luna di miele tra Hitler e i principali movimenti politici nel mondo arabo compie l’errore di generalizzare quello che fu effettivamente un rapporto di collaborazione tra Amin al Husseini (Gran Muftì di Gerusalemme tra il 1921 e il 1937, ndr) e il Fuhrer estendendolo a tutto il mondo arabo. Furono in molti a rapportarsi con la Germania nazista, ma bisogna distinguere fra i soggetti politici che lo fecero per opportunismo, cioè semplicemente seguendo il principio secondo cui “il nemico del mio nemico è mio amico”, e quelli che invece ne condividevano in una qualche misura l’ideologia come Amin al-Husseini. Lui era proprio antisemita, e compì viaggi sia a Berlino che a Roma. Ebbe un rapporto profondo col nazismo, ne sposò l’ideologia e si impegnò a diffondere la propaganda antisemita in lingua araba. Lungi dal limitarsi a lottare contro l’immigrazione ebraica in Palestina, era a conoscenza della “soluzione finale” e si dava da fare per promuoverla. In alcune lettere a un ministro ungherese lo invitava a spedire gli ebrei in Polonia, dove sarebbero stati “sotto controllo”.

Anche le falangi libanesi, colpevoli del massacro di Sabra e Chatila nell’82, ebbero legami con Hitler.

E’ indubbio che Pierre Gemayel, il leader delle falangi, trovò la sua ispirazione per la fondazione del suo movimento durante i trentaseiesimi giochi olimpici di Berlino ai quali assistette nel 1936. Le falangi però non possono essere additate in alcun modo come partito nazista: il movimento era più vicino al “fascismo clericale” di modello Franchista. E’ dalla Spagna, infatti, che trae origine il nome, non dalla Germania. I falangisti erano certamente di estrema destra, ma né nazisti né antisemiti, e in seguito diventarono duramente anti-palestinesi. L’unico gruppo che era davvero un clone del movimento nazista nel mondo arabo è stato il partito social-nazionalista siriano, una vera copia carbone del partito del Fuhrer. In tutto, compreso il simbolo che è una chiara imitazione della svastica.

L’altra questione affrontata dal libro è quella della strumentalizzazione politica della Shoah.

Lo scopo della “nazificazione degli arabi”, cioè l’esaltazione dei rapporti che ebbero con Hitler, è quello di giustificare la Nakba. Se i Palestinesi hanno avuto un ruolo di complici nella Shoah, allora non è più vero che con la Nakba hanno pagato colpe che erano solo degli Europei. Un esempio di questa tendenza è lo storico israeliano Benny Morris. Dopo aver portato a termine preziose ricerche storiche che hanno provato inoppugnabilmente i fatti della Nakba, all’inizio del terzo millennio Benny Morris è scivolato su posizioni di estrema destra e, seppur non rinnegando le sue precedenti ricerche sulla pulizia etnica, dai primi anni duemila ha cominciato a sostenere che l’espulsione di massa fosse giustificata perché i palestinesi erano come i nazisti e perché l’alternativa per gli israeliani era un secondo genocidio. Accusare l’avversario di essere “come i nazisti” è pratica comune nella retorica politica israeliana: più Israele si trova a dover fare i conti con il crescente deterioramento della sua immagine nell’opinione pubblica occidentale, più ricorre alla Shoah come anacronistico mezzo di difesa.

Anche la dichiarazione di Abu Mazen arriva in una fase in cui l’accordo con Hamas rende la sua posizione difficile.

Netanyahu in questo ha ragione, il fatto che le parole di Abu Mazen arrivino in questo momento ne diminuisce il valore perché sembra una mossa politica. Però lui è campione nell’utilizzare l’Olocausto per difendersi dalle critiche che gli vengono avanzate, ed è ben lungi dall’incarnare le lezioni che vanno tratte dall’esperienza della Shoah. Netanyahu presiede un processo di espropriazione coloniale, occupazione, discriminazione etnica. Pretendere di parlare nel nome delle vittime dell’Olocausto mentre si compie questo tipo di crimini equivale ad insultarle. La Shoah è nata proprio dalla caratterizzazione su base etnico-razziale di uno stato che si definiva “ariano”, e il suo governo insiste per definire Israele come “stato ebraico”, escludendo buona parte dei suoi stessi cittadini. La memoria dell’Olocausto non è appannaggio o proprietà di un singolo popolo, e gli insegnamenti universali che bisogna trarne invocano democrazia, umanesimo, vera uguaglianza. Se comprendi l’essenza dell’Olocausto, con le sue lezioni contro discriminazione e oppressione, allora capisci che chi deve invocarle sono le vittime, cioè i palestinesi.

Perché allora il negazionismo va per la maggiore nel mondo arabo?

C’è un impressionante livello d’ignoranza riguardo l’Olocausto perché i governi impediscono ogni tipo di insegnamento della Shoah nelle scuole. Questa scelta è figlia dell’idea infondata che se tu riconosci che l’Olocausto è avvenuto, allora riconosci la legittimità dell’esistenza dello stato d’Israele. Esiste inoltre una forma di “negazionismo di reazione” nel mondo arabo. Persone piene di risentimento per Israele e per quello che Israele fa ai palestinesi sfogano la loro rabbia negando l’Olocausto come se questo in qualche modo possa danneggiare il nemico. E’ un atteggiamento che io chiamo “l’antisionismo degli scemi”.

In apertura del libro lei cita il Vangelo di Matteo: “perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?”.

Penso che sia un precetto fondamentale, prima di criticare gli altri devi essere consapevole delle tue colpe. Chi accusa gli arabi per i loro rapporti con la Germania nazista, e ancora oggi li paragona ad essa, dovrebbe prima farsi un esame di coscienza. Non va dimenticato che mentre Israele ha avuto un ruolo diretto nella Nakba, insieme agli inglesi, e si ostina a negarla, i palestinesi come popolo non hanno avuto alcun ruolo nella Shoah. La dichiarazione di Abu Mazen è positiva nonostante le riserve legate alle circostanze politiche: riconoscendo le reciproche tragedie è possibile avviare un dialogo. Solo dopo aver fatto i conti con la trave del proprio occhio si può discutere della pagliuzza nell’occhio del vicino.

L’intrervista di Davide Lerner è stata pubblicato sull’Espresso n.19 del 16 maggio 2014, pag. 90 e 91

GLI ARABI E LA SHOAH: «COMBATTERE LE CARICATURE SIMMETRICHE»

Intervista di Olivier Doubre a Gilbert Achcar (pubblicata nella rivista francese Politis, 2-02-2010),

Olivier Doubre – Nell’Introduzione al suo libro (G. Achcar, Les Arabe et la Shoah, Sindbad/Actes/Sud] lei precisa di averlo scritto con «l’intenzione di combattere le caricature simmetriche» che spesso circolano sugli arabi nei confronti della Shoa. Di che cosa si tratta?
Gilbert Achcar – Queste caricature abbondano nella guerra di propaganda in corso tra fautori di Israele e filo-palestinesi o filo-arabi. La visione caricaturale diffusa dai sostenitori di Israele presenta gli arabi come se fossero stati in maggioranza filo-nazisti, e sfrutta in particolare la figura del fin troppo celebre muftì Amin Al-Husseinni, il cosiddetto “Muftì di Gerusalemme”. Costui, effettivamente, si è rifugiato nel 1941 presso le potenze dell’Asse, trascorrendo il resto della seconda Guerra mondiale tra Berlino e Roma, partecipando attivamente alla propaganda dell’Asse all’indirizzo dei mondi arabo e mussulmano e contribuendo tra l’altro a organizzare unità bosniache musulmane della Waffen-SS tedesca.
La caricatura, però, esagera notevolmente il reale ruolo del Muftì, attribuendogli una responsabilità diretta nel genocidio ebraico, e ne esagera soprattutto la rappresentatività o l’impatto sul mondo arabo, mentre molti elementi tangibili dimostrano in modo certo che le sue esortazioni hanno avuto in questo mondo scarse ripercussioni. Tanto è vero che l’esercito britannico ha avuto tra i suoi ranghi molti più arabi della sola Palestina di quanti non ne abbia avuti, provenienti dall’insieme dei paesi arabi, l’esercito tedesco. Sull’altro fronte, troviamo – e non stupisce – una tendenza apologetica, che cerca di trovare giustificazioni per l’atteggiamento del Muftì – cosa che io respingo con veemenza, perché non esistono circostanze attenuanti per la collaborazione in piena cognizione di causa a un’impresa genocida. Il Muftì infatti, nelle sue Memorie, non nasconde che era al corrente del genocidio nazista, perché riferisce che Himmler lo ha informato a Berlino, nell’estate del 1943, che erano già stati sterminati tre milioni di ebrei. Per questo io segnalo che la testimonianza del Muftì si può considerare una buona confutazione indiretta del negazionismo.

Lei giustamente affronta questo problema del negazionismo, attualmente presente sul versante arabo.
Pur non rappresentando, tutt’altro, l’insieme dell’opinione pubblica dei paesi arabi e neppure la maggioranza di questa, si nota effettivamente una recrudescenza di espressioni negazioniste sul versante arabo. Più che di uno sbocco antisemita, come è il negazionismo occidentale, le manifestazioni arabe sono, nella maggior parte dei casi, reazioni che potremmo definire epidermiche, cioè superficiali e istintive, alla «strumentalizzazione» – per riprendere l’espressione di Pierre Vidal Naquet – della Shoah fatta dallo Stato di Israele per legittimare se stesso e i propri atti, parando qualunque critica.
Si impone una distinzione tra gli atteggiamenti antiebraici che si possono trovare tra europei e che sono una pura e semplice abiezione, e manifestazioni antiebraiche di palestinesi che subiscono la tremenda oppressione che conosciamo, da parte di uno Stato che pretende di agire in nome del “popolo ebreo”. Nulla ovviamente giustifica qualunque forma di giudeo-fobia, ma i due atteggiamenti non si possono ragionevolmente mettere sullo stesso piano, come non si può mettere sullo stesso piano l’antisemitismo di uno slavo filo-pogrom e il razzismo anti-goyim di un perseguitato ebreo dello Shtetl, o il razzismo anti-Nero di un Bianco dedito al linciaggio e quello anti-Bianco di un oppresso Nero. Troppo spesso, invece, si proiettano i termini della storia europea su una situazione completamente diversa, come è quella dei palestinesi dei Territori. Respingendo ogni genere di visione caricaturale, io cerco di contribuire a una migliore comprensione reciproca, indispensabile per risolvere in modo pacifico ed equo il conflitto arabo-israeliano.
Nella prima parte del suo libro, lei passa in rassegna le varie posizioni politiche nel mondo arabo sulla questione ebraica e il regime nazista. Lei dimostra, allora, come le posizioni apertamente antisemite e favorevoli a una vera e propria collaborazione con i nazisti non fossero all’epoca quelle più numerose.
Come per qualsiasi popolazione presa nel suo complesso, le posizioni politiche sono molto diverse anche nel mondo arabo, checché ne dica la versione caricaturale che parla di un atteggiamento arabo al singolare.
Io ho distinto quattro grandi famiglie ideologiche all’interno del mondo arabo, all’epoca: l’occidentalismo liberale, i marxisti, i nazionalisti (sia di sinistra che di destra) e il panislamismo integralista e reazionario. Fra le prime tre, solo una frangia marginale appartenente al nazionalismo arabo di destra ha avuto affinità con la Germania nazista, mentre una tendenza più ampia del nazionalismo arabo, ad esempio il partito Baath, che arriverà al potere in Siria e in Iraq negli anni Sessanta, non ha avuto alcuna simpatia per i nazisti negli anni Trenta e Quaranta.
Soltanto il panislamismo integralista avrebbe sviluppato reali affinità ideologiche con il nazismo sul terreno dell’antisemitismo a partire dagli anni Venti, in rapporto all’inasprirsi delle tensioni tra ebrei e arabi in Palestina. Rachid Rida, che si può considerare il primo teorico dell’integralismo islamico moderno, elaborerà un discorso violentemente antiebraico riprendendo gli ingredienti dell’antisemitismo occidentale e mescolandoli con altri mutuati dal corpus islamico medievale – in cui si trovano elementi antiebraici, certamente, ma assai meno che nel corpus cristiano medievale. I suoi scritti diventeranno la matrice di un discorso che veicoleranno nel corso dei decenni successivi i Fratelli musulmani o altre correnti integraliste musulmane, la cui eco si ritroverà nella Carta di Hamas del 1988.

Che ne è, al «tempo della Nakba», del discorso di Nasser e di quello dell’OLP dopo la fondazione di Israele?
Il nasserismo è stato un’ideologia in costruzione permanente, a partire dall’avvento di Nasser al potere. Se si esplora la mole dei suoi discorsi e delle sue dichiarazioni non si trovano veramente espressioni antisemite. Tuttavia, a due riprese, in interviste ininterrottamente citate, ma che costituiscono più l’eccezione che non la regola, si vedrà Nasser, in un caso, consigliare la lettura dei “Protocolli dei Saggi di Sion” a un giornalista indiano e, nell’altra, avanzare un dubbio sul numero delle vittime del genocidio ebraico in un’intervista di un politico tedesco di destra. Si tratta di due manifestazioni rimaste isolate, e il fatto che in diciotto anni di potere Nasser abbia fatto solo due dichiarazioni di questo tipo sta a indicare come non si tratti di elementi centrali del suo pensiero. Nella sua cerchia c’erano molti intellettuali, buona parte dei quali di provenienza marxista, e sicuramente questi gli hanno sconsigliato con forza di ripetere dichiarazioni del genere.
Quanto all’OLP, anche qui, il ruolo degli intellettuali occidentali liberali o di sinistra vicini al marxismo sarà molto importante per contribuire a fare assumere dall’organizzazione il riconoscimento della Shoah e della questione ebraica europea, senza che questo nulla tolga all’intransigenza sulla questione palestinese. Uno di questi intellettuali è stato, soprattutto, Edward Said, che ha partecipato attivamente all’elaborazione di questa prospettiva, che considera che l’oppressione degli ebrei in Europa e il suo parossismo, il genocidio ebraico, costituiscano una lezione per l’intera umanità contro tutte le oppressioni xenofobe e razziste.
In proposito, va ricordato che Yasser Arafat, per cercare di riparare il torto arrecato alla causa palestinese dalla buona accoglienza riservata a Roger Garaudy in alcuni paesi arabi dopo la condanna in Francia per le sue posizioni negazioniste, aveva richiesto di visitare il Museo dell’olocausto a Washington. Ma la visita non si è potuta realizzare per l’ostilità della direzione del Museo. Alla fine Arafat ha visitato la casa di Anna Frank ad Amsterdam, e questo ha scatenato una polemica in Israele, mentre i media non hanno pubblicizzato molto la cosa in Occidente – come è accaduto anche per la mostra sulla Shoah organizzata dal villaggio palestinese di Niilin in Cisgiordania, epicentro della lotta contro il muro di separazione eretto da Israele. Si tratta, a mio avviso, di esempi rivelatori dell’immagine caricaturale del mondo arabo che si costruisce a furia di deformazioni e omissioni – rinviando in questo modo agli arabi un’immagine deplorevole di sé, con effetti nefasti e che è doveroso combattere.

(traduzione di Titti Pierini, 2 marzo 2010)

NEGAZIONE DELLA SHOAH…E NEGAZIONE DELLA NAKBA

Intervista a Gilbert Achcar di Eldad Beck (2°)

Questa intervista  è stata pubblicata dal quotidiano israeliano “Yedioth Ahronoth”, il principale quotidiano israeliano il 27 aprile 2010.

«Il fenomeno della negazione della Shoah nel mondo arabo è sbagliato, inquietante e danneggia la causa palestinese».
Nel suo nuovo libro, l’accademico franco-libanese Gilbert Achcar affronta per la prima volta gli atteggiamenti arabi nei riguardi della Shoah.
Gilbert Achcar ha lasciato il Libano nel 1983, durante la prima guerra di grande portata fatta da Israele nel suo Paese. Circa trenta anni più tardi, Achcar, professore di relazioni internazionali presso la School of Oriental and African Studies (SOAS) di Londra, militante di sinistra e per la pace, afferma che la guerra brutale tra Israele e i palestinesi in Libano ha segnato una svolta nello sguardo che il mondo arabo aveva verso la Shoah. Sostiene che i paragoni che il primo ministro israeliano Menahem Begin fece all’epoca tra Yasser Arafat e Hitler e tra i nemici di Israele e i nazisti hanno svalorizzato la Shoah e spinto molti in campo arabo a paragonare a loro  volta Israele ai nazisti e anche a pretendere che Israele abbia inventato la Shoah per giustificare la propria politica in Medio Oriente.
Il ricercatore francese di 59 anni ha pubblicato un nuovo libro in Francia, il cui titolo rivela il suo contenuto inconsueto: “Les Arabes et la Shoah”. In quest’opera, Achcar – che ha già pubblicato dei libri con il militante di sinistra statunitense Noam Chomsky e con l’israeliano Michel Warschawski – affronta per la prima volta un soggetto molto intenso: l’atteggiamento degli arabi nei riguardi della Shoah dall’arrivo dei nazisti al potere fino ad oggi. Il libro, che non evita gli aspetti più problematici della questione, è appena uscito in due edizioni arabe, a Il Cairo e a Beirut.
Achcar è nato in Senegal da una famiglia di emigrati libanesi, ma è cresciuto e ha studiato in Libano. «Ho frequentato un liceo francese in Libano e ho sentito parlare della Shoah molto presto. Sono un umanista. La Shoah è stata sempre molto importante per me». Qualche anno fa, gli hanno chiesto di scrivere un articolo per una pubblicazione accademica [Storia della Shoah, UTET] sul rapporto tra gli arabi e la Shoah. La ricerca che ha intrapreso per l’articolo l’ha portato a scrivere questa voluminosa opera sulla questione.
G. Achcar, che ha insegnato a Parigi e Berlino, inizia il suo libro con una citazione del vangelo di Matteo: «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?». In questa intervista con Yedioth Ahronoth, la prima che egli abbia mai rilasciato a un giornale israeliano, Achcar spiega: «La lezione di questa parabola è che prima di criticare gli altri, ci si dovrebbe chiedere cosa non va in se stessi». Egli prosegue chiedendo cosa non va in noi: «In campo israeliano, una serie di accuse sono state mosse contro il mondo arabo riguardo alla Shoah senza alcuna autocritica. Vi sono alcuni scrittori  israeliani talmente egocentrici che non riescono a capire che le loro accuse contro  il mondo arabo potrebbero essere ugualmente rivolte a Israele – talvolta a più forte ragione. Nondimeno la parabola si applica anche agli arabi, ben inteso. Nel mio libro, ho cercato di affrontare alcune vicende attuali che ritengo inaccettabili. Non difendo alcuno in modo acritico. Penso sia auspicabile avere uno sguardo critico verso il gruppo cui si appartiene prima di criticare gli altri».

Può essere più specifico?

G.ACHCAR: Riguardo al campo arabo, non ho alcuna simpatia per ciò che il Mufti di GerusalemmeHajj Amin al-Husseini, ha fatto durante la Seconda Guerra mondiale. Penso anche che la negazione della Shoah nel mondo arabo sia sbagliato, inquietante, e che danneggia la causa palestinese. Ma dal lato israeliano, come potete criticare la negazione della Shoah nel mondo arabo mentre anche Israele nega la Nakba palestinese?
Non sto paragonando l’espulsione del 1948 con la Shoah. La Shoah è stata un genocidio e una tragedia ben più grande della sofferenza palestinese dal 1948. Ma non sono gli arabi e i palestinesi che hanno commesso la Shoah, mentre Israele è responsabile della Nakba. Degli storici israeliani lo hanno dimostrato. Tuttavia, Israele continua a negare la sua responsabilità storica in questo dramma. L’ex ministro degli Esteri Tzpi Livni ha protestato presso il segretario generale delle Nazioni Unite per l’uso del termine Nakba, che in arabo significa «catastrofe». Come se si protestasse contro l’uso fatto da Israele del termine Shoah.
Nel mio libro, denuncio vigorosamente i negazionisti palestinesi e arabi, che oggi sono più numerosi che trenta o quaranta anni fa. Si tratta principalmente di una reazione provocata dalla rabbia piuttosto che negazionismo deliberato. Il palestinese o l’arabo che pretende che la Shoah sia stata inventata dai sionisti per giustificare le loro azioni reagisce all’uso della Shoah da parte di Israele per le proprie necessità
È una reazione stupida. Credo che la negazione della Shoah sia l’antisionismo degli imbecilli. Ma queste sono persone che negano un evento storico nel quale il loro popolo non ha svolto alcun ruolo. Invece, la negazione della Nakba da parte di Israele è molto più importante, perché è Israele che ne è stato responsabile. Quello è stato un momento decisivo nella fondazione di Israele. Anche altri Paesi si sono costituiti in circostanze simili, ma bisogna riconoscere la realtà e la responsabilità storica. L’oppressione attuale dei palestinesi aggrava la situazione.

Anche chi non è d’accordo con tutto ciò che scrive Achcar dovrà riconoscere che ha coraggiosamente affrontato una questione divenuta tabù nel mondo arabo in questi ultimi anni.

Suppongo che se l’argomento non mi fosse interessato non mi avrebbero chiesto di affrontarlo. Le persone che me lo hanno chiesto sapevano che capivo l’importanza storica della Shoah e che avevo la sensibilità necessaria per affrontare questa vicenda. Sapevo dall’inizio che era un argomento delicato e che tutte le parti in conflitto avevano un racconto diverso, soprattutto riguardo l’atteggiamento del mondo arabo verso la Shoah. C’è molta propaganda su questa questione. Avevo la sensazione che ci fossero descrizioni molto caricaturali delle posizioni storiche. Nel corso della ricerca, ho scoperto che è ancora peggio di ciò che pensavo, e che c’erano deformazioni sostanziali.

Lei afferma al di là di ogni equivoco nel suo libro che non vi è paragone tra la Shoah e la Nakba, contemporaneamente esiste un rapporto tra questi due eventi.

Il rapporto è evidente. Senza la Shoah e senza l’ascesa del Nazismo, non penso che il progetto sionista si sarebbe realizzato. Se osservate l’immigrazione in Palestina prima del 1933 e la flessione del numero di immigranti dopo lo scoppio degli moti del 1929, appare chiaro che senza il terribile fenomeno chiamato Nazismo e l’imperversare dell’antisemitismo in Europa, non vi sarebbe stata quella massiccia migrazione ebraica verso la Palestina che ha permesso la costituzione di Israele. L’ascesa di Hitler al potere e tutto ciò che è avvenuto durante la Seconda Guerra Mondiale hanno dato legittimità all’idea sionista. Dopotutto, il Sionismo era un’ideologia minoritaria tra le comunità ebraiche prima dell’ascesa del Nazismo. La gran parte degli ebrei europei non erano sionisti. Per di più, vi è stata l’ipocrisia del mondo occidentale che ha chiuso le porte ai rifugiati ebrei.
Vi sono degli accademici israeliani che sostengono che i palestinesi  abbiano una responsabilità  nella Shoah perché si sono rivoltati e hanno preteso che i britannici limitassero l’immigrazione ebraica in Palestina. Avrebbero così impedito a centinaia di migliaia di ebrei di immigrare in Palestina e causato il loro sterminio nella Shoah. Si tratta di un argomento molto tendenzioso. Perché rimproverare ai palestinesi di essersi rivoltati contro un progetto il cui scopo esplicito era di impiantare uno Stato straniero nel loro territorio e dimenticare che mentre i britannici restringevano l’immigrazione ebraica in Palestina, essi stessi avrebbero potuto permettere agli ebrei di immigrare nel loro Paese e in tante parti del vasto impero che controllavano?
Si potrebbe dire altrettanto degli Stati Uniti e di altri Paesi del mondo intero che presero parte alla Conferenza di Evian nel 1938 convocati dal presidente Roosevelt e che rifiutarono di accogliere dei rifugiati ebrei sul loro territorio. Sono questi che sono responsabili della Shoah e non i palestinesi. La Shoah ha creato le condizioni che hanno permesso la realizzazione del progetto sionista, progetto che non era possibile realizzare con metodi non violenti. È la realizzazione violenta del progetto sionista che ha creato la Nakba: questi sono i risultati di questi sviluppi.

La cooperazione di alcuni partiti arabi con i nazisti derivava da un’ideologia comune, o si trattava di una tattica politica nello spirito del detto secondo il quale: «il nemico del mio nemico è mio amico»?

Mi sembra evidente che per quel che riguarda il Mufti al-Husseini c’era una combinazione di opportunismo politico e affinità ideologica antisemita. Il Mufti non condivideva la visione del mondo a livello politico, sociale ed economico dei nazisti. Questi aspetti dell’ideologia nazista non lo interessavano. Invece, l’odio per gli ebrei e i britannici costituiva una base comune tra questi e i nazisti. Non era organicamente nazista, ma piuttosto collaboratore dei nazisti. Egli ha sviluppato un odio per gli ebrei che convergeva con l’antisemitismo nazista. Egli, d’altronde, non lo ha nascosto. Nelle sue Memorie, recentemente pubblicate, esprime una visione del mondo chiaramente antisemita.

Come spiega l’accoglienza calorosa che ha ricevuto nel mondo arabo dopo la Seconda Guerra mondiale?

L’idea che il Mufti avrebbe ricevuto un’accoglienza trionfale nel mondo arabo è un mito. Il fatto che i palestinesi l’abbiano trattato come un dirigente nazionale perseguitato dai loro nemici – i britannici e il movimento sionista – è una cosa. Ma se lei considera la sua influenza reale nel mondo arabo, anche durante la guerra, vedrà che questa era molto limitata. Il Mufti ha trascorso il suo tempo a Berlino e a Roma esortando i palestinesi e gli arabi a unirsi all’Asse italo-tedesco contro gli Alleati e sicuramente contro il movimento sionista. Si stima che solo 6.000 arabi si sono uniti alle diverse organizzazioni armate della Germania nazista.
Nello stesso periodo, 9.000 palestinesi arabi hanno combattuto al fianco dei britannici. Un numero ancora più elevato di arabi hanno prestato servizio nelle Forze alleate, compreso un quarto di milione di nordafricani che hanno combattuto nei ranghi gollisti. L’influenza reale del Mufti è stata quindi trascurabile. Oggi il Mufti è poco considerato nel mondo arabo. È stato associato alla sconfitta anche prima che lo lasciasse per l’Europa: la sconfitta della rivolta in Palestina, quella della rivoluzione mancata contro i britannici in Iraq.
Il fatto che egli abbia scelto il campo dei tedeschi ha contribuito al rifiuto nei suoi riguardi, anche tra i nazionalisti arabi.

Allora perché, si chiede Achcar, il Mufti riceve una simile attenzione in Israele?

Israele e il movimento sionista non avevano una risposta all’affermazione dei palestinesi che se la Shoah era stata qualcosa di terribile, essi non ne erano responsabili e non vi era, quindi, alcuna ragione perché pagassero per gli atti commessi dagli europei. Allora i sionisti hanno presentato il Mufti come fosse la prova che i palestinesi erano complici della Shoah. Così si è costruito il racconto che presenta gli arabi come complici dei nazisti, che permette di dire che la guerra del 1948 era l’ultima battaglia della Seconda Guerra mondiale contro i nazisti. Ma questa narrazione non regge alla prova dei fatti storici. È propaganda.

Ma la collaborazione non è limitata al Mufti. Molti criminali nazisti hanno trovato rifugio nei Paesi arabi e diversi partiti arabi, come il Baas, si sono ispirati all’ideologia nazista.

Non esistono prove che il Baas sia stato influenzato ai sui inizi dall’ideologia nazista. Anche il tentativo di presentare il Baas e il suo fondatore, Michel Aflak, come nazisti è propaganda. Aflak è stato influenzato dalla sinistra ed era in contatto con comunisti e marxisti che si opponevano al Nazismo. L’unico elemento probatorio contro di lui è che nella sua biblioteca aveva una copia della traduzione francese di un’opera di Alfred Rosenberg [il principale ideologo del movimento nazista e autore del suo programma razzista – E. B.]. Ciò equivale a dire che chiunque avesse una copia del Mein Kampf a casa era un nazista. Coloro che leggono dei libri non sono per forza d’accordo con il loro contenuto. Se lei parla del Baas degli anni ’60 e ’70, il Nazismo non esisteva più. Se il partito Baas iracheno di Saddam Hussein ha potuto usare degli argomenti antisemitici, ciò non aveva rapporto con il Nazismo.
Vi è effettivamente un certo numero di ex nazisti che hanno trovato rifugio nel mondo arabo, in Egitto e in Siria. Contemporaneamente, con l’eccezione di Alois Brunner [braccio destro di Eichmann], che si è rifugiato in Siria, tra questi non vi era alcun dirigente nazista che fosse stato parte della macchina di sterminio. Ma perché questo argomento è usato contro gli arabi, mentre degli amici di Israele, iniziando dagli Stati Uniti, hanno dato rifugio a dei nazisti e sostenuto l’emigrazione di criminali molto più importanti di coloro che hanno trovato rifugio nel mondo arabo?

L’assenza di dibattito sul collaborazionismo con i nazisti nel mondo arabo ha un impatto sulla negazione della Shoah nei diversi settori della società araba e musulmana?

L’accresciuta tensione fra Israele, gli arabi e i palestinesi nel corso degli ultimi  anni ha radicalizzato le posizioni di entrambi i campi. Ma neanche Hamas ha mai creato delle brigate in nome del Mufti al-Husseini. Non vi sono neanche missili o strade che portano il suo nome. Non interessa alcuno. L’eroe di Hamas è Izz el-Din al-Qassam. Bisogna capire questo per non lasciarsi ingannare dalla propaganda.
D’altronde, se la gente si interessasse veramente al Mufti, non vi sarebbe negazione della Shoah.
Al-Husseini non era un negazionista. Nelle sue Memorie racconta che Himmler gli disse, nel 1943, che la Germania stava sterminando gli ebrei  e ne aveva già ucciso tre milioni. Il Mufti scrive con soddisfazione che gli ebrei hanno pagato un prezzo più alto di quello che dovettero pagare i tedeschi e che un terzo del giudaismo mondiale aveva trovato la morte. Egli, così, conferma il numero conosciuto delle vittime della Shoah.
Il negazionismo odierno nel mondo arabo deriva prima di tutto dall’ignoranza. Bisogna contemporaneamente distinguerlo dal negazionismo in Occidente, dove costituisce un fenomeno patologico. In Occidente, queste persone sono dei malati mentali, sostanzialmente antisemiti. Nel mondo arabo, il negazionismo che esiste fra alcune correnti dell’opinione pubblica, ancora minoritarie, deriva dalla rabbia e dalla frustrazione provocate dall’aumento della violenza israeliana, che si accompagna ad un accresciuto uso della Shoah. Ciò è iniziato con l’invasione del Libano del 1982.
Menahem Begin ha abusato della memoria della Shoah, compreso in politica interna. È questo che ha spinto delle persone nel mondo arabo a reagire nella maniera più stupida che esistesse, dicendo: se Israele cerca di giustificare le sue azioni riferendosi alla Shoah, allora questa deve essere una esagerazione o un’invenzione della propaganda. Più c’è violenza, più troverà questo genere di reazione, perché si tratta di una sfida simbolica e non di qualcosa di più profondo.

Lei afferma anche che gli arabi che paragonano Israele ai nazisti reagiscono al paragone fatto da Israele tra i dirigenti arabi e Hitler.

La tendenza a vedere nazisti dappertutto porta alla banalizzazione di questi ultimi. Hitler è una figura storica talmente negativa che è assurdo paragonargli il Presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad. Si può pensare ciò che si vuole del Presidente dell’Iran, ma il suo Paese non ha campi di concentramento, come non è in procinto di perpetrare un genocidio. L’Iran è una società in conflitto politico; non è una società totalitaria come la Germania nazista. Il paragone con i nazisti e Hitler è molto frequente anche in Israele. Ben Gurion ha paragonato Begin a Hitler. L’estrema destra ha distribuito delle immagini di Rabin nell’uniforme da SS. Gli israeliani vedono Hitler dappertutto: Nasser, Saddam Hussein, Arafat, Nasrallah. Allora perché sorprendersi che gli arabi facciano lo stesso? Si tratta evidentemente di oltranzismi politici inutili.

Come si potranno superare i numerosi ostacoli se in campo arabo non si riconosce la sensibilità di Israele verso la Shoah?

Questa sensibilità è compresa in campo arabo. Non bisogna vedere gli arabi come un blocco monolitico. Sicuramente, esistono delle correnti che non lo comprendono, ma questa non è la posizione della maggioranza. Prenda per esempio Arafat, che è stato demonizzato completamente. Dopotutto, negli anni ’70, l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) ha iniziato un serio sforzo per comprendere questa vicenda. Quando il negazionista francese Roger Garaudy è stato accolto con tutti gli onori nel mondo arabo, Arafat comprese il danno che ciò avrebbe recato alla causa palestinese. Allora chiese di visitare il Museo dell’Olocausto a Washington. Dato che l’amministrazione del museo rifiutò di accoglierlo con i riguardi dovuti al suo rango, lui si sentì insultato e annullò la visita. Egli ha visitato nello stesso periodo la casa di Anna Frank a Amsterdam. Ora, salvo che in Israele, la stampa non ne ha quasi parlato.
Persone come Edward Said e Mahmud Darwish comprendevano in pieno la sensibilità israeliana verso la Shoah. Bisogna smetterla di fare la caricatura dell’immagine del nemico, ciò avvelena l’atmosfera. Le garantisco che se Israele avesse un altro atteggiamento verso il mondo arabo e i palestinesi, un atteggiamento di pace, questi fenomeni, che si sono rafforzati negli ultimi anni, sparirebbero molto rapidamente.
09/11/10

I SIONISTI CRISTIANI

Eichmann, Adenauer, i sionisti cristiani: la logica dell’appoggio anti-semitico allo stato di Israele

di Gilbert Achcar
28 novembre 2012

David Goessmann: ci parli del suo libro “Gli Arabi e l’Olocausto: la guerra arabo-israeliana delle narrazioni”. Di che cosa tratta questa “Guerra delle narrazioni”?

Gilbert Achcar:Ebbene, la guerra delle narrazioni ruota attorno il modo in cui si narra la nascita dello stato di Israele. La narrazione principale è quella che ho citato. Ce ne sono diverse varianti, ma fondamentalmente, Israele è presentata come una specie di redenzione dai crimini del nazismo e dal resto. e questo è il motivo per cui Israele continua a dire che l’Occidente ha responsabilità di appoggiare Israele. Perciò la replica all’antisemitismo storico, e naturalmente al nazismo, è il sionismo, è lo stato di Israele, e questo è quanto. Gli Arabi sono i continuatori del nazismo in questo tipo di narrazione, perché hanno rifiutato Israele. La loro lotta contro lo stato di Israele è una specie di ultimo episodio della seconda guerra mondiale. Questa è la narrazione, Ora, naturalmente, dal lato arabo e palestinese, la narrazione è completamente diversa. Prima di tutto non inizia con l’anti-semitismo in Europa, comincia con il sionismo, con l’inizio della colonizzazione sionista in Palestina. Il punto di svolta cruciale per la narrazione araba è la dichiarazione Balfour. Lord Balfour, nel 1917, nel nome di [sua] maestà, in nome della Gran Bretagna la quale doveva controllare la Palestina dopo la prima guerra mondiale, ha dato via libera a un processo coloniale che ha portato alla nascita di Israele come stato coloniale, come la Rodesia o altri simili stati di coloni bianchi che si sono formati in Africa. La percezione nel mondo arabo è che Israele è della stessa natura di quelle nazioni. Direi che c’è la necessità di colmare in parte questa grossa dicotomia presente nelle narrazioni, nel senso che, malgrado quello che ho detto sul ruolo del movimento sionista, non si dovrebbe dimenticare che il sionismo era una delle molte risposte all’anti-semitismo. Voglio dire che l’anti-semitismo è ciò che ha creato il sionismo come unica risposta. Ci sono altre riposte; come sapete, il sionismo per molto tempo, fino a quando il nazismo ha ottenuto il potere, era un movimento di minoranza tra gli ebrei europei. E’ diventato molto più forte dopo, a causa del nazismo e del resto. Attirava come se fosse una specie di conferma della prospettiva sionista. Questo va tenuto bene in mente. C’è una tendenza nel mondo arabo a dimenticare questo aspetto. E, naturalmente, nella forma più caricaturale ed estrema, porta anche delle persone a reagire a Israele e agli usi che esso fa dell’Olocausto. Reagiscono con la negazione dell’Olocausto che è un atteggiamento completamente folle e stupido. Dico folle e stupido perché coloro che credono che questo sia anti-sionismo, assumendo queste posizioni, di fatto alimentano l’ideologia sionista e il progetto sionista. L’intera guerra delle narrazioni, che ho riassunto in poche quattro parole, è quello che analizzo dettagliatamente nel libro.

David Goessmann: Lei dice che per i Tedeschi ci sono due modi di ricavare delle lezioni dal genocidio nazista degli ebrei europei. La prima è: “Mai più a loro, gli Ebrei”, e l’altra soltanto: “Mai più”. Ci parla delle implicazioni di queste lezioni?

Gilbert Achcar: non sono, penso l’unico che dice questo, e moltissimi pensatori, filosofi, politologi ebrei che criticano il sionismo, lo hanno detto. In effetti si possono trarre due tipi di lezioni dall’Olocausto, se ne può trarre un tipo di lezione particolaristica, limitata. Naturalmente non c’è da discutere sul fatto che il genocidio nazista degli ebrei, degli ebrei europei, sia stato un enorme crimine, uno dei più grossi crimini perpetrati dai nazisti. Non è stato il più grosso numericamente perché il numero di persone uccise sul fronte russo era maggiore, ma in proporzione alla popolazione, naturalmente, paragonabile a Roma, che ha avuto il suo genocidio. Allora, o si isolano soltanto gli ebrei da tutto questo e si dice “Mai più agli ebrei”, oppure “Mai più a noi, gli ebrei”, Quindi se si è ebrei particolaristi, con una prospettiva etnica, si dirà “Mai più a noi” e basta, e non ci importa del resto. O se si è tedeschi, per esempio, della gente dice “Mai più a loro, gli ebrei” perché questa è la nostra grossa vergogna, quella per la quale abbiamo dovuto esprimere la colpa in modo molto più continuo, negli anni, fin dalla seconda guerra mondiale. A proposito, c’è un libro di un professore israeliano, Frank Stern, sull’occultare la stella gialla, che spiega come il filo-semitismo nella Germania del dopo guerra, era diventato un modo di insabbiare il passato nazista integrandolo nel sistema occidentale, della Germania Ovest. Quindi questo è un modo di considerare l’Olocausto. L’altro modo che è proposto da un sacco di pensatori ebrei, ancora una volta, è la prospettiva universalistica. Si deve capire che l’Olocausto non è solo una tragedia per gli ebrei, è una tragedia per l’umanità, in un certo senso. Ci sono delle lezioni universali che si possono trarre e sono: “Mai più”. Mai più questo tipo di sistema, questo tipo di segregazione totalitaria, razzista, di discriminazione, di oppressione e di uccisone e di genocidio che abbiamo visto in quell’epoca. E se si traggono lezioni di questo genere, allora si combatte contro l’oppressione razzista, contro la negazione del diritto all’auto determinazione, contro le occupazioni dovunque, anche se sono fatte da uno stato che pretende di essere uno stato ebraico.

David Goessmann: Il Cancelliere tedesco Konrad Adenauer, aveva dichiarato, durante visita privata in Israele nel 1966: “Anche io facevo parte del movimento sionista”. In uno dei suoi libri anche lei cita la dichiarazione antisemita di Adenauer sul “potere degli Ebrei”. Secondo lei questo è un esempio di ciò che lei descrive come un atteggiamento filo-semitico per il quale la Germania Ovest – come ha detto -credeva nell’Occidente e in un più ampio schema imperialista aggressivo. Ci spiega che cosa intende dire?

Gilbert Achcar: Cito anche un’ottima riflessione di Eleonore Sterling, storica dell’anti-semitismo, importante esperta del problema. Anche la sua famiglia è stata vittima dell’Olocausto. Ha detto che il filo-semitismo è in realtà una specie di antisemitismo al contrario. E quello che hanno in comune, il filo-semitismo e l’anti-semitismo, è l’incapacità di considerare gli ebrei come persone che non sono normali. Trattare gli ebrei come persone che non sono normali. O si odiano in modo anormale o si amano, o si difendono in modo anormale. Il punto cruciale, quando si parla dell’affermazione di Adenauer sul suo essere stato sionista è che è stato sionista nello stesso modo; posso sembrarle offensivo, le spiegherò che cosa intuendo dire. Sa chi altro ha detto “Ero un sionista”?

David Goessmann: No.

Gilbert Achcar: Adolf Eichmann. Durante il suo processo a Gerusalemme, ha affermato:” Ero in sionista”. Esattamente così. Che cosa intendeva dire? Voleva dire, con quella affermazione, che naturalmente volevamo liberarci degli ebrei, volevamo una “Germania depurata dagli ebrei”, [in tedesco nel testo], e fino al 1941, prima della cosiddetta “soluzione finale” [in tedesco nel testo], i nazisti espellevano, deportavano gli ebrei. La politica era di espellerli. Lo stesso Hitler, e questo Ian Kershaw e altri storici del nazismo lo hanno spiegato molto chiaramente, desideravano moltissimo che gli ebrei venissero mandati in Palesino e soltanto in Palestina. Non voleva che gli ebrei tedeschi andassero negli Stati Uniti, perché là potevano premere su quella nazione e sulla Gran Bretagna per farli entrare o per farli agire contro la Germania nazista; questo era prima dell’inizio della guerra. Fino al 1941 questa era la linea politica messa in atto. E perciò davvero volevano liberarsi degli ebrei, e hanno collaborato con il movimento sionista. Adesso esiste un libro in tedesco scritto da un professore di studi sull’Olocausto dell’Università del Vermont, Francio Nicosia, che tratta del nazismo e del sionismo, del rapporto tra loro; è un libro molto erudito che nessuno può accusare o sospettare di alcun tipo di pregiudizio. Quando si legge, però, si rimane realmente costernati e sorpresi dalla portata di questa collaborazione, di cui le gente sa poco. L’unica organizzazione politica non nazista che restava in Germania dopo che i nazisti avevano preso il potere, era il movimento sionista. era tollerato, accettato, per la collaborazione nel mandare là la gente. Spesso cito la mia esperienza personale: quando ho cominciato a rendermi conto di questi argomenti e problemi. Era il 1967 e in quel periodo andava a scuola a Beirut, la capitale del Libano, il paese da cu provengo. Ricordo che quell’anno ho avuto una discussione con un mio compagno di scuola francese. Frequentavo il ginnasio francese, come quelli che sono qui [in Germania, n.d.t.] e questo compagno francese difendeva Israele per la guerra del 1967 e abbiamo avuto una discussione accesa. E l’argomento che mi forniva per spiegare il motivo per cui era un sostenitore di Israele, è una cosa che non ho mai dimenticato. Ha detto:”sai, non voglio, in nessun momento della mia vita, lavorare per un principale ebreo. Voglio che gli ebrei vadano a Israele. Ecco perché appoggio Israele.” Potete quindi vedere che c’è una forma di appoggio al sionismo che è anti-semitica. la gente vuole liberarsi degli Ebrei, vogliono che se ne vadano dall’ Europa e dagli Stati Uniti e dicono: “Bene, lasciate che vadano a Israele”. Il fatto che una delle principali forze della lobby filo-israeliana negli Stati Uniti sono i cosiddetti Sionisti-Cristiani. Fondamentalmente la loro ideologia è anti-semitica: verrà il momento dell’estasi e tutti questi ebrei abbandoneranno il giudaismo e diventeranno cristiani.
Questo è il genere di ideologia che hanno. e, tuttavia, sono i più devoti sostenitori di Israele.

Traduzione di Maria Chiara Starace

MAI PIU’

Mai più (a proposito del caso della poesia di Gunter Grass)

di Gilbert Achcar – 3 maggio 2012

Per una persona di stirpe ebrea ci sono due modi per ricavare lezioni dal genocidio nazista degli ebrei d’Europa: uno porta ad affermare “Mai più contro di noi, gli ebrei” e l’altro “Mai più” tout court.

La prima conclusione nasce da un’ottica strettamente etnica, rovesciando la prospettiva nazista schierandosi con “gli ebrei2 contro il resto del mondo. In entrambi i casi “gli ebrei” sono identificati come un gruppo particolare di persone con caratteristiche straordinarie: mentre i nazisti li consideravano l’incarnazione del male al punto di tentare di annientarli, i detentori della prospettiva etnocentrica ebraica ritengono che la difesa degli interessi “ebraici” – che, come ogni genere di interessi collettivi (nazionali, di classe, o di qualsiasi altro tipo) sono un concetto molto discusso, con rara unanimità su cosa ciò significhi – è un valore che prevale su ogni altro. Nel nome della loro difesa finiscono per negare l’umanità delle vittime di Israele, l’asserito “stato degli ebrei”, proprio come la maggioranza degli oppressori nel corso della storia ha negato l’umanità delle sue vittime.

La seconda conclusione – “Mai più” tout court – è l’unico vero ripudio della Weltanschauung nazista: non la sua inversione simmetrica, bensì un rifiuto radicale i presupposti sottostanti. Implica la consapevolezza che ciò che è accaduto agli ebrei è accaduto, in forme diverse e su scala diversa, a popoli diversi nel corso della storia e accadrà ancora e ancora fintanto che le ideologie della superiorità razziale ed etnica e dell’odio razziale troveranno il modo di incarnarsi in forze armate superiori.  Per quanto specificamente orrendo sia stato il genocidio nazista degli ebrei, esso fa parte di una lunga serie di genocidi, che, tristemente, è proseguita dopo la fine della seconda guerra mondiale.  Perciò la lezione di Auschwitz deve essere compresa da una prospettiva radicalmente antinazionalista, antirazzista e anti-etnocentrica, come esempio tragico della necessità di difendere risolutamente i valori della libertà, dell’uguaglianza e dell’umanesimo nella lotta contro ogni forma di oppressione individuale e collettiva.

Analogamente, per una persona arruolata nell’impresa nazista in qualsiasi momento tra il 1933 e il 1945, o per un discendente di un genitore nazista, o per ogni tedesco o austriaco – poiché la maggioranza della popolazione dei due paesi aderì alla prospettiva nazista fino alla sua sconfitta – ci sono due modi di ricavare una lezione dal genocidio nazista degli ebrei d’Europa: una porta a dire “Mai contro di loro, gli ebrei” e l’altra a dire “Mai di nuovo”, tout court.

La prima conclusione nasce da un senso di colpa nei confronti delle vittime specifiche dei nazisti senza un chiaro ripudio delle dimensioni generali del loro crimini e della loro ideologia. Così, essa rovescia la prospettiva nazista schierandosi con “gli ebrei” contro i loro nemici, quali che essi possano essere e dovunque possano essere. L’antisemitismo viene così sostituito dal “filosemitismo”. Come lo storico dell’antisemitismo, Eleonore Sterling, i cui genitori furono assassinati in un campo di concentramento durante la seconda guerra mondiale, ha affermato, in modo molto adatto, sul Die Zeit vent’anni dopo la fine della guerra:

“L’antisemitismo e la più recente adorazione degli ebrei hanno molto in comune. Sono entrambi sintomatici di una sorta di ipotermia di complesse relazioni umane e deriva da una incapacità mentale di rispettare davvero l’ “altro”. Gli ebrei restano stranieri sia per gli antisemiti sia per i filosemiti.” (1)

Mentre i nazisti hanno considerato “gli ebrei” l’incarnazione del male, i detentori tedeschi della prospettiva filo semita ritengono che difendere “gli ebrei” – che considerano rappresentati dallo Stato d’Israele, nonostante il fatto che tale rappresentazione sia fortemente contestata da un gran numero di persone di discendenza ebraica – sia un dovere che ne supera ogni altro.  Nel nome di tale dovere essi finiscono per appoggiare gli atti di oppressione compiuti dal governo d’Israele contro il popolo palestinese e plaudono alla fornitura di mezzi di sterminio di massa allo stato d’Israele. Lo fanno, inoltre, in un periodo in cui il governo d’Israele è dominato da forze che gli stessi fondatori dello stato d’Israele non esitarono a definire fasciste né a paragonarle ai nazisti, per quanto oltraggioso possa essere tale paragone. (2)

Nella seconda conclusione – “Mai più”, tout court – i tedeschi si uniscono a persone di discendenza ebraica e davvero a ogni essere umano che considera questo principio come superiore come superiore a ogni gruppo nazionale, etnico o “razziale”, in una lotta comune per i valori umani universali. I sostenitori di questi valori, d’altro canto, che si tratti di tedeschi o ebrei o appartenenti a qualsiasi altra etnia (o siano ritenuti appartenere) ritengono che il loro dovere morale consiste nel lottare contro l’insieme centrale di idee esclusiviste e nazionaliste che caratterizzarono il nazismo e nell’ammonire contro qualsiasi progetto di infliggere una punizione collettiva a qualsiasi popolo nel nome della difesa di un altro, che si tratti del “popolo ebraico” o di qualsiasi altro.

Gunter Grass ha scelto quest’ultimo cammino, piuttosto in ritardo, come egli stesso ha riconosciuto. Il vasto clamore di quelli che lo hanno attaccato in Germania per aver espresso verità elementari a proposito della responsabilità in cui lo stato tedesco incorre per la possibile perpetrazione di un atto di distruzione di massa da parte dello stato d’Israele, in forza del suo appoggio militare per la capacità di aggressione nucleare da parte di quest’ultimo, dimostra soltanto che c’è ancora un lungo cammino da percorrere prima che tutti i tedeschi assimilino correttamente e completamente le lezioni del loro terribili passato recente.

NOTE

(1) Eleonore Sterling, „Judenfreunde — Judenfeinde. Fragwürdiger Philosemitismus in der Bundesrepublik”,[Amici degli ebrei, nemici degli ebrei.  Filosemitismo ambiguo nella Repubblica Federale”. Die Zeit, n°50, 10 December1965 – disponibile su Internet presso http://www.zeit.de/1965/50/judenfreunde-judenfeinde

(2) Vedere, ad esempio, l’opinione di David Ben-Gurion su Menahem Begin, il fondatore del Likud, attualmente il partito al governo in Israel, come riferito nell’eccellente ‘The Seventh Milion. The Israelis and the Holocaust’ [Il settimo milione. Gli Israeliani e l’Olocausto], di Tom Segev

traduzione di Giuseppe Volpe

 

IN RICORDO DI MAXIME RODINSON

A dieci anni dalla sua scomparsa.

Intervista realizzata da Gilbert Achcar nel 1986, inedita in Italia, pubblicata in inglese nelle rivista Middle East Report, Washington, n. 233, Winter 2004 .

Con la morte di Maxime Rodinson, avvenuta il 23 maggio 2004 all’età di 89 anni, scompariva une delle ultime grandi figure appartenenti ad una eccezionale tradizione di islamologi occidentali – quella dei Régis Blachère, Claude Cahen e Jacques Berque, solo per citare dei francesi come lui. Rodinson apparteneva a quella cerchia di autori con un approccio pionieristico, che hanno decodificato il terreno degli studi islamici ponendoli al livello di altre scienze sociali, essendosi anch’essi affrancati dai principali difetti dell’ «orientalismo» colonialistico ed essendo sensibili alla causa delle popolazioni musulmane contro la dominazione occidentale [1]. Autori (ancora) non corrotti dalla mediatizzazione ad oltranza della «competenza», divenuta attrice privilegiata della società dello spettacolo, nella nostra epoca in cui l’Islam ha ricoperto nell’immaginario occidentale, sotto forma di integralismo e di terrorismo, il ruolo di nemico privilegiato.

Maxime Rodinson si distingue, tra i suoi pari, per l’applicazione al mondo musulmano di una griglia di lettura critica marxiana. Il suo rapporto con Marx è d’altronde all’origine alla grande molteplicità di tematiche e interessi che  caratterizzano la sua opera e fanno sì ch’essa non sia confinata ai soli studi islamici. Il suo apporto teorico copre infatti i campi più generali della ricerca storica o sociologica del solo «mondo musulmano», in dialogo permanente con l’ispirazione marxiana che non ha mai rinnegato. Una dimensione non meno importante dell’opera di Rodinson è quella che specificamente si concentra sul conflitto israelo-arabo: il suo articolo «Israël, fait colonial?», apparso nel numero speciale di Les Temps modernes dedicato al dibattito acceso dalla guerra del giugno 1967, ha costituito un contributo fondamentale alla definizione di una critica di sinistra del sionismo [2].

La riflessione di Rodinson sull’ «integralismo islamico» si pone, totalmente, sotto la stessa ispirazione marxista: sia per ciò che riguarda il suo approccio analitico, allo stesso tempo fondamentalmente «materialistico» e comparativo, sia per ciò che riguarda il suo atteggiamento politico, in cui la comprensione (nel senso più profondo del termine) dei meccanismi del risveglio di questa ideologia politico-religiosa non impedisce comunque all’ateo sostanzialmente anticlericale di non provare alcuna simpatia verso di essa [3].

L’intervista che segue è stata realizzata nel 1986 (non ricordo più la data esatta), nell’appartamento parigino di Maxime Rodinson, tra le pile di libri che coprivano il pavimento, non trovando più posto sugli scaffali che ricoprivano i muri. Ho ricostruito le sue risposte a partire dalle note quasi stenografiche che avevo preso durante l’ascolto della registrazione (andata persa) – prescindendo dalle mie domande e dai miei interventi – con lo scopo di pubblicare l’intervista in una rivista in gestazione che non è mai nata. La morte del grande pensatore mi ha spinto a riprendere questo lavoro e a pubblicarlo come un omaggio, tanto più che le sue risposte, come si potrà verificare, conservano, oltre alla attualità, una certa originalità in rapporto alla sua opera già nota. – G.A.

[1] Si veda la sua descrizione dell’evoluzione degli studi islamici in La fascination de l’Islam (1980, 1999).

[2] Articolo ripreso in  Peuple juif ou problème juif? (1981)

[3] Si possono trovare le principali riflessioni di Maxime Rodinson sull’integralismo islamico contemporaneo in L’Islam : politique et croyance (1993), completato dalla lettura di De Pythagore à Lénine : des activismes idéologiques (1993).

Maxime Rodinson: sull’integralismo islamico

Nella categoria di «integralismo islamico» – la definizione non è la migliore, ma quella di «fondamentalismo» lo è ancor meno; quanto al termine «islamismo», esso genera confusione con l’Islam; «Islam radicale» non è poi così male, ma nessuna definizione corrisponde esattamente all’oggetto — è possibile raccogliere tutti i movimenti che pretendono che l’applicazione integrale dei dogmi e delle pratiche dell’Islam, compreso in campo politico e sociale, porterebbe la comunità musulmana, se non addirittura il mondo intero, verso uno Stato armonioso, ideale, riflesso della prima comunità musulmana idealizzata, quella di Medina tra il 622 e il 632 dell’era cristiana.

In questo c’è una similarità con un’ideologia politica laica come il comunismo, secondo la quale l’applicazione integrale delle soluzioni formulate dal fondatore deve condurre ad una società armoniosa, senza sfruttamento né oppressione. Invece, non vi è alcun elemento ideologico simile nel cristianesimo: gli integralisti cristiani pensano che l’applicazione integrale dei precetti del Cristo renderebbe tutti buoni e gentili, ma non cambierebbe per forza la struttura della società.

Ciò attiene alla differenza profonda tra la genesi del cristianesimo e quella dell’Islam. I cristiani, all’inizio, formavano una piccola «setta», un raggruppamento ideologico intorno a una figura carismatica, in una provincia periferica di un vasto impero, l’Impero romano, dotato di un’amministrazione impressionante. Questa piccola setta non poteva avere all’inizio la pretesa di formulare un programma politico e sociale. Non era né l’intenzione di Gesù, né quella dei primi padri della Chiesa per due o tre secoli.

Prima che l’imperatore Costantino dichiarasse, nel 325, che questa Chiesa (in latino ecclesia, ossia «assemblea») doveva essere religione di Stato, quest’ultima aveva avuto il tempo di costruire un apparato ideologico ben rodato. In questo, anche dopo Costantino, verrà mantenuta la tradizione di due apparati distinti, quello dello Stato e quello della Chiesa, che potevano essere in simbiosi o alleati, e spesso lo sono stati (l’alleanza tra la spada e il pastorale, il cesaro-papismo, ecc.); ma che possono anche entrare in conflitto (la lotta tra il Sacerdozio e l’Impero, Luigi XIV e Filippo Augusto scomunicati, ecc.). Vi sono anche esempi protestanti di Stato-Chiesa (Ginevra nel XVI° secolo,  il Massachusetts nel XVII° secolo), ma queste rappresentano delle eccezioni nella storia del cristianesimo.

L’Islam è nato in una immensa penisola al di fuori del campo della civiltà romana, dove vivevano alcune decine di tribù arabe, completamente autonome solo con alcune strutture in comune: la lingua, alcuni culti, il calendario, delle fiere e delle gare di poesia. Nel suo periodo di Medina (dal 622 fino alla sua morte nel 632) Mohammad (Maometto) era considerato come il dirigente supremo, a un tempo politico e religioso. Egli era il capo religioso, in rapporto con Dio, ma anche capo della comunità, non sottomessa alla legge romana. Egli regolava le controversie, otteneva la raccolta dei tributi e rispondeva alle necessità di difendersi e, all’occorrenza, di attaccare – che all’epoca era il modo di vita dominante in questo mondo senza lo Stato dell’Arabia. In questo modo è possibile trovare, alle origini dell’Islam, una fusione tra politico e religioso in un unico apparato – almeno in teoria, poiché quando sarà creato il vasto impero islamico, si imporrà la specializzazione delle funzioni.

La separazione della religione dallo Stato è contraria all’ideale dell’Islam, ma non alla sua pratica, poiché ci sono sempre stati degli apparati di ulema specializzati: i giudici nell’Islam appartengono all’apparato religioso, con competenze diverse rispetto ai giudici in diritto romano in Occidente. In questo caso, d’altronde, è possibile trovare un legame forte con il giudaismo, dove, come nell’Islam, gli uomini di religione, i rabbini, non costituiscono un clero sacro, ma sono dei saggi (la sinagoga, il beit midrash è un luogo di studio), come gli ulema.

Oggi permane l’ideale nato a Medina di un’unica autorità politica e religiosa. È vero che è raro trovare un caso simile a quello dell’Islam in altre comunità politico-ideologiche – salvo il comunismo dopo il 1917, che ha conosciuto degli scismi come l’Islam e dove le autorità politiche determinano la dottrina tanto sui problemi teorici che l’ideologia primaria. Ma mentre il comunismo è un modello proiettato nel futuro, l’integralismo islamico aderisce a un modello reale, ma vecchio di quattordici secoli. È un ideale indefinito. Quando agli integralisti musulmani si chiede: «Voi, sostenete, di avere delle soluzioni che superano il socialismo e il capitalismo», essi rispondono con esortazioni molto vaghe, sempre le stesse, che possono trarre origine da due o tre versetti – in genere, mal interpretati – del Corano o del Hadith.

Il problema non si poneva all’epoca del Profeta, perché nessuno pensava di cambiare la struttura sociale: si prendevano le cose come venivano. Mohammad non ha mai detto qualcosa contro lo schiavismo (come Gesù non ha mai detto qualcosa contro il lavoro salariato). Certo, l’idea di una comunità sociale organizzata con delle gerarchie esiste nel Corano, ma ciò è del tutto normale per l’epoca. Mohammad si situa nella società, mentre Gesù si situa al di fuori di essa. L’Islam, come il confucianesimo, s’interessa allo Stato, mentre le dottrine di Gesù o di Buddha sono [delle dottrine] morali, basate sulla ricerca della salvezza personale.

L’integralismo islamico è un’ideologia nostalgica. I movimenti integralisti musulmani non tentano, nel modo più assoluto, di sconvolgere la struttura sociale, se non come obiettivo del tutto secondario. Essi non hanno modificato le basi della società, né in Arabia Saudita, né in Iran. La «nuova» società che i «rivoluzionari islamici» hanno costruito assomiglia in maniera stupefacente a quella che hanno appena abbattuto. Io sono stato rimproverato, nel 1978, quando avevo affermato, in modo molto moderato, che il clericalismo iraniano non lasciava prevedere alcunché di buono. Io sostenevo «nel migliore dei casi, Khomeini sarà Dupanloup, nel peggiore Torquemada». Purtroppo, si è realizzato il peggio.

Quando si è incalzati dalla storia, si è costretti a prendere  delle decisioni. Allora si formano delle correnti politiche: sinistra, destra, centro. Sotto l’influenza europea, il mondo musulmano ha preso in prestito molte soluzioni dall’Occidente, liberal-parlamentari o socialiste marxisteggianti. Alla fine si è rimasti alquanto disgustati da tutto questo: il parlamentarismo portava al potere proprietari fondiari, il socialismo le caste amministrative militari e altre. Allora si è voluti tornare alla vecchia ideologia «meglio il nostro»: l’Islam. Ma l’influenza europea ha lasciato delle tracce profonde, in particolare l’idea che i governanti debbano essere ispirati dai governati, in generale attraverso il voto. Questa è un’idea nuova nel mondo musulmano: così la prima cosa che ha fatto Khomeini è stata quella di organizzare delle elezioni e una nuova costituzione.

Riguardo alle donne, è possibile rintracciare nell’Islam un intero arsenale tradizionale a favore della superiorità maschile e della segregazione [femminile]. Una delle ragioni del fascino seducente dell’integralismo un po’ dappertutto, è che degli uomini che sono spogliati dei loro privilegi tradizionali dalle ideologie moderniste, sanno che, nella società musulmana per come essi la propongono, possono avvalersi di argomenti sacri a favore della superiorità maschile. Questa è una delle ragioni –  che molto spesso viene nascosta, ma che è profondamente radicata, e che d’altronde talvolta è inconscia – della diffusione dell’integralismo islamico: le esperienze modernizzanti andavano nella direzione di concedere più diritti alle donne, e questo esasperava un buon numero di uomini.

Nel 1965, mi ero recato ad Algeri: era l’epoca in cui Ben Bella faceva degli sforzi prudenti per promuovere l’uguaglianza delle donne. Un’organizzazione femminile ufficiale, che non era fasulla come quella di oggi, teneva un congresso nella capitale. All’uscita dal congresso, Ben Bella aveva appena preso la testa di una manifestazione di donne nelle vie di Algeri. Dai due lati, sui marciapiede, degli uomini disgustati fischiavano, gridavano battute, ecc. Sono convinto che tutto questo ha avuto un ruolo nel colpo di Stato di Boumedienne e abbia spinto molta gente a guardarlo con simpatia.

L’integralismo islamico è un movimento temporaneo, transitorio, ma può durare trenta o cinquant’anni – non so. Là dove non è al potere, resterà come un ideale, fino a quando vi sarà questa frustrazione di fondo, quest’insoddisfazione che spinge le persone a impegnarsi fino all’estremo. Occorre avere una lunga esperienza del clericalismo perché si arrivi ad averne disgusto: in Europa, c’è voluto non poco tempo! Questo periodo resterà a lungo dominato dagli integralisti musulmani.

Se un regime integralista islamico  subisse dei fallimenti ben visibili e sfociasse in una tirannia manifesta, una gerarchizzazione abietta e subisse dei fallimenti anche sul piano del nazionalismo, questo potrebbe far avvicinare molta gente all’alternativa che denuncia questi difetti. Ma occorrerebbe un’alternativa credibile, entusiasmante e stimolante, e ciò non sarà facile.

Traduzione di Cinzia Nachira

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