Pubblichiamo alcune interviste rilasciate a ilmanifesto da Sami Zubaida, storico dell’Università di Birckbeck, che riteniamo possano aiutare a capire le complesse dinamiche politiche in Turchia e nel Medio Oriente. Sami Zubaida è autore di testi importanti per la comprensione del Medio Oriente, tra questi citiamo “Islam, il popolo e lo stato: idee politiche e movimenti.”
13.10.2015«Ankara tra golpe e governo di coalizione»
Dopo i gravi attentati di Ankara. Qual è la strategia di Erdogan in vista del voto del primo novembre?
Colpire i kurdi in termini elettorali galvanizza i nazionalisti turchi e potrebbe far aumentare i voti del partito di Erdogan (Akp). Questa strategia sta sfuggendo di mano e potrebbe non funzionare. Il Partito democratico dei Popoli (Hdp) potrebbe mostrarsi come vittima del terrorismo di stato. Non bisogna mai sottostimare però il sentimento anti-kurdo tra i nazionalisti turchi contrari a qualsiasi tipo di separazione o autonomia dei kurdi. Queste esplosioni non diminuiscono il sentimento anti-kurdo nell’elettorato nazionalista. Negli anni passati anche la sinistra nazionalista ha sedimentato un sentimento anti-kurdo. E così il nazionalismo turco è anti-kurdo anche a sinistra e vede nella forza di Hdp una minaccia all’unità territoriale turca.
Chi sono i veri responsabili degli attentati di Ankara: elementi di Akp con lo stato profondo (inclusi i Servizi segreti)?
È possibile. La sola certezza fin qui è che si sia trattato di un attentato suicida. Se fosse completa responsabilità dello Stato islamico (Isis) ci sarebbe già stata una rivendicazione. D’altra parte, è possibile che si sia trattato di un’azione congiunta delle forze di sicurezza e dello stato profondo. Eppure non è credibile che questi elementi colpiscano loro stessi come è avvenuto ad Ankara. A mio avviso, le responsabilità devono essere ricercate tra gli islamisti turchi.
Come nelle sparatorie di Diyarbakir dello scorso giugno potrebbe essere responsabilità degli Hezbollah kurdi?
Gli Hezbollah kurdi sono fortemente contrari a Pkk e Hdp. Sono anni che assassinano e attaccano kurdi laici e di sinistra. Se lo stato profondo e Akp sono coinvolti in questo attentato, lo hanno organizzato in cooperazione con islamisti radicali, come Hezbollah. Non avrebbero potuto fare da soli.
Questi attacchi potrebbero rafforzare la base elettorale di Hdp in vista del voto?
Ormai Hdp è diventato il rifugio per ogni turco laico, liberale e di sinistra, contrario ad Erdogan. I kurdi conservatori che prima votavano per Akp ora votano per Hdp. Una parte centrale del voto che ha permesso la vittoria elettorale (del partito filo-kurdo, ndr) il 7 giugno scorso è venuto dai conservatori.
Quale è lo scenario in caso di sconfitta di Erdogan?
Lo scenario possibile oscilla tra un colpo di stato e un governo di coalizione. Akp sarà sempre il primo partito turco e non potrà certo stare fuori dal governo. Il partito di Erdogan dovrà trovare un accordo con i kemalisti (Chp) e i nazionalisti (Mhp) per formare un nuovo governo, soprattutto in un contesto di così alta tensione politica.
Che ruolo avrà il Pkk che ha dichiarato il cessate il fuoco?
C’è un disaccordo tra i leader del Pkk in merito a cosa fare in questa fase. Il gravissimo attentato di Suruç ha dato un pretesto a Erdogan per attaccarli. Questo ha provocato una grave spaccatura nella leadership del partito.
C’è una relazione tra la guerra civile siriana e gli attentati?
L’intervento russo in Siria preoccupa moltissimo i turchi perché sta azzerando il loro piano di stabilire una zona di controllo in Siria dove operare liberamente. Le autorità turche continuano a combattere contro i kurdi perché il Pkk vuole arrivare a controllare il confine tra Turchia e Siria.
Come stanno agendo gli Usa?
Gli Stati uniti non hanno una politica coerente in Medio oriente: reagiscono agli eventi. Pare ci sia un tacito accordo tra Washington e Mosca che va contro gli interessi turchi. Gli Stati uniti appoggiano la Turchia attraverso la Nato. Anche Washington ora sa che le cose non possono andare avanti così e cerca una soluzione politica temporanea per unire gli sforzi contro Isis.
La Turchia può aggiungersi alla lista degli stati falliti, come Siria e Libia?
No, la tradizione statale e le istituzioni turche sono forti. Non esiste nessuna possibilità remota di fallimento dello stato turco. La Turchia non è la Siria.
27.7.2015 «Erdogan vuole arrivare a elezioni anticipate»
Come valuta la creazione di questa «safe-zone» tra Turchia e Siria?
È il primo passo per stabilire una zona di controllo turco in territorio siriano. La necessità è tenere sotto controllo il flusso di rifugiati. Gli Usa hanno opposto resistenza a questo progetto, ora le autorità turche potranno controllare le attività delle forze siriane. E possono colpirle quando vogliono. Ein questo modo non sarà necessario attaccare i kurdi siriani.
Le autorità turche stanno colpendo lo Stato islamico (Isis) o il partito dei lavoratori kurdi (Pkk)?
Fin qui le autorità turche sono state indulgenti con Isis. Hanno permesso l’apertura del confine tra Turchia e Siria rendendo possibile che armi e miliziani del gruppo arrivassero in Siria e Iraq. Non solo, hanno permesso ai jihadisti di contrabbandare il petrolio estratto nelle città da loro controllate e di farlo arrivare in Turchia. Eppure Erdogan è stato sorpreso dal grave attentato di Suruç e ha deciso di colpire Isis. Di certo Ankara non vuole dare una mano ai kurdi o a quello che chiamano terrorismo kurdo. Colpire il Pkk è importante per le dinamiche turche dopo la vittoria elettorale del partito del Popolo (Hdp). Attaccandolo si può andare a nuove elezioni in un contesto di richiamo al nazionalismo turco che può portare beneficio al partito di Erodgan.
Per Akp è importante colpire l’Isis?
Le autorità turche sono state fin qui estremamente ambigue. Colpire il regime di Bashar al-Assad e i kurdi è stato fin qui più importante che combattere l’Isis. Hanno così tollerato la presenza dei jihadisti in territorio turco fino all’attacco di Suruç. A questo punto non è tanto importante che bombardino Isis ma fino a che punto metteranno in sicurezza il confine poroso tra Turchia e Siria. Per i calcoli politici di Erdogan, Isis è utile perché tiene alta la minaccia sugli sciiti e al-Assad. Qualcosa come lo Stato islamico deve esistere. Sono stupefatto che Isis abbia orchestrato l’attacco di Suruç innescando la reazione turca.
Questo attacco contro il Pkk segna la fine del processo di pace?
Il processo di pace negli ultimi anni non è avanzato. Era in piedi un cessate il fuoco ma senza progressi veri nel negoziato. Se non c’è volontà di riprendere il processo di pace, si può considerare come concluso. Erdogan lo fa per vantaggi elettorali: punta a elezioni anticipate. I politici di Akp e anche chi appoggia Fetullah Gulen (sheykh in esilio negli Usa, ndr) sono contro il nazionalismo kurdo. Attaccando il Pkk, Erdogan crede che i voti dei nazionalisti torneranno ad Akp.
Fino a che punto colpendo il Pkk Erdogan punta ad impaurire la base elettorale della sinistra kurda turca di Hdp?
I due partiti hanno radici comuni. Non sappiamo fino a che punto Hdp è legato all’apparato militare del Pkk. La principale fonte del successo elettorale di Hdp è il voto dei kurdi conservatori che hanno voltato le spalle al partito di Erdogan. Il calcolo politico del presidente turco è che combattendo contro il Pkk questi voti possono tornare al suo partito.
Perché i kurdi iracheni di Barzani non sono insorti contro gli attacchi turchi alle basi del Pkk in Iraq?
Barzani ha sempre avuto una posizione ambigua sul Pkk. I kurdi iracheni dipendono dagli aiuti economici turchi. In altre parole hanno bisogno di Ankara più che del Pkk. Ma di certo non possono fare appello al nazionalismo kurdo se si mostrano nemici del Pkk. Per questo preferiscono mantenere la loro ambiguità.
Pensa che tutto questo sia una conseguenza dell’accordo sul nucleare raggiunto nelle scorse settimane a Vienna con l’Iran?
Sì, ha aperto possibilità che prima non c’erano, di coinvolgere l’Iran in azioni coordinate nella regione. Potrebbe favorire la soluzione della guerra civile in Siria. L’intesa riflette la decisione degli Stati uniti di non continuare a isolare l’Iran. L’Arabia Saudita non è più così importante, da fornitore di petrolio è diventato un acquirente di armi, è meno preoccupante di un tempo e questo rafforza l’Iran e avvia un processo di cambiamento delle alleanze di Stati uniti e occidente. Di sicuro porterà a un riavvicinamento tra Stati uniti e Russia.
13.4.2015 «Iran isolato per troppo tempo»
Quali potrebbero essere gli effetti sulle divisioni tra sunniti e sciiti dell’accordo preliminare sul nucleare?
Tutte le principali crisi regionali coinvolgono anche l’Iran. Gli ayatollah hanno un’influenza tale che se si vuole ottenere qualcosa prima di tutto bisogna negoziare con loro. Certo i sauditi non lo vorrebbero.
Il riavvicinamento tra Tehran e Stati uniti potrebbe risolvere le crisi regionali?
I sauditi vedono il riavvicinamento tra Stati uniti e Iran come una minaccia. L’amministrazione Obama invece lo considera come una possibile soluzione su vari fronti. Se l’accordo sul nucleare va in porto, gli Stati uniti inizieranno a fare accordi sistematici con l’Iran. Sauditi e israeliani sono preoccupati di questo. Per questo Netanyahu ha cercato in tutti i modi di influenzare i negoziati per il nucleare
Questo determinerà una più estesa influenza iraniana sulla regione?
L’Iran è stato isolato per troppo tempo. Ma soprattutto dopo la guerra in Iraq ha stabilito un’influenza nella regione che prima era limitata all’alleanza con il regime siriano e al ponte con Hezbollah in Libano. Da quel momento, l’Iran ha costruito una rete di influenza e di controllo nella regione.
Dopo l’arresto di due presunti ufficiali delle guardie rivoluzionarie ad Aden, crede che i legami tra autorità iraniane e Houthi in Yemen si stiano rafforzando?
I mullah sciiti controllavano il paese negli anni Sessanta. L’Arabia Saudita ha iniziato ad estendere la sua influenza imponendo in Yemen la scuola salafita, wahabita che fino a quel momento era aliena nel paese. Sono nate istituzioni e opere caritatevoli come risultato di questo. Ma l’antagonismo tra sunniti e sciiti è stato solo ora trasformato in scontro confessionale. I leader Houthi andarono in Iran negli anni Settanta ma solo per una visita politica. Non hanno mai scelto la strada della Repubblica islamica.
Perché ora questo antagonismo è stato esasperato tanto da sfociare in una guerra?
A esasperare questo antagonismo è stato il sostegno saudita al partito dei Fratelli musulmani in Yemen (al-Islah). Questo dimostra che i sauditi sostengono e oppongono la Fratellanza in relazione allo spazio e al tempo. Per esempio quando i Fratelli musulmani in Egitto erano contro Nasser, i sauditi li sostenevano. Ora appoggiano al-Islal in Yemen. Ma l’impressione è che non sia un partito forte.
Pur senza un legame organico con l’Iran, gli Houthi sembrano molto forti, è così?
Gli Houthi sono sostenuti dall’Iran ma rispetto ad Iraq e Siria non esiste un collegamento organico. Gli Houthi non hanno le stesse caratteristiche di sciiti iracheni e siriani. Nel caso yemenita il settarismo sciiti contro sunniti è diretta responsabilità dell’Arabia Saudita e del suo opportunismo. Per il momento gli Houthi hanno successo soprattutto grazie al sostegno dell’ex presidente Abdallah Saleh. Per questo il popolo yemenita non difende il regime e non sembra contro gli Houthi e così i sauditi e i loro alleati bombardano il paese. Saleh continua ad essere molto forte.
Si può fare un parallelo con il sostegno tra Stato islamico e Baath in Iraq?
Il sostegno che lo Stato islamico (Is) ha trovato nel Baath in Iraq ha seguito un meccanismo molto diverso. I baathisti erano marginalizzati, Saleh è molto potente.
Anche al-Qaeda in Yemen è molto forte…
Sì, quale sia il suo peso rispetto allo Stato islamico (Is) è difficile dirlo. In Yemen Is è un brand non un’organizzazione importante. E spesso si sovrappone ad al-Qaeda nella Penisola araba (Aqap) che combatte contro gli sciiti e il governo.
Si può fare anche su questo un parallelo con l’Iraq?
Non si può paragonare la presenza di Is in Iraq e in Yemen. In Iraq hanno occupato un gran territorio ed è stato molto difficile scacciarli. In Siria e Iraq l’Is controlla istituzioni territoriali, in Yemen si rafforzeranno se continueranno a cementare i loro legami con al-Qaeda. Il punto strategico è il controllo del porto di Aden. Una ragione per cui i sauditi sono intervenuti è il legame con gli iraniani. Il risultato è un altro paese in rovina mentre la soluzione politica si allontana sempre di più.
Ci sono differenze tra gli attacchi di Nasser in Yemen e quelli di al-Sisi?
Al-Sisi si presenta come Nasser ma non lo è. Nasser in Yemen combatteva contro i sauditi ora l’Egitto appoggia l’Arabia Saudita. Al-Sisi persegue una politica aggressiva. In Libia non avviene lo stesso che in Yemen. Per l’Egitto, intervenire in Libia significa controllare il suo confine occidentale, fermare i traffici delle organizzazioni jihadiste, insomma in quel caso ci sono interessi in tema di sicurezza nazionale che non ci sono in Yemen.
8.10.2014 Il legame Pkk-kurdi siriani terrorizza Erdogan
Perché la Turchia non interviene con la coalizione anti-Isis?
Il governo di Ankara non fa molto contro l’Isis, è profondamente contrariato che le rivolte in Medio Oriente non siano andate verso un risveglio islamico che avrebbe favorito gli interessi turchi. È stato coinvolto in campagne anti-sciite ma allo stesso tempo non vorrebbe i jihadisti di Isis ai suoi confini. I turchi non stanno nella coalizione anti-Isis con il pretesto che i jihadisti tengono diplomatici turchi in ostaggio. È una scusa, in verità non vogliono essere coinvolti.
Così è solo conflitto settario?
Ora il conflitto è apertamente settario e più polarizzato che mai. La divisione settaria tra sciiti e sunniti è diventata una questione regionale e generale dopo l’inizio della guerra civile siriana. I poteri regionali sono stati fortemente interventisti in Siria e per estensione in tutta la regione. I gruppi militanti sono apertamente sunniti e anti-sciiti.
E dopo la battaglia di Kobane in Siria, anche i kurdi si dividono.
I kurdi sono stati colti di sorpresa, non sono ben equipaggiati, non sono preparati, non hanno un comando unificato, sono divisi tra i gruppi controllati da Massud Barzani, governatore della regione autonoma del Kurdistan iracheno, e dal Partito democratico unito in Siria (Pyd). Molti combattenti kurdi, spesso commercianti, sono soldati part-time. Ma adesso uno stato kurdo iracheno è possibile.
Sembra compatto invece il fronte Pkk-Pyd?
Le forze kurde combattenti siriane sono affiliate del Partito dei lavoratori kurdi (Pkk), ma scontano la diffidenza tra Barzani e Abdullah Ocalan (leader Pkk in prigione) e la contrarietà del governo turco che sarebbe pronto ad accettare l’indipendenza del Kurdistan iracheno ma non a chiudere un occhio sull’affiliazione tra Pkk e kurdi siriani.
Come è possibile che continuino ad arrivare finanziamenti all’Isis nonostante i raid aerei?
Le milizie salafite sono state finanziate dall’Arabia saudita, in stretto coordinamento con gli Stati uniti. Sebbene il governo saudita abbia paura di loro, i donatori sauditi vogliono continuare a uccidere gli sciiti e sono felici dell’avvento di Isis contro il regime sciita iracheno, e che combatta anche in Siria. L’establishment saudita a livello governativo dice di voler combattere i jihadisti dentro la coalizione internazionale ma businessmen ed establishment religioso vedono la battaglia contro gli sciiti ancora determinante.
Mentre l’Iran continua a combattere l’Isis in Iraq?
I principali combattenti in Iraq sono le milizie sciite organizzate dall’Iran. Il capo delle brigate al Quds, Qassem Suleimani, è stato in Iraq a guida delle milizie sciite. Lui coordina le milizie sciite in Iraq e Siria. Con il successo spettacolare di Isis, dopo la presa di Mosul, gli iraniani hanno realizzato che dovevano trovare alternative al premier Nuri al-Maliki e ci sono riusciti perché i gruppi politici al potere in Iraq sono molto più fluidi che in Siria. Il regime iraniano è poi impegnato, come quello turco, a contenere il nazionalismo kurdo con un tacito accordo con il Partito dell’Unione kurda in Iraq di Jalal Talabani perché non attraversi mai i confini iraniani.
Quali meccanismi hanno condotto l’Iraq al collasso?
Molta responsabilità dell’avanzata dello Stato islamico è della politica di al-Maliki, dopo la sconfitta di al-Qaeda in Iraq. Il premier iracheno ha iniziato a perseguitare le forze tribali che avevano combattuto al-Qaeda. Nel suo regime i ministeri si dividevano — con le risorse — su base elettorale, tra sciiti, sunniti e alcuni kurdi. Tutto è andato rubato, a cominciare dai proventi del petrolio. Per clientelismo e corruzione, il governo è stato paralizzato. Dal 2011, i sunniti sono stati gradualmente esclusi da queste spartizioni.
29.11.2013 “Erdogan come Putin”
«Piazza Taksim somiglia più all’opposizione a Putin che ai movimenti di piazza Tahrir o Occupy», assicura al manifestolo storico dell’Università di Birkbeck, Sami Zubaida. «Esistono dei punti di contatto con le rivolte nel mondo arabo: i gruppi sociali coinvolti (giovani, educati, secolari, di classe media, urbani), le richieste (libertà, dignità, difesa dell’ambiente). Ma le differenze sono evidenti: i movimenti in Medio oriente sono contro dittatori, arrivati al potere con colpi militari, con una base elettorale limitata. Il premier turco Erdogan invece ha un grande seguito nel popolo turco, soprattutto nella penisola anatolica. Ci sono paralleli con i movimenti europei, ma in questo caso il governo turco è più autoritario. Per questo, il dissenso di Istanbul è simile all’opposizione al premier Vladimir Putin in Russia. Erdogan controlla il dissenso (un gran numero di giornalisti sono in prigione), e i media nazionali non parlano delle proteste. Il regime ha messo sotto controllo il sistema giudiziario e l’esercito: il governo controlla i centri di potere e non ha rivali. Non solo, per l’ampia base elettorale, non ha neppure bisogno di formare coalizioni per governare.
Nonostante le iniziative legislative dell’esecutivo, il potere dell’esercito turco resta esteso?
No, dal momento che non può più minacciare un colpo di stato ha perso le prerogative che aveva negli anni Novanta, come difensore del Kemalismo. Per le pressioni, che sono venute soprattutto dall’Unione europea, l’esercito turco non è più il controllore del governo.
Invece, cresce una spinta sindacale, di sinistra e di opposizione alla gestione della crisi siriana in piazza Taksim?
In Turchia esiste il conflitto sociale. Il capitalismo reale e politiche neo-liberali hanno dato benefici solo ad alcuni settori della popolazione. E proprio questo ha motivato la protesta: dall’intenzione di sacrificare lo spazio pubblico (eliminare un parco) per lo sviluppo degli interessi della proprietà affaristica (costruire un centro commerciale). Anche la sinistra turca è presente in piazza, ma la maggioranza dei manifestanti non è organizzata politicamente. D’altra parte, la sinistra degli anni Settanta è stata disattivata dal colpo di stato del 1981 e da allora non si è ancora ripresa. Ma i più duri oppositori di Erdogan sono gli Alevi (20% della popolazione turca): una minoranza oppressa, vicina ai partiti di sinistra, ai kurdi, e di ispirazione sciita. Gli alevi fanno fronte comune con gli Alawiti siriani (minoranza di cui fa parte il presidente Assad, ndr) contro l’alleanza sunnita.
Le proteste sono un’opposizione alle politiche economiche del partito Sviluppo e Giustizia di Erdogan (Akp)?
Ci sono varie categorie di capitalisti turchi: le vecchie classi di industriali, che hanno costruito imperi aziendali, sfidate da piccole imprese, soprattutto in Anatolia. Proprio tra le “tigri dell’Anatolia”, che controllano imprese agricole e tecnologiche, nelle zone rurali della penisola, nei piccoli centri di provincia si trova la nuova borghesia che è la colonna vertebrale dell’Akp. Lo scontro è stato innescato dalle politiche di Erdogan che ha usato il suo potere per dare una nuova forma alla società e vendicarsi sui kemalisti, con il drastico controllo su beni simbolici, come alcool e divertimenti: punti forti della borghesia secolare.
Eppure l’Akp gode ancora di ampio sostegno popolare. Erdogan farà concessioni alla piazza?
Sarei sorpreso se Erdogan concedesse qualcosa alla piazza. Il premier non vuole mostrare cedimenti. L’unico punto debole di Erdogan potrebbe essere determinato dalla perdita del sostegno del movimento religioso conservatore Gülen, di Fetullah Gülen, che nasce proprio dal risentimento rurale verso le metropoli. E dalle critiche del presidente Abdallah Gül o da spinte interne al suo partito che potrebbero portare ad un parziale cambiamento delle politiche dell’Akp.
Ma agli Stati Uniti non piace questa deriva autoritaria in Turchia.
La Turchia è un alleato essenziale per gli Stati Uniti, ufficialmente democratico, aperto al business. Preoccupano gli spettri autoritari del regime che non possono far piacere agli Usa che vedono nella Turchia una componente essenziale dell’alleanza sunnita con Arabia Saudita e Qatar.