LO PORTO REGENI: QUALE GIUSTIZIA

di Cinzia Nachira.

Il 23 aprile 2015  le autorità statunitensi annunciavano pubblicamente che tre mesi prima Giovanni Lo Porto, cooperante siciliano, molti dei suoi 39 anni trascorsi in giro per il mondo in zone di conflitto, era stato ucciso da un drone statunitense. Il governo italiano, in quell’occasione, non sentì il bisogno di andare al di là di condoglianze formali alla famiglia, che per tre anni e mezzo aveva aspettato che Giovanni fosse liberato dai suoi sequestratori. Nessuna delle indicazioni della Farnesina era stata violata dalla famiglia di Lo Porto e quando tutti loro pensavano che si fosse alla vigilia della liberazione è arrivata non solo la notizia dell’assassinio, ma anche che per tre lunghi mesi tutti avevano mentito. I responsabili del governo italiano e di quello statunitense sapevano certamente che Giovanni Lo Porto e Warren Weinstein erano tenuti prigionieri in quel compound talebano al confine tra Pakistan e Afghanistan, dove c’erano anche dei capi di Al Qaeda.

In quell’occasione non fu fatta alcuna campagna per chiedere che fossero chiarite tutte le circostanze e le responsabilità dell’assassinio dei due ostaggi. Nessuno in Italia sentì la necessità di lanciare campagne pubbliche con lo slogan “Verità per Giovanni e Warren”.

A queste due persone ed alle loro famiglie è tornato il pensiero in questi mesi in cui, giustamente, è iniziata la campagna per avere completa verità su ciò che è avvenuto a Giulio Regeni. A ben vedere i due casi, le due persone e le loro tragiche morti hanno molti punti in comune. Entrambi erano giovani che, pur partendo da situazioni diverse, avevano scelto di vivere in altri Paesi, in nazioni dove il conflitto e la povertà erano il pane quotidiano. Entrambi erano, malgrado la loro giovane età, ben consapevoli di essere in Paesi “a rischio”. Tutti e due sono stati uccisi da apparati statali “amici” dell’Italia. Sia Giovanni che Giulio sono stati accusati di essersela andata a cercare. Le differenze tra le due vicende si sintetizzavano brevemente nel fatto che per Giulio Regeni l’opinione pubblica italiana si era mobilitata al fianco della famiglia.

Nella vicenda di Giovanni Lo Porto, invece, ben poca indignazione provocarono le parole di Barack Obama, che con una dichiarazione, che aveva dell’incredibile, il 23 aprile 2015 si assumeva l’intera responsabilità dell’accaduto: “A nome degli Stati Uniti chiedo scusa a tutte le famiglie coinvolte. Come presidente e comandante in capo mi assumo la responsabilità di tutte le operazioni antiterrorismo, compresa questa”. Quindi, il comandante in capo Barack Obama chiedeva scusa, ma contemporaneamente definendo quel bombardamento “un’operazione antiterrorismo” chiudeva la questione e annunciava  che gli Stati Uniti non avrebbero rinunciato ad altre operazioni simili. Erano tutti avvisati: nessuno avrebbe pagato per l’assassinio di Giovanni Lo Porto e Warren Weinstein, perché l’uso sconsiderato dei droni, che da anni mietono vittime civili ben più di quanti colpevoli colpiscano, rientrava nel “contrasto al terrorismo” e quindi era chiaro che non poteva essere rimesso in discussione. Oltre questo desolante panorama di ipocrisie, la famiglia Lo Porto ha dovuto sopportare l’onta del governo italiano che affermava di non essere a conoscenza del fatto che Giovanni era rimasto vittima di un barbarico atto di terrorismo di Stato – è difficile definire altrimenti l’uso dei droni.

Nelle ore immediatamente successive alla notizia, data con tre mesi di ritardo (quando evidentemente non era più possibile tacerla), Domenico Quirico, intervistato dal suo stesso giornale La Stampa rilasciava una dichiarazione che ben sintetizzava non solo la sua personale indignazione (in quanto ex ostaggio sapeva bene ciò che diceva), ma descriveva anche il contesto in cui quell’assassinio era avvenuto.

Io non ho conosciuto lo sventurato, povero Lo Porto. Ho conosciuto la madre di Lo Porto, una donna che ha aspettato per tre anni e mezzo che qualcuno le restituisse il figlio e glielo riportasse a casa. Ha aspettato in silenzio, senza disturbare nessuno, senza gridare e invocare. Un figlio inghiottito da un mondo che questa povera donna palermitana forse nemmeno comprendeva nei suoi contorni: la politica, le guerre, i fanatismi, l’America, il Califfato, Al Qaida. Questo ragazzo è stato ucciso da coloro che avrebbero dovuto salvarlo e riportarlo a casa. Mi domando: chi andrà a dirglielo guardandolo negli occhi. Non basta una conferenza stampa e neppure una dichiarazione di scuse e un rammarico. Bisognerebbe  andare da questa madre e dirle: abbiamo ammazzato tuo figlio con un congegno infame con cui abbiamo cercato di sostituire la guerra e con cui ammazziamo non solo i colpevoli, ma anche gli innocenti! Qualcuno vada lì. Vada Obama, vada Renzi. Perché [Renzi] non ha mandato un twitt, manda twitt su tutte le banalità dell’universo, a questa donna che gli chiedeva, come responsabile del Paese in cui vive e in cui viveva suo figlio, di restituirglielo.

L’anomalia

Come non rilevare la differenza palese con il coro unanime di indignazione profonda che invece unisce la grande stampa, il governo e l’opinione pubblica italiana verso la triste vicenda di Giulio Regeni?

A ben vedere anche solo il recente passato e le vittime italiane di “eserciti o governi amici”, è proprio questa l’anomalia del “caso Regeni”. Per quanto alcuni organi di stampa abbiano tentato all’inizio di derubricare la vicenda di Giulio Regeni ad un “incidente di percorso”, per oltre due mesi l’atteggiamento generale dei nostri mass media è stato fermo nello stigmatizzare le autorità egiziane. La stessa cosa va osservata riguardo al governo italiano che, per una volta, è sembrato essere ben determinato a sacrificare i buoni rapporti con un governo amico pur di soddisfare la richiesta di verità che giungeva dalla famiglia e da una opinione pubblica aggiornata per due mesi quotidiani.

Il parallelismo con la vicenda di Giovanni Lo Porto, però, induce a porsi almeno tre questioni: perché il governo italiano non ha alzato la voce verso gli Stati Uniti? Perché in quel caso la stampa italiana non ha fatto pressione sul nostro stesso governo perché pretendesse che venissero individuati i responsabili dell’omicidio di Giovanni Lo Porto, cosa che ha fatto al 3 febbraio scorso con riferimento a Giulio Regeni. Perché mentre la vicenda di Giulio Regeni ha fatto sì che venisse largamente rimesso in discussione lo stesso regime egiziano, altrettanto non è stato fatto nel primo caso? La  risposta a quest’ultimo quesito non può essere soltanto che gli Stati Uniti siano una democrazia e l’Egitto non lo è, perché è possibile conciliare democrazia con la violenza e politiche di aggressione.

Gli Stati Uniti sono non solo un alleato strategico e storico del nostro Paese, i buoni rapporti con la Casa Bianca sono spesso determinanti nella politica estera del nostro Paese, in particolare nella regione orientale, soprattutto in questi ultimi sei anni e per quanto le agende politiche ed economiche europee non sempre coincidono con quelle statunitensi. E’ pur vero che l’alleanza strategica non è mai stata rimessa in discussione. Neanche “sgarbi” gravi degli USA (dal caso dell’assassinio di Nicola Calipari alla strage del Cermis) hanno mai incrinato i rapporti. Quando Barack Obama si assumeva platealmente la responsabilità dell’assassinio di Giovanni Lo Porto e di Warren Weinstein, Matteo Renzi non trovava di meglio che affermare che né il governo italiano, né gli specialisti della Farnesina erano a conoscenza della pianificazione di quella operazione militare statunitense. È evidente a chiunque che una simile dichiarazione è un’ammissione di complicità, di insipienza e di opportunismo. Probabilmente la vera ragione è che anche l’Italia possiede i droni e li usa largamente come strumento di “monitoraggio e ricerca” nella zona interessata dalla presunta guerra occidentale contro il Califfato. Il fatto che i droni italiani non siano ancora armati limita il loro impiego e consente al nostro governo di sostenere che “l’Italia non è in guerra”, nonostante che in questi anni le basi italiane siano state messe a disposizione degli alleati della NATO per gli interventi militari nel Vicino Oriente. Questa tesi equivale a sostenere che in una rapina il palo è innocente rispetto ai suoi complici armati. In definitiva, quel “[…] congegno infame con cui abbiamo cercato di sostituire la guerra e con cui ammazziamo non i colpevoli, ma ammazziamo gli innocenti!” ed il suo uso sempre più massiccio è indispensabile ai Paesi occidentali che non possono permettersi di impantanarsi in nuove missioni militari sul terreno dopo i fallimentari tentativi in Iraq e in Afghanistan. L’eventualità che qualche cittadino occidentale possa restarne vittima ed aggiungersi agli “effetti collaterali” – come eufemisticamente vengono chiamate le numerose vittime civili dei droni in Pakistan, Yemen, Somalia, etc. – è un prezzo che i nostri governi sono disposti a pagare. Un anno fa a nessun organo di stampa (tranne rare voci dissonanti) venne in mente di trasformare l’assassinio di Giovanni Lo Porto in un’occasione per rimettere in discussione i rapporti con gli USA, né tantomeno per porsi delle domande sui “nostri” droni.

Invece, con l’assassinio di Giulio Regeni, ciò che è avvenuto è stata la stigmatizzazione del regime egiziano e non solo riguardo al trattamento riservato a Giulio Regeni. Giornali non certo estremisti o controcorrente come La Stampa, Il Sole 24 ore e perfino Il Corriere della Sera  La Repubblica, hanno di fatto accettato un assioma, tutt’altro che ovvio in un Paese come il nostro: Giulio Regeni è stato assassinato non perché italiano, ma perché il regime dell’ex generale Abdel Fattah Al Sissi è una dittatura che non può tollerare nessuna opposizione o nessuna persona, egiziana o straniera, che anche si limiti a studiare le contraddizioni della società egiziana, soprattutto in quegli ambiti sociali che non sono legati all’integralismo islamico, come i sindacati indipendenti. Il Corriere della Sera, nella sua versione on-line, ha pubblicato anche l’elenco dettagliato, con le biografie e le date precise dei sequestri, di 498 persone di cui non si sa più nulla, su un totale di 735 scomparsi tra il 2015 e il 2016, tutti egiziani. Scorrendo questo elenco terribile ciò che colpisce è che nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di giovani che non arrivano ai trent’anni e che sono quasi tutti studenti.

Questo stesso giornale il 6 aprile ha pubblicato una toccante lettera della madre di Amr Ibrahim Metwalli, un giovane scomparso nel 2013 e di cui a tutt’oggi la famiglia non ha più notizie, dopo 1000 giorni. In un passaggio della sua lettera questa donna scrive:

Io e mille altre madri egiziane vorremmo rivedere i nostri figli, anche se fossero avvolti in un vestito bianco, macchiato del loro stesso sangue, anche se fossero presentati alla procura con il volto tumefatto dalla tortura subita ed anche se li vedessimo condotti all’impiccagione… Ma almeno vorremmo rivederli. Vorremmo vedere che i media del mio Paese parlassero del caso dei nostri figli scomparsi e delle nostre tragedie, invece di rivolgere a noi le accuse di raccontare bugie, accrescendo così le nostre sofferenze. Vorremmo che un procuratore ci desse un po’ di ascolto, come ha fatto la giustizia italiana nel vostro caso, e desse corso alla giustizia anche qui, per riportare alle nostre famiglie un minimo di diritti.

La pubblicazione di questa lettera da parte di uno dei grandi giornali italiani è stato un segnale importante che in Italia la percezione della vicenda Regeni andava ben al di là della necessità di sapere i nomi dei responsabili del delitto, ma che l’assassinio del giovane friulano veniva infine inserito in un ambito politico più ampio, quello della denuncia del regime dittatoriale egiziano. In questo contesto di pressione continua il governo italiano, come anche la magistratura, evidentemente non poteva che continuare ad alzare i toni dello scontro con la presidenza di Al Sissi, forse malgrado le speranze che da parte egiziana arrivasse una qualche “verità credibile” che consentisse di soddisfare la famiglia e l’opinione pubblica e di dimostrare che questa volta il governo aveva mantenuto la schiena dritta. Proprio la poca intelligenza dell’apparato egiziano ha portato la situazione ad una estrema tensione su tre livelli: politico, giudiziario ed economico.

Ma il presidente Abdel Fattah Al Sissi sa molto bene che i rischi maggiori al suo potere provengono dall’interno. Altrettanto è cosciente che quando nel febbraio del 2011 Hosni Mubarak fu spodestato, sicuramente grazie innanzitutto alla determinazione della moltitudine che da settimane occupava piazza Tahrir, ciò avvenne perché le forze armate decisero che era arrivato il momento di trovare il modo di far tornare a casa i manifestanti e ripristinare un ordine che consentisse il salvataggio dell’apparato statale-militare, che, invece, l’ostinazione di Mubarak a non farsi da parte metteva a rischio più di tutto. In definitiva è chiaro che Abdel Fattah Al Sissi non intende fare la fine di Hosni Mubarak. Per raggiungere lo scopo il dittatore egiziano ha a sua attività di diversa possibilità. Ma, soprattutto, deve cercare di riprendere il controllo di quei pezzi di apparato che gli stanno sfuggendo di mano.

Il 13 aprile Abdel Fattah Al Sissi ha fatto un discorso in una sessione parlamentare in cui non a caso ha inviato dei messaggi molto espliciti.

Esprimo le nostre condoglianze alla famiglia del giovane che ha perso il figlio. Ricordo che anche un figlio dell’Egitto è scomparso in Italia da novembre. Si chiama Hadel Mowhawad.

C’è chi tra noi ha accusato, fin dall’inizio della vicenda, gli apparati della sicurezza degli egiziani. Questo è avvenuto soprattutto sui social media. E molti di noi hanno ripreso questa notizia. Chi ci ascolta (gli italiani) ci hanno creduto.

Qui a indagare non ci sono solamente i funzionari del ministero degli interni ma c’è anche la Procura (magistratura). Quello che è uscito sui nostri giornali fa paura.  In Egitto c’è gente cattiva che si adopera contro di noi, gente che aspettava un evento come questo per accusare lo Stato.

Dico ai giornalisti: anche voi avete delle responsabilità. Non usate come fonti i social media. Facendo il vostro lavoro dovete verificare le fonti. Noi ci siamo interessati molto al caso in considerazione anche dei rapporti eccellenti con l’Italia. Ricordo che la leadership italiana ha supportato l’Egitto fin dal 30 giugno 2013.

Bisogna stare attenti alle bugie. Non dobbiamo essere noi a riprendere le bugie che sono state dette in relazione al caso Regeni. Perché questo è quello che ha creato il problema.

Questo discorso fa venire i brividi nella schiena a chiunque perché è una esplicita minaccia a chi in Egitto cerchi, o cercherà, di trovare attraverso “l’internazionalizzazione del caso Regeni” un modo per denunciare pubblicamente al mondo intero le condizioni terribili in cui vive il popolo egiziano. Non a caso dopo queste dichiarazioni nessun esponente del nostro governo ha sentito il bisogno di dire qualcosa, di alzare la voce. Se non fosse in gioco il destino di un popolo di circa novanta milioni di persone, farebbe sorridere l’invito a “verificare le fonti” rivolto ai giornalisti egiziani, molti dei quali proprio per questo motivo giacciono sepolti nelle carceri del dittatore.

È evidente che Al Sissi facendo quella dichiarazione il 13 aprile, compie un passo simile a quello fatto da Barack Obama il 23 aprile 2015: si assume la responsabilità non solo dell’assassinio di Giulio Regeni, del suo arresto e delle torture cui è stato sottoposto, ma conferma l’intenzione del regime di usare ogni modo per non finire come Hosni Mubarak e Mohammed Morsi. Evidentemente è difficile immaginare che l’Italia, o altri Paesi europei e gli Stati Uniti, siano disposti in nome dei diritti umani a mettere a rischio i lauti guadagni che vengono dal mercato egiziano. Se fosse così allora bisognerebbe chiedersi perché questo non avviene anche con moltissimi altri Paesi e non solo nel Vicino Oriente. Bisognerebbe chiedersi per quale motivo l’Europa e gli Stati Uniti hanno riabilitato un personaggio come Bashar Al Assad nelle cui prigioni sono sparite migliaia di persone. Quando tanti esultano per la riconquista da parte dell’esercito di Assad e dei suoi alleati di Palmira, nessuno ricorda che in quella stessa città c’era la più triste e famosa prigione del regime che ha inghiottito un numero imprecisato e intollerabile di persone.  Non a caso una delle prime cose che il Califfato aveva fatto dopo aver conquistato la città fu di fare saltare in aria quel carcere, atto che nessun siriano poteva disapprovare. Se il cinismo e l’opportunismo politico dell’Occidente stesse cedendo il passo, sull’onda del caso Regeni, ad un atteggiamento diverso saremmo veramente di fronte ad una svolta. Ma così non è.

Nessuno può ignorare che la dittatura egiziana ha ottimi rapporti con la Russia di Putin, malgrado l’attentato del 31 ottobre all’aereo russo nel Sinai. Questo spingerà l’Occidente a rinsaldare e non viceversa i rapporti con l’Egitto nel tentativo di contrastare l’accrescersi della potenza russa nel Vicino Oriente. Ciò sarà probabilmente determinante per far sì che le pressioni internazionali riescano alla fine ad aver ragione della testardaggine egiziana. Perché se è vero che l’Egitto ha bisogno dell’Occidente è anche vero il contrario, soprattutto per due motivi: lo scontro regionale tra potenze regionali sciite e sunnite che passa attraverso le guerre civili siriana e yemenita e il caos libico. In  Libia il regime egiziano è il protettore del governo di Tobruk e del generale Haftar che ora è il vero ostacolo al via libera al cosiddetto governo di unità nazionale di Al Sarraj. Per cui le pressioni sul regime di Al Sissi hanno anche l’obiettivo di indurre il governo di Tobruk a recedere dal non riconoscimento del governo di Al Sarraj, stanziato a Tripoli. Gli Stati Uniti che considerano il caos libico come il risultato della “avventatezza europea” nell’aver contribuito alla caduta di Mohammar Gheddafi, ora fustigano dalle prime pagine dei loro giornali più importanti quei leader come François Hollande che in questi giorni si trova in Egitto per vendere una partita assai importante di armi al regime egiziano. Dopo le aspre critiche internazionali il presidente francese ha fatto delle dichiarazioni, nella conferenza stampa congiunta con Al Sissi, assai di routine, ricordando che il “rispetto dei diritti umani è uno dei modi per combattere il terrorismo”. E’ stato così poco convincente che il dittatore sia ormai sicuro, come d’abitudine che in Europa e negli Stati Uniti che can che abbaia non morde, ha fatto altre affermazioni molto significative per quelli che chiama disinvoltamente “gli amici europei” e pericolosissime per gli egiziani:

Non potete immaginare cosa succederebbe al mondo intero se questo Paese cade… Il nostro compito è quello di proteggere una nazione di 90 milioni di persone […] ho assicurato che l’Egitto considera i diritti umani una priorità e chiedo a tutti i nostri amici europei di prendere in considerazione la nostra visione delle questioni dei diritti umani, che include soprattutto il diritto all’istruzione, alla salute e alla casa.

In altre parole Al Sissi pensa che benché lo stato di polizia da lui instaurato nel luglio 2013 abbia mietuto migliaia di vittime e un numero imprecisato di carcerazioni e di scomparsi, il popolo egiziano sarà disposto a tollerarlo purché le condizioni materiali di vita migliorino e la gravissima crisi economica riduca i suoi effetti devastanti. Da questo punto di vista, le minacce di Abdel Fattah Al Sissi sugli effetti dell’instabilità dell’Egitto saranno sicuramente più efficaci sulle élite politiche europee delle pressioni della stampa italiana e dell’opinione pubblica. Anche perché l’Europa e gli Stati Uniti non possono più permettersi di ritrovarsi nelle stesse condizioni di disorientamento del 2011, quando l’incendio che partì dalla Tunisia travolse l’intera ragione vicino-orientale. Oggi i rischi legati alla presenza del Califfato e al prevalere in scenari come la Siria e la Libia delle forze politico-militari integraliste islamiche sono ancora maggiori del passato.

Per queste ragioni è assai probabile che malgrado il tentativo di coinvolgere l’Unione Europea e gli alleati europei nella vicenda Regeni, alla fine prevarrà il “realismo”.

L’esempio del Vaticano

In questo senso è emblematico il silenzio totale sull’omicidio Regeni da parte del Vaticano e di questo Papa che ha una parola per tutti.

Il silenzio papale è presto spiegato. Nel febbraio scorso monsignor Bruno Musarò è stato nominato nunzio apostolico in Egitto. Bruno Musarò, ex nunzio apostolico a Cuba, non ha fatto mistero del proprio appoggio alla dittatura dell’ex generale Al Sissi sostenendo che da quando nel luglio 2013 fu rovesciato il governo dei Fratelli Musulmani, l’Egitto e l’intera regione sono avviati verso la stabilizzazione.

In occasione di un dibattito pubblico nell’agosto scorso, Bruno Musarò elogiò pubblicamente “l’efficienza” egiziana nel rispettare le scadenze degli imponenti lavori di rifacimento del Canale di Suez, grazie al fatto che i lavoratori impegnati in quell’opera erano stati sostituiti con l’esercito, che aveva portato a termine i lavori con un anno di anticipo. Certo, anche in America Latina Mons. Musarò è noto per le sue posizioni reazionarie, ma il punto è che la sua nomina in Egitto è un chiaro segnale di quale sia la posizione papale rispetto ad un Paese in cui i cattolici sono una piccola minoranza e dove i cristiani copti  hanno sempre intrattenuto ottimi rapporti con le dittature. Salvo una parentesi significativa: la rivoluzione del 25 gennaio 2011, quando cristiani copti e musulmani erano tutti uniti in Piazza Tahrir contro Mubarak. In quel momento anche le gerarchie della chiesa copta furono costrette a prendere posizione contro Hosni Mubarak, oggi sicuramente la situazione è cambiata, ma schierarsi tanto apertamente con un dittatore che può essere abbandonato dai suoi alleati (anche quelli più stretti) se dovesse rivelarsi ingombrante è assai imprudente.

Il silenzio del Vaticano è l’altra faccia della medaglia del tanto clamore dato alla triste vicenda di Giulio Regeni.

Quale verità e quale giustizia

La richiesta sembra la più ovvia: verità e giustizia. Ma a chi chiediamo questo?

La successione di versioni sempre poco credibili,  talvolta perfino ridicole, da parte delle autorità egiziane si è scontrata non tanto con la ostentata determinazione del governo italiano, quanto con l’evidenza delle condizioni in cui il cadavere era ridotto. Fin dall’inizio, sulla base delle testimonianze di coloro che avevano potuto vedere il corpo di Giulio, era apparso chiaro che la tortura sistematica e di una crudeltà appena immaginabile era stata opera degli apparati di polizia egiziani: famosi per la loro “perizia” in questo campo. Inoltre, non è da sottovalutare il fatto che quando il capo della polizia egiziana sostenne la tesi dell’incidente stradale, fu la stessa procura di Giza a smentirlo dichiarando che i segni di tortura erano evidentissimi. Gli assassini avevano lasciato la loro inconfondibile firma.

Ma non solo questo. L’iniziale scontro tra la procura di Giza e la polizia egiziana lasciava trapelare uno scontro tra diversi settori dell’apparato militare e giudiziario. In definitiva emergeva il fatto che evidentemente la sanguinaria dittatura instaurata da Abdel Fattah Al Sissi, forse addirittura il suo personale potere, fosse afflitta da uno scontro interno di cui il povero Giulio Regeni era rimasto vittima. Solo quando è parso chiaro lo scontro diplomatico fra Italia ed Egitto la procura è tornata nei ranghi, sostenendo le tesi governative. Ma lo scontro è stato superato e risolto a favore del dittatore? A giudicare dalle dichiarazioni degli ultimi quindici giorni fatte dal presidente egiziano non sembrerebbe.

La pressione sul governo italiano da parte della grande stampa si è sostanziata di “grandi scoop” sempre basati su fonti anonime o su interviste a ex membri dell’apparato militare egiziano in esilio da anni che, però, sembravano molto ben informati di un evento, l’arresto di Giulio, di cui potevano avere avuto notizie solo da altri, di cui sono ben guardati dal fare i nomi.

Tutte queste “indagini” parallele all’inchiesta avviata dalla procura di Roma, ovviamente non potevano essere utili ai magistrati italiani, sia perché una fonte anonima non può testimoniare, sia perché le altre fonti seppure non anonime in realtà descrivevano una sequenza di passaggi, dall’arresto, alla tortura fino alla morte del giovane italiano assai vaghi. I personaggi tirati in ballo dal ministro dell’interno al capo della polizia, fino allo stesso Al Sissi erano tali da essere immuni a priori. Perché è poco immaginabile che qualcuno abbia il coraggio, sotto dittatura, di portare prove concrete di un coinvolgimento a un così alto livello. Per di più tra l’Italia e l’Egitto non esistono trattati di estradizione, ma un accordo che risale al 1974 che regola la collaborazione giudiziaria fra i due Paesi ed uno del 2013 sul “trasferimento delle persone condannate”. D’altronde, è altrettanto evidente che un processo in Egitto sarebbe comunque una farsa, a meno di non illudersi di vedere un regime dittatoriale capace di giudicare onestamente se stesso. Si può anche essere certi che nessuna richiesta verrà avanzata da consessi internazionali, i quali hanno dimostrato ampiamente una triste verità che Radhabinod Pal, un giudice indiano disse al Tribunale di Tokio: “solo la guerra persa è un crimine internazionale”. A dimostrazione di quanto sia vera questa amara affermazione basti osservare che Bashar Al Assad, quando era “il nemico”, veniva minacciato di essere sottoposto a un giudizio internazionale per i crimini perpetrati contro il suo popolo. Ma all’epoca, nel 2011 e nel 2012, stava perdendo la guerra. Quando l’anno successivo, grazie all’intervento dell’Iran, delle milizie di Hezbollah e infine della Russia le sorti della guerra siriana si sono ribaltate a favore del dittatore, nessuno più ha avanzato la minaccia che fosse istituito un tribunale internazionale. Gli esempi di questo genere potrebbero essere molti e non riguardare solo Paesi dittatoriali. Per altro, la tortura non è considerato un crimine internazionale, tant’è che il nostro Paese neanche lo riconosce come reato. Una proposta di legge a questo proposito, assai debole, è considerata una “svolta rivoluzionaria” per l’Italia. Quindi: di cosa stiamo parlando?

Le dittature sono sempre in guerra contro i loro popoli, anche quando non vi sono guerre civili in atto, come in Egitto. Richiamare l’ambasciatore italiano per consultazioni, per quanto simbolicamente forte, potrà restare un fatto senza conseguenze. Anche la richiesta avanzata da alcuni di inserire l’Egitto nella lista dei “Paesi non sicuri”, che dovrebbe nelle intenzioni colpire l’industria turistica, è assai debole. L’Egitto, come molti altri Paesi vicino-orientali che affacciano sul Mediterraneo da tempo sono scomparsi dalle mete turistiche. Altre sanzioni politiche ed economiche non vengono neanche menzionate dal governo italiano.

Sembra assai probabile che la vicenda di Giulio Regeni segua le sorti di quella di Giovanni Lo Porto: nessuno dei responsabili pagherà per il crimine commesso. Tanto meno il governo italiano farà in modo che ciò non accada. Il teatrino ipocrita che alcuni Paesi europei stanno facendo insieme all’Italia su questa vicenda si concluderà con molte probabilità con il silenzio. Soprattutto quando pezzi dell’apparato statale egiziano smetteranno di voler usare l’assassinio di Giulio Regeni come strumento contro i loro concorrenti o contro lo stessi Al Sissi. Se la stampa italiana la smettesse di inseguire i falsi scoop, molto ben diretti, e ponesse la questione politica che è emersa – a tratti – dalla vicenda Regeni e se la stessa cosa facesse quella fascia di opinione pubblica sensibile e i gruppi militanti, allora faremmo un passo avanti verso l’unica verità e giustizia possibili: l’abbattimento della dittatura di Abdel Fattah Al Sissi insieme ad un giudizio internazionale dei responsabili di questa.

In definitiva, ciò che resta della battaglia per Giulio Regeni è esattamente il fatto che per una volta nel nostro Paese abbiamo iniziato a interrogarci su chi siano i “nostri amici”. Ed è, questo, un elemento importante, forse dirimente, per far sì che Giulio e tutte le vittime della dittatura egiziana non siamo morte invano. Da questo punto di vista, se fossimo coerenti e conseguenti, dovremmo anche rimettere in discussione fortemente ed efficacemente la politica estera e militare del nostro Paese e non esaltare l’ipocrisia degli Stati Uniti che chiedono “trasparenza per il caso Regeni”, ma non ci dicono chi ha diretto il drone che ha ucciso Giovanni Lo Porto e Warren Weinstein. Perché altrimenti anche chi lo rifiuta a parole, nei fatti finisce per accettare quello che è stato definito il “sistema dualistico della giustizia internazionale”.

Cinzia Nachira

Domenico Quirico, in La Stampa Tv, 24 aprile 2015  HYPERLINK “http://www.lastampa.it/2015/04/23/multimedia/esteri/lo-porto-ucciso-da-un-drone-usa-il-commento-di-domenico-quirico-wM4nH1nOS2jRFhflnY4XaL/pagina.html” http://www.lastampa.it/2015/04/23/multimedia/esteri/lo-porto-ucciso-da-un-drone-usa-il-commento-di-domenico-quirico-wM4nH1nOS2jRFhflnY4XaL/pagina.html

Lettera alla madre di Giulio Regeni, in Corriere della Sera, 6 aprile 2016,  HYPERLINK “http://www.corriere.it/esteri/16_aprile_06/cara-mamma-giulio-io-ti-ammiro-a88fbe3a-fc31-11e5-a926-0cdda7cf8be3.shtml”http://www.corriere.it/esteri/16_aprile_06/cara-mamma-giulio-io-ti-ammiro-a88fbe3a-fc31-11e5-a926-0cdda7cf8be3.shtml

Si tratta del caso di un uomo egiziano di 49 anni scomparso da Roma il 3 ottobre scorso, dopo una rissa con degli italiani.  HYPERLINK “http://www.ristretti.org/Le-Notizie-di-Ristretti/egitto-caso-regeni-il-cairo-accusa-qanche-in-italia-e-sparito-un-giovane-egizianoq”http://www.ristretti.org/Le-Notizie-di-Ristretti/egitto-caso-regeni-il-cairo-accusa-qanche-in-italia-e-sparito-un-giovane-egizianoq

Abdel Fattah Al Sissi, estratto del discorso al Parlamento, 13 aprile 2016. La traduzione dell’estratto dall’arabo è dello staff della RAI. Ringraziamo Amedeo Ricucci per averci amichevolmente offerto la versione integrale dell’estratto.

Dichiarazioni di Abdel Fattah Al Sissi in conferenza stampa congiunta con François Hollande:  HYPERLINK “http://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2016/04/17/regeni-il-cairo-importanti-sviluppi.-italia-allenti-pressioni-politiche_77377463-fed2-40d6-8e16-51a8fcba60b0.html”http://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2016/04/17/regeni-il-cairo-importanti-sviluppi.-italia-allenti-pressioni-politiche_77377463-fed2-40d6-8e16-51a8fcba60b0.html

Cfr.  HYPERLINK “http://www.legalsl.com/it/estradizione-tra-italia-e-egitto.htm” http://www.legalsl.com/it/estradizione-tra-italia-e-egitto.htm

In Danilo Zolo, La giustizia dei vincitori – Da Norimberga a Baghdad, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 2006, p. XI

Danilo Zolo, op. cit., p. X

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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