QUIRICO SULL’ESODO

di Cinzia Nachira.

Viviamo nell’illusione che la tecnologia ci possa offrire sempre, in ogni luogo e in ogni istante, la possibilità di essere informati. Ma è, appunto, un’illusione ed in realtà spesso sfugge il contesto. I grandi reportages che un tempo offrivano la possibilità di riflettere sulle cause, lo sviluppo e le conseguenze di fenomeni epocali, oggi sono sempre più rari. Assai rare sono anche le arti dell’ascolto e dell’osservazione di luoghi e persone che pur dando delle risposte, inducono a porsi domande sul mondo.

Ma per fortuna, ancora oggi, esistono delle eccezioni. Domenico Quirico, fa parte di queste e per questo una volta terminata la lettura del suo ultimo libro, Esodo. Storia del nuovo millennio (edizioni Neri Pozza, Vicenza 2016, pp. 175), le domande sono più numerose delle risposte. Questa caratteristica già di per sé rende questo testo particolare ed anche importante. Tornano alla mente le parole che Joseph Roth scrisse nel 1937 come premessa al suo Ebrei erranti:

Questo libro rinuncia a quei lettori obiettivi che dall’alto delle traballanti torri della civiltà occidentale sbirciano con comoda benevolenza il vicino Oriente e i suoi abitanti: che per puro umanitarismo deplorano l’insufficienza delle fognature e per timore di essere contagiati rinchiudono gli emigranti poveri in baracche in cui la soluzione di un problema sociale è affidata alla morte in massa. Né è scritto per quei lettori che accuserebbero l’autore di trattare il suo tema con amore invece che quella obiettività scientifica che è anche detta noia. (1)

L’enorme quantità di informazioni ed immagini che quotidianamente ci sommergono delle altrui tragedie ci fa cadere in un equivoco. Pensiamo di conoscerle e di essere riusciti nell’esercizio più difficile: la comprensione. Ma la condivisione di una tragedia, la percezione del dolore di chi abbandona tutto alla ricerca disperata di un futuro che si immagina diverso e vivibile, è qualcosa che è assai difficile da raggiungere e, forse, più complicato ancora da raccontare. Soprattutto quando si rinuncia all’aiuto delle “grandi analisi” politiche ed economiche, come fa Domenico Quirico in questo suo raccontare chi si mette in viaggio verso un estremo tentativo di vivere. Il merito essenziale di questi racconti è quello farci immergere in ciò che sta in mezzo tra la partenza e l’arrivo (per coloro che ce la fanno)  attraverso l’ascolto di vicende raccontate con stringatezza a volte sconcertante. In modo, a tratti assai doloroso, queste pagine ci spingono a scendere, lentamente, da quelle “torri della civiltà occidentale” dalle quali è troppo comodo “sbirciare” le vite di quegli uomini, quelle donne, quei vecchi e quei bambini che della migrazione hanno intrisa la vita.

Ci siamo scambiati durante il viaggio cose semplici, l’acqua e il pane, la comunione eterna degli uomini, dei poveri, dei naviganti antichi. Non è il rischio di morire o l’essere scampato che mi ha affratellato a quei centodieci esseri umani, e che ha assorbito come una spugna i miei pregiudizi su di loro, è il viaggio stesso, la visione per ventidue ore della sofferenza a cui si sottopongono, che pagano. Non è una grande cosa, la mia evoluzione, in fondo, il vero miracolo sarebbe di compierla, questa sacrosanta pulizia dei pregiudizi, senza dover rischiare la vita per accorgersene. (2)

Questo libro ci porta nel deserto, in mare aperto e nei boschi, dai nomi a volte  favolosi, in cui persone, di quella che per noi è una massa indistinta, ogni giorno, spesso per anni, sfidano la morte per fame. Dove la ricerca di un pasto diventa la sola occupazione. Eppure ci conduce anche in quei Paesi che da sei anni riempiono le nostre televisioni perché hanno tentato di invertire il corso del loro destino segnato da dittature ultradecennali e feroci, tra quei giovani tunisini che dopo aver sconfitto il dittatore non hanno potuto che partire, perché quelle rivoluzioni interrotte sono rimaste vittime della nostra ignavia e delle loro contraddizioni. Ci conduce anche nel mondo degli scomparsi, dei tanti giovani naufragati nel Mediterraneo e tra le loro famiglie che ancora aspettano una telefonata che annunci un arrivo comunque trionfante, anche dovesse essere coronato da un arresto in Europa. Di questo mondo degli scomparsi in mare, o nel deserto, Domenico Quirico ne cerca l’inizio e si chiede:

Perché cercarne le fila proprio a Tataouine? Perché, come molte città e villaggi dell’interno della Tunisia sommersi dalla povertà, è stata svuotata dalla fuga verso l’Europa, è una città senza giovani. Le storie di quelli che sono scomparsi nel mare sono talmente tante che è impossibile fare statistiche. Bisognerebbe percorrere tutto il Paese, con metodo, inseguire le rotte dei barconi partiti, di messaggi che non sono arrivati, di comunicazioni improvvisamente interrotte. (3)

Ma prima ci avvisa, la rivoluzione tunisina che ha riempito le mura delle città e dei villaggi con le effigi dei martiri uccisi dalla repressione del dittatore:

Un giorno forse affiggerà sui muri anche i volti dei ragazzi che sono partiti in mare, hanno tentato il passaggio in Europa, e non sono tornati. Anche loro sono eroi. […] Ci vorrà spazio, per questo. Perché sono molti, troppi i giovani immolati al sogno di una vita migliore, troppi i migranti che hanno pagato, invano, una fortuna il loro diritto di partire. Ci vorrà tempo per ritrovare tutti i nomi, che sono centinaia, forse migliaia. Nessuno finora si è occupato di loro. Come fossero i dispersi di una guerra perduta. […] nessuno ha interesse a parlarne, a cercare, noi per non turbare la nostra buona coscienza di avari, e loro, i tunisini, perché hanno il pudore orgoglioso di fallire, rispetto agli altri che ce l’hanno fatta. Non c’è nulla di più duro dell’orgoglio dei poveri. (4)

Ci sono fratelli, sorelle, padri e madri che da anni aspettano notizie senza ottenerne, anche se in qualche caso del tutto casualmente le fotografie dei loro cari sono finite su giornali europei che hanno visto. La speranza crudele che il silenzio non corrisponda alla morte si nutre ancora di ipotesi rincuoranti di chi è lontano e impossibilitato a raccogliere notizie certe.

Quegli stessi scomparsi vittime di naufragi non sono l’eccezione, ma la regola e solo a volte in Occidente escono dai grandi numeri e dalle statistiche, ma solo per pochi giorni. A fianco di chi ha fallito morendo, vi è la sconfitta di coloro non sono riusciti a restare in Europa, pur arrivando a toccarne il suolo e che vengono rimpatriati con l’inganno.

Chi li ha cacciati in Europa venga qui a vedere il gemito strappato a questi ragazzi, i singhiozzi, questo dolore che fa paura perché muto. Ci sono certo mille eccellenti ragioni per dimostrare che non li possiamo ospitare. Ma quale ragione possiamo dare alla menzogna, alla beffa crudele che giochiamo loro per liberarcene? La bugia è la colpa di chi si vergogna. (5)

La colpa di una vergogna che in Europa non vogliamo, ostinatamente, né riconoscere, né ammettere. Per cui non abbiamo i presupposti per comprendere perché questi giovani dal “dolore muto” riproveranno senza sosta a tornare in Europa con qualunque mezzo e a qualunque costo, anche della vita. Ma dovremmo anche pensare che l’inganno non lo dimenticheranno, li renderà sicuramente più accorti la volta successiva a non caderci ancora. Perché in definitiva è vero: sono loro i veri protagonisti del nostro secolo, saranno loro, vittoriosi o sconfitti, a determinarne lo sviluppo. Noi europei prima di tutto dovremmo essere disposti a raccogliere le loro storie e le loro ragioni. Spesso le tragedie che queste persone sono costrette a vivere ed ad attraversare prima di giungere in Europa le hanno rese come pagine bianche, ciò che vi sarà scritto sarà il risultato di molti fattori. Le loro vite e le nostre sono inevitabilmente costrette ad incrociarsi.

Abbiamo passato vent’anni a fantasticare di come sarebbe stato il terzo millennio: le invenzioni, i robot, le malattie sconfitte, Marte colonizzato come fosse un’isoletta esotica, la democrazia planetaria, la fine della Storia, l’arte…con una sorta di infatuazione infantile, come quando i ragazzi fanno progetti per il tempo in cui saranno grandi. Ed eccolo, invece, il terzo millennio, è arrivato come forse mai nessun secolo arrivò così pieno di avvenire. All’inizio, c’erano uomini angustiati che non accadesse più nulla, che tutto fosse compiuto. Ora colonne di esseri umani attraversano a piedi l’Europa, guadano fiumi, fanno crollare reticolati e muri. Flotte di imbarcazioni fradice, zeppe di uomini attraversano il Mediterraneo […] Come accade tutto questo? Guardiamo l’uomo che si orienta in queste tragedie, guardiamo noi stessi e capiremo. (6)

Questo libro coglie soprattutto la differenza tra esilio ed esodo. Il XX secolo è stato il secolo in cui interi popoli, quelli che a un prezzo umano enorme si liberavano dal colonialismo, perdevano le loro generazioni più giovani in nome di progetti sociali, economici e culturali di liberazione dei loro Paesi. L’apparente paradosso era quello dell’Occidente che contemporaneamente occupava, razziava e depredava i loro Paesi, ma anche li accoglieva in esilio. Oggi non è più così, l’esodo di cui ci racconta i dettagli più intimi Domenico Quirico non prevede il ritorno dei migranti nei loro Paesi. Non per scelta, ma perché intere parti del mondo stanno morendo. Perché le speranze di un riscatto sono finite. Se in modo definitivo nessuno lo può prevedere o stabilire. Molte le fate morgane che ci illudono di un rapido invertirsi di questa terribile tendenza. Abbiamo l’illusione, quella più grande e anche la peggiore, che nonostante tutto le nostre abitudini possano essere preservate senza traumi. Come diceva Joseph Roth nel 1937 alla vigilia di stermini generalizzati e pianificati, la morte in massa è la soluzione del problema per i più. Si fingeva di non sapere e non vedere allora ed anche oggi si ripete questo squallido rito. Ma oggi c’è un’aggravante. Nessuno può dire di non sapere, non abbiamo l’alibi dell’ignoranza. Abbiamo la colpa della superficialità con cui abbiamo costruito le nostre fortezze, che ci sembrano inespugnabili. O meglio dovrebbero oggi sembrarci meno inattaccabili, visto che i loro confini possono essere pieni di muri, reticolati e ultimi ritrovati tecnologici contro chi tenta di infrangerli, ma tutto questo a un prezzo umano intollerabile. Per questo non abbiamo neanche il diritto all’oblio.

Le periferie delle nostre metropoli europee possiamo non frequentarle, possiamo non entrare nei quartieri dei centro-città misti, ma ciò non farà sparire la realtà. Le persone che popolano questa realtà esistono. Il circo mediatico, macchina mastodontica per creare consenso, però, tace sulle radici di quel fenomeno. Questa lacuna viene mascherata, ma solo in parte, da analisi che pretendono di essere “oggettive” (diagrammi economici, cartine geografiche, scenari di guerre, numeri, etc.).

Ciò che manca ai cittadini europei è di conoscere cosa significa per profughi e migranti prendere una decisione definitiva: lasciarsi tutto alle spalle. Cancellare il proprio passato, non perché si rifiuti, ma perché si sa che non si potrà tornare indietro. Forse mai più.

Nel 1973 uno dei più grandi poeti del XX secolo, Mahmoud Darwish, che ha vissuto la sua vita interamente in esilio perché la sua famiglia dovette abbandonare l’Alta Galilea nel 1948 trovando rifugio in Libano, in Andando straniero per il mondo, scrisse queste parole:

Che cosa fanno con la disperazione? La disperazione è sorella gemella della morte. Voglio soltanto che il mondo rimuova il suo coltello dalla mia gola. Ero un ostaggio, per venticinque anni sono stato ostaggio in mano vostra e la disperazione mi ha rilasciato. Cosa mi riporta alla speranza se non dichiarare la mia disperazione? Cosa mi libera dalla prigionia se non la capacità di suicidarmi. Che il mondo vada a dormire. Io sono la sua valvola di sicurezza, questo è il ruolo che mi avete assegnato. Non sta a voi stabilire come debba protestare contro la mia morte gratuita. Non spetta a voi stabilire come debba liberarmi del cronico massacro. Se non mi rimane altro che la morte, allora morirò come voglio. Non sono per niente soddisfatto di questo ruolo. Chiamatemi come volete. Ora tocca a me chiamarmi come voglio e fare quel che voglio. Stare in piedi nel cuore del mondo. […] Questa è la mia unica libertà. (7)

Rispetto all’anelito di libertà che Mahmoud Darwish lanciava con dolore e rabbia nel 1973, oggi dovremmo chiederci se per i centotrenta milioni di profughi e migranti che si spostano nel mondo esiste qualcosa che loro possono dire essere “la loro libertà”, ancora più dei decenni del periodo post coloniale del XX secolo lo “spaseamento” – per come lo intende Tzvetan Todorov – di queste persone è tale da far loro accettare quasi passivamente i loro destini (8). In definitiva ciò che differenzia l’esilio e l’esodo è l’esistenza di un progetto possibile di cambiamento non solo della propria vita, ma collettivo, di interi popoli.

Oggi le migrazioni di massa non possono essere considerate un fenomeno a sé, da incasellare in una qualche improbabile “scheda scientifica” o politica, queste sono un  tassello di un quadro ben più complesso la cui analisi onesta rimette in discussione il nostro recente passato e il nostro presente. Tutti gli strumenti che l’Europa sta mettendo in atto per “difendere” i propri confini, interni ed esterni, come è evidente a chiunque, sono effimeri perché niente potrà fermare chi cerca la salvezza da morte certa. Che questa morte sia per la guerra, la fame o i cambiamenti climatici (che molto poco hanno di “naturale”) è in definitiva un dettaglio. Se anche dovessimo inventarci catalogazioni “scientifiche” con cui dividere chi può entrare e chi no, non potremo impedire a nessuno di riprovare all’infinito di mettersi in salvo. Per altro, è sotto gli occhi di tutti il risultato immediato di tutto questo: lo sgretolamento di quel poco di unità europea che era stata tentata in questi anni, la crescita esponenziale dell’estrema destra xenofoba e razzista, che approfitta anche della crisi economica strutturale e migliaia di vittime inghiottite dal Mediterraneo. Il tentativo, maldestro, di alcuni governi europei di accreditare una diversa immagine di se stessi è miseramente fallito. Utilizzare le immagini struggenti di piccoli bambini annegati per non ammettere che semplicemente i grandi afflussi non potevano essere fermati se non a prezzo di stragi enormi che nessun Paese europeo avrebbe potuto gestire di fronte alle proprie opinioni pubbliche, è stato un escamotage di breve respiro. (9)

Il libro di Domenico Quirico ci consente, per una volta, di far parte di quelle colonne di persone che spesso vediamo nei servizi televisivi o nelle fotografie che accompagnano gli articoli sui giornali. Come diceva il poeta Charles Bernstein “Quello che sfugge a volo d’uccello è perfettamente visibile da terra”.

Cinzia Nachira

 

(1) Joseph Roth, Ebrei erranti, Adelphi 1985, pag. 11

(2) Domenico Quirico, Esodo. Storia del nuovo millennio, edizioni Neri Pozza, Vicenza 2016, p. 26

(3) Domenico Quirico, Op. Cit., pag. 132

(4) Idem

(5) Domenico Quirico, Op. Cit., pag. 37

(6) Ibidem

(7) Mahmoud Darwish, Andando straniero per il mondo, in Darwish: una trilogia palestinese, edizioni Feltrinelli, Milano 2014, pp. 125-126

(8) Tzvetan Todorov, L’uomo spaesato. I percorsi dell’appartenenza, Donzelli editore 1997, pp. 190

(9) Cfr. Gustavo Gozzi, Umano non umano – Intervento umanitario, colonialismo, «Primavere arabe», Il Mulino, Bologna, 2015, pp. 325

 

 

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