NE’ STOLTI NE’ INGENUI

di Cinzia Nachira

Da Budapest a Lampedusa

Alcuni, forse molti, pensano di poter tirare un sospiro di sollievo ora che il referendum voluto dal primo ministro ungherese Viktor Orban non è valido perché non è stato raggiunto il quorum. Ma questo risultato, che forse il premier ungherese non si attendeva, tranquillizza solo gli stolti o gli ingenui. Come se i sentimenti xenofobi e nazionalistici più estremi rappresentati da partiti politici di estrema destra e fascisti tra cui Fidesz, il partito del premier Viktor Orban, fossero stati clamorosamente sconfitti. Ma è così? No, purtroppo. In Europa, nessun Paese escluso, l’oltranzismo nazionalistico e di estrema destra è molto diffuso: non è morto in Ungheria. Se lo fosse saremmo tutti contenti.

In Italia i risultati della sconfitta di Viktor Orban sono arrivati nel giorno in cui ci hanno ubriacato di buonismo e pietismo in ricordo della strage di migranti e profughi del 3 ottobre 2013. Il nostro Paese, evidentemente, è vittima di una sorta di sindrome dell’oblio, visto che il calendario è pieno di giornate dedicate al ricordo obbligatorio di qualcosa. Tra i tanti “ricordi obbligati” questo della giornata in ricordo delle vittime nel Mediterraneo è particolarmente inopportuno e intriso di ipocrisia, per il buon motivo che non riguarda il passato, recente o meno che sia, ma il nostro presente ed il nostro futuro.

Non sapremo mai se la strage del 3 ottobre 2013 è la più grave avvenuta negli ultimi anni nel Mediterraneo. Scorrendo le notizie di “cronaca” degli ultimi venti anni scopriremo che molto probabilmente non è così. La vera differenza che caratterizza quell’evento tremendo è che per la prima volta non fu fatto passare sotto silenzio, quella fu l’occasione perché passasse l’idea (falsa) che l’Italia era stato l’unico Paese ad “aprire” le proprie porte ai migranti e ai profughi. Un’operazione di marketing che i nostri governi, dopo aver inventato i Centri di espulsione e prima ancora di “permanenza temporanea” – abissi del diritto individuale e collettivo delle persone –  hanno fatto soprattutto per potersi presentare ai tavoli negoziali europei con un argomento in più per sottrarsi a quelle regole che sono alla base della “unità europea”, volute e accettate anche dall’Italia, perché troppo onerose per l’economia e per il consenso verso i partiti che le impongono.

L’aspetto più insopportabile dell’Europa che “canta vittoria” perché Viktor Orban non può dirsi pienamente soddisfatto dell’esito referendario è che in realtà le istituzioni europee continueranno nel loro immobilismo mentre i cittadini europei continueranno a scivolare verso posizioni sempre più di destra, mentre i profughi e i migranti continueranno a morire in mare o via terra, a seconda delle latitudini.

Quando nell’estate del 2015 i profughi, in gran parte siriani, si aprirono con la forza della disperazione la cosiddetta “rotta balcanica”, i nostri governanti erano soddisfatti e tronfi nel constatare che evidentemente la rotta mediterranea non era l’unica e che anche altri Paesi europei avrebbero fatto i conti con i flussi ininterrotti di persone che non hanno alternativa alla fuga dai loro Paesi. L’Ungheria fu il primo Paese, seguito da molti altri, ad erigere un muro per impedire a quella massa di disperati di proseguire il viaggio verso il nord dell’Europa, i loro “paradisi perduti”: Germania, Austria, Francia, Gran Bretagna e Paesi scandinavi. All’epoca i buonisti a poco prezzo, magari casualmente in vacanza sull’isola greca di Lesbo, si accorsero dei profughi che disturbavano le loro ferie. Ma essendo in vacanza e con l’animo ben disposto ci fu la corsa alla storia strappa lacrime, alla foto che doveva dimostrare che in definitiva anche i bambini profughi erano uguali agli altri. I nostri giornali e le nostre TV traboccavano di storie che, vere o false che fossero, avevano l’obiettivo primario di dimostrare che noi eravamo migliori di altri perché ci accorgevamo dell’esistenza di quei bambini.

L’apoteosi fu raggiunta con la fotografia del piccolo Aylan Kurdi, riverso esanime su una spiaggia turca, senza vita e raccolto da un soccorritore. Ma pochi mesi dopo sono arrivati gli attentati in Francia, poi in altri Paesi europei e quegli stessi profughi sono stati trasformati in un’indistinta massa pericolosa perché, si sosteneva, senza alcuna base, che tra loro si imbarcavano i jihadisti che venivano ad ucciderci mentre eravamo in un bar a bere un aperitivo oppure in coda per imbarcarci su un aereo. Già tre mesi dopo aver scoperto che i loro figli sono addirittura uguali ai nostri ci veniva in definitiva detto il contrario. Non era più vero, quei bambini, che teleoperatori con un senso della vergogna inesistente, riprendevano sulle banchine dei porti greci, siciliani, calabresi o pugliesi tornavano ad essere diversi e quindi pericolosi. In tre mesi la retorica della cosiddetta e presunta “politica delle porte aperte”, in nome del fatto che dalla Siria in fuga non erano più solo coloro che non avevano nulla ma soprattutto fasce medio borghesi, per le quali era possibile anche immaginare che fossero “utili” alle nostre economie, veniva sostituita da quella dell’ “accoglienza selettiva”.

Tre anni dopo quella strage scopriamo che in venti anni circa dodicimila persone sono annegate in quel braccio di mare che ci divide dalle coste africane, ma l’impianto legislativo italiano che di fatto ci rende complici di questo massacro non è stato cambiato. Anzi, è peggiorato. Da quando nel 2011 i flussi di profughi e migranti sono aumentati a causa dello sgretolamento di molti Paesi del Vicino Oriente e del nord Africa, le nostre leggi hanno mirato a rendere impossibile il salvataggio in mare – tranne quello autorizzato o richiesto dalla marina militare e dalla guardia costiera – con norme sul “favoreggiamento all’immigrazione clandestina”, annullando anche le più elementari regole del mare e dei marinai.

L’uso politico della memoria non è una novità, anzi è arte antichissima. Oggi serve a nascondere o mascherare goffamente che proprio i migranti e i profughi hanno smascherato l’inganno, che diventa insulto, delle regole che hanno fatto dell’Europa una fortezza ingestibile. Nell’estate del 2015 era chiaro che nessun governo europeo, compreso quello ungherese, poteva prendersi la responsabilità di una repressione di massa delle colonne di profughi che attraversavano l’Europa meridionale in marce estenuanti. Hanno preferito, i nostri governanti far spegnere i riflettori su quei disperati, mentre nessun Paese escluso aveva come priorità la “difesa” dei propri confini. Ma in mare non si possono costruire muri e barriere. Meglio allora ricoprire il Mediterraneo di retorica dolciastra che stanca e annoia. Questo è l’unico obiettivo di questa ennesima giornata di commemorazione, in cui le poche cose serie sono scomparse in un mare di insulsaggini. Compreso il documentario di Gianfranco Rosi, un inutile esercizio di rendere surreali le vite parallele di una famiglia di pescatori lampedusani e le persone recuperate in mare, di cui ciò che è essenziale è mostrare il delirio e l’agonia. Un’operazione voyeuristica che invece di essere contestata in nome della dignità, è stata in gran parte ben accolta negli ambienti più disparati.

Non unirsi al coro ora non è facile, ma è necessario. Una giovane poetessa keniota, Warsan Shire, con la sua opera Home ci sbatte in faccia una semplice verità:

[…] dovete capire
che nessuno mette i suoi figli su una barca
a meno che l’acqua non sia più sicura della terra

nessuno va a bruciarsi i palmi
sotto ai treni
sotto i vagoni
nessuno passa giorni e notti nel ventre di un camion
nutrendosi di giornali a meno che le miglia percorse
non significhino più di un qualsiasi viaggio.

nessuno striscia sotto ai recinti
nessuno vuole essere picchiato
commiserato

nessuno se li sceglie i campi profughi
o le perquisizioni a nudo che ti lasciano
il corpo pieno di dolori

o il carcere,
perché il carcere è più sicuro
di una città che arde
e un secondino
nella notte
è meglio di un carico
di uomini che assomigliano a tuo padre

nessuno ce la può fare
nessuno lo può sopportare
nessuna pelle può resistere a tanto.

Noi occidentali pensiamo di avere l’esclusiva della dignità, nostra e altrui, ma non è così. Il 4 ottobre 2013, quando l’isola di Lampedusa era diventata un enorme palcoscenico abbastanza osceno, Domenico Quirico, da poco rientrato in Italia dopo un lungo sequestro in Siria, tornò in quei posti dove era attraccato nel 2011, dopo aver attraversato il canale di Sicilia su un barcone di migranti partito dalla Tunisia. Scrisse delle righe che sintetizzano bene perché è più dignitoso per noi il silenzio:

Nessuno dei miei «clandestini» voleva esser compianto, sui loro volti annaspavano espressioni di gioia. Quanti preferiscono tacere! Il loro dolore è il loro segreto, l’ultimo tesoro che non vorrebbero cedere dopo che i trafficanti di uomini hanno loro tolto tutto. 

Noi occidentali, invece, per compatire, abbiamo bisogno di veder soffrire.

 

Warsan Shire, Home, in http://www.matteogracis.it/nessuno-mette-i-suoi-figli-su-una-barca-a-meno-che-lacqua-non-sia-piu-sicura-della-terra/

Domenico Quirico, Sul molo di Lampedusa a contemplare la morte, in La Stampa, 4 ottobre 2013

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