DEMORALIZZAZIONE ED ESASPERAZIONE

di Cinzia Nachira

L’attentato dell’8 gennaio a Gerusalemme compiuto da Fadi al-Kanbar, un giovane palestinese di 28 anni, sposato e padre di numerosi figli, residente a Jabel Moukhaber (un quartiere di Gerusalemme annesso nel 1967), ha scatenato le fantasie più improbabili.

Il governo israeliano, come era prevedibile e come già avvenuto molte volte a partire dal settembre 2001, ha approfittato del mezzo usato per compierlo, un tir lanciato a tutta velocità su un gruppo di giovani soldati – di cui quattro sono rimasti uccisi e molti altri feriti –, per ribadire e sottolineare che Gerusalemme è come Nizza e Berlino: un pezzo di Occidente nel cuore della “giungla arabo-islamica” (come sosteneva il suo predecessore laburista Ehud Barak nel 2000). Non ha perso, d’altronde, neanche l’occasione per evidenziare un presunto legame fra la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che dichiara illegali le colonie e dove, per la prima volta nella storia dell’alleanza strategica tra Stati Uniti e Israele, i primi si sono astenuti, consentendo l’approvazione di quella deliberazione. La tesi sottostante sarebbe che, in qualche modo, quella risoluzione e gli Stati Uniti che si sono astenuti sono i responsabili dell’attentato, nel senso che i palestinesi si sarebbero sentiti autorizzati a fare attentati. Inoltre, nelle ore immediatamente successive all’attentato la stampa israeliana e il governo (ma non le agenzie di sicurezza interna lo Shin Bet) hanno sostenuto che Fadi al-Kanbar era un sostenitore dell’ISIS, questo dettaglio doveva servire, evidentemente, a fugare ogni dubbio sull’origine comune degli attentati avvenuti in Europa e quello di Gerusalemme.

Questa tesi è stata ripresa in buona sostanza anche all’estero, Italia compresa. Ma è tanto bizzarra quanto infondata. Semmai questa torsione logica è la ripetizione di quella più vecchia che è alle origini del progetto coloniale sionista, che pretende che Israele sia “un bastione contro la barbarie asiatica”.

Purtroppo il popolo palestinese, vittima di cinquant’anni di occupazione, di espulsioni di massa avvenute in varie riprese tra il 1947 e il 1967, assedi e quant’altro, non ha bisogno di sobillatori per ribellarsi. Lo ha fatto spesso, fin dal 1936 con la grande rivolta antibritannica fino ai nostri giorni. Spesso a guardare solo il sintomo il medico sbaglia la diagnosi e di conseguenza la cura, portando il paziente alla morte. Questo è ciò che sta avvenendo in Palestina, la terra contesa per eccellenza e per molti decenni simbolo dell’instabilità del Vicino Oriente e delle concorrenze tra potenze internazionali e regionali.

Uno dei meriti delle rivolte arabe scoppiate nel 2011 è stato quello di scoprire uno ad uno i diversi conflitti che attraversano quella regione, smascherando le ipocrisie dietro le quali si nascondevano diversi interessi, a volte coincidenti ed altre in contrapposizione. Non staremo qui solo a ribadire che finché l’occupazione, la colonizzazione e la depredazione del popolo palestinese continuerà indisturbata o solo ostacolata virtualmente episodi come quello del 9 gennaio saranno destinati a ripetersi. Non possiamo sapere se veramente Fadi al-Kanbar era un sostenitore dell’ISIS, è stato ucciso e non potrà né confermarlo, né smentirlo. Possiamo solo basarci su quello che hanno dichiarato alcune fonti dello Shin Bet, i servizi segreti israeliani interni, ossia che Fadi al-Kanbar era un “palestinese ostile a Israele, ma non era conosciuto come un ‘militante’”. Ma, aggiungiamo noi, se anche si dovesse appurare una qualche sua simpatia per l’ISIS, non potrebbe sorprendere, né, soprattutto, questo autorizzerebbe a liquidare l’esasperazione del popolo palestinese e gli atti disperati che da questa conseguono come una forma di manipolazione esterna.

Nessuno si può nascondere dietro un dito, le difficoltà della resistenza palestinese non sono recenti, anzi per certi versi risalgono perfino all’epoca in cui essa era di fatto l’unica resistenza araba ad inscriversi all’interno di uno scenario internazionale segnato da lotte di liberazione che influenzavano politicamente ben al di là dei propri confini. Parliamo di quegli anni sessanta e settanta del secolo scorso in cui la resistenza palestinese aveva una visione strategica tale da porsi come elemento propulsore per un cambiamento della intera regione mediorientale. Ma questa prospettiva, fin dagli albori, si è scontrata – rendendola poco credibile – con il fatto che l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), nata nel 1964 come una creatura ed emanazione della Lega Araba, è rimasta, anche dopo l’ascesa di Yasser Arafat e di Fatah alla sua direzione, di fatto ostaggio dei finanziamenti, molto cospicui, che all’organizzazione arrivavano da tutti i Paesi arabi. In questo modo, nei fatti, mentre l’OLP fin dagli anni ’70 dichiarava e praticava la “non-ingerenza” nei fatti interni dei Paesi arabi (monarchie comprese), i Paesi arabi invece entravano in modo manifesto nei fatti palestinesi, condizionandone le scelte politiche. Anche di quelle organizzazioni palestinesi di sinistra che facevano riferimento alla sinistra (che per un lungo periodo è significato legarsi all’URSS e ai Paesi arabi che erano suoi alleati nella regione: la Siria, l’Iraq e successivamente la Libia), che facevano grandi dichiarazioni di marxismo, ma in realtà erano più iscrivibili all’interno delle organizzazioni nazionalistiche radicali. Ma malgrado tutto questo per decenni la resistenza palestinese ha rappresentato nel mondo arabo un modello cui ispirarsi.

Oggi, invece, così non è per il buon motivo che dalla firma degli  accordi di Oslo in avanti lo stato complessivo di quella resistenza ha dato di sé un’immagine desolante. La divisione e la concorrenza tra l’Autorità Nazionale Palestinese che governa la Cisgiordania e Hamas che invece è al governo della Striscia di Gaza, ha prodotto un risultato nefasto, di fatto agevolando il progetto israeliano di spaccare i territori occupati nel 1967.

Il tentativo coraggioso di uscire dall’impasse rappresentato dalla prima Intifada nel 1987 (esattamente trent’anni fa) è stato miseramente e tragicamente sperperato sull’altare di quegli accordi di Oslo, che in realtà altro non erano che il modo di salvare l’apparato, enorme e molto corrotto dell’OLP, dando l’illusione che il popolo palestinese fosse prossimo almeno ad ottenere una forma per quanto blanda di autonomia e indipendenza in Cisgiordania e a Gaza. Mentre, purtroppo, questi accordi hanno solo aperto la strada all’intensificazione della colonizzazione, che è raddoppiata dal 1993 ad oggi, alla costruzione del Muro di “separazione unilaterale” ed infine hanno reso possibile la resistibilissima ascesa di Hamas e il suo radicamento fra i palestinesi, perché si presentavano come gli unici, tra le organizzazioni palestinesi, ad opporsi a quella scelta.

In questo scenario soprattutto le generazioni di palestinesi che sono nate dopo il 1987, in definitiva, salvo Hamas, non hanno più avuto alcuno sbocco politico e organizzativo che consentisse loro di incanalare la lotta. Per questa ragione, per un verso i palestinesi sono rimasti ai margini, o del tutto assenti, dal grande sollevamento del 2011 (anche se alcuni tentativi di riannodare quei fili ci sono stati sia in Cisgiordania che a Gaza, soprattutto tra il 2011 e il 2012, ma sono stati ostacolati e bloccati sia dall’Autorità Nazionale Palestinese che da Hamas). Per un altro verso, l’esasperazione è arrivata a livelli esponenziali, perché, visto il caos drammatico in cui è precipitata l’intera regione, Israele ha avuto la libertà assoluta di portare avanti ogni genere di politica di spoliazione e di colonizzazione.

A livello internazionale quasi più nessuno si è occupato dei palestinesi: per quanto l’amministrazione statunitense con la direzione di Barack Obama abbia avuto dei rapporti molto tesi con i governi di Benyamin Netanyahu, durante i suoi due mandati, è pur sempre vero che questa tensione non si è mai tradotta in nulla di concreto per i palestinesi. E per dirompente che sia, anche l’ultima azione del presidente uscente con l’astensione del 23 dicembre scorso degli Stati Uniti ad una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che condanna (per l’ennesima volta) la costruzione delle colonie in Cisgiordania, non avrà alcuna ricaduta sulla vita dei palestinesi né della Cisgiordania, né di Gerusalemme est, e sembra più che altro un altro tentativo di mettere in difficoltà il suo successore Donald Trump. Fare questa azione “clamorosa”, mentre la famiglia presidenziale prepara le valige, ha il sapore quasi della presa in giro, visto che nel 2011 lo stesso Barack Obama si era opposto ad una risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che dava alla Palestina lo status di osservatore (come lo Stato del Vaticano). Mentre nel dicembre 2016, Samantha Power, rappresentante statunitense nel Consiglio di Sicurezza, ha dichiarato che l’astensione è in “linea con la politica statunitense” e che gli Stati Uniti non possono accettare la colonizzazione e contemporaneamente lavorare al negoziato basato sulla formula dei “due Stati per due popoli”, nel 2011 quando il secondo Stato (la Palestina) aspirava a sedere nell’Assemblea Generale, almeno come osservatore, il presidente Barack Obama, così giustificò la decisione di ricorrere al non riconoscimento:

Sono convinto che non esistano scorciatoie per la fine di un conflitto che è durato per decenni (…). La pace non arriverà tramite le dichiarazioni e le risoluzioni delle Nazioni Unite. Sono gli israeliani e i palestinesi, non noi, a dover raggiungere un accordo sulle questioni che li dividono: sui confini e sulla sicurezza, sui rifugiati e su Gerusalemme. L’impegno americano per la sicurezza di Israele è inamovibile (…) la nostra amicizia con Israele è profonda e duratura (…)  (che Israele merita) riconoscimento e relazioni normali con i propri vicini”. (…) parliamoci chiaro: Israele è circondata da vicini che le hanno mosso guerra più volte: questa è la realtà.

Sarebbe un atteggiamento razzista quello di pensare che se noi possiamo cogliere le flagranti contraddizioni tra l’una e l’altra dichiarazione, mentre altrettanto non possano fare i giovani palestinesi. Con un’aggravante: noi non viviamo sotto assedio, loro sì. Noi non paghiamo sulla nostra pelle il prezzo tangibile della politica statunitense, loro sì. Se noi sentiamo e viviamo come un grave problema l’assenza di organizzazioni politiche in grado di rappresentare il disagio nei nostri Paesi europei e occidentali, è chiaro che questo problema diventa dirompente in Palestina, perché l’occupazione e la prepotenza militare israeliana pone un’urgenza immediata.

Per questo motivo e non perché sia una caratteristica connaturata degli arabi, palestinesi compresi, l’integralismo islamico sotto le sue diverse forme, dalle più moderate a quelle più estremistiche, si è tanto diffuso.

Allo scoppio delle rivolte arabe del 2011 in molti hanno quasi denunciato il silenzio sulla Palestina come una conseguenza delle prime, senza vedere che in realtà nelle rivolte arabe c’era un modello organizzativo, almeno all’inizio, che richiamava la prima Intifada che era un’autentica rivolta popolare e che si autorganizzava sul terreno di fatto creando una sorta di dualismo di potere che contrapponeva le organizzazioni locali alla direzione dell’OLP, all’epoca in esilio.

La demoralizzazione tra i palestinesi accumulata in questi anni ha raggiunto livelli esponenziali e l’esasperazione porta con sé il gravissimo rischio di rivolgersi a coloro che sembrano offrire una via d’uscita, qualunque essa sia. In questo senso, purtroppo l’integralismo islamico si offre come sbocco politico, per altro proprio sfruttando le infinite debolezze del nazionalismo, anche quello più progressista, arabo e palestinese Hamas ha potuto raggiungere i livelli di consenso popolare che continua ad avere.

Il vero nodo cruciale che riannoda i fili tra la Palestina e l’insieme della regione vicino-orientale è l’assenza di forze politiche che siano in grado di avere una visione strategica sui tre terreni determinanti: sociale, nazionale e democratico. In questo scenario desolante è chiaro che alla denuncia chiara e netta dei crimini commessi da Israele, con la complicità neanche velata dei suoi alleati internazionali, non si può far finta di nulla sulle cause che hanno tanto indebolito e reso poco credibile i movimenti palestinesi agli occhi soprattutto di quei giovani palestinesi che sono, giustamente, stanchi, anzi esausti, di dover pagare il prezzo dell’opportunismo e degli errori clamorosi delle direzioni politiche che pretendono di rappresentarli. Ma questi stessi giovani o trovano delle modalità di riorganizzazione politica che consentano loro di riappropriarsi della scena politica in modo da non cadere nelle tante trappole che trovano sul loro cammino, oppure il rischio è un’ulteriore esplosione generalizzata, di cui approfitteranno l’estrema destra fascisteggiante oggi al governo di Israele, come le tante forze oscurantiste che oggi nel mondo stanno crescendo e si stanno affermando.

All’inizio delle rivolte arabe era ancora pensabile che queste influenzassero il popolo palestinese in modo che uscisse dall’impasse politico e sociale in cui è piombato dalla sconfitta della prima Intifada, oggi che le aspirazioni delle rivolte arabe sono state confiscate dai vecchi regimi e dall’integralismo islamico più conservatore è evidentemente tutto più difficile.

10 gennaio 2017

Obama gelo sulla Palestina, La Repubblica, 21 settembre 2011:  www.repubblica.it/esteri/2011/09/21/news/obama_palestina-22005279/?ref=search

 

Potrebbe piacerti anche Altri di autore