(I) LA SIRIA E LA SINISTRA

Pubblichiamo una lunga e approfondita conversazione che Yusef Khalil ha condotto per Jacobin con Yasser Munif (Professore di sociologia all’Emerson College di Boston e co-fondatore della Campaign for Global Solidarity with the Syrian Revolution), uno studioso siriano dei movimenti di base presenti nel Paese. Crediamo che questo testo sia un contributo prezioso, utile per contrastare molte delle convinzioni dominanti nella sinistra italiana che continuano a vedere in Bashar Assad e nel regime baathista il “male minore” viste le attuali forze in campo. Un approccio semplicistico spesso accompagnato da pregiudizi nei confronti dei popoli arabi che secondo Munif nega la forza e l’originalità delle esperienze di base ed impedisce alla sinistra occidentale di comprendere pienamente la natura della rivoluzione siriana (vedi come esempio l’articolo www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/8959-italo-nobile-joseph-halevi-e-la-questione-siriana.html). La Redazione

Dietro il disastro umanitario della guerra civile siriana c’è una crisi politica che essere capita urgentemente dalla sinistra. La tragedia siriana oggi è una questione morale e politica centrale. Eppure non è stato facile per la sinistra nel mondo decidere come schierarsi sulla Siria. L’ampia discussione che segue si focalizza su temi quali le caratteristiche del regime di Assad, le radici e lo sviluppo della rivoluzione siriana e dei vari gruppi di opposizione attivi sul posto, gli interessi e interventi regionali e globali, e i compiti e le responsabilità della solidarietà statunitense.

Prima parte

Le Nazioni Unite hanno definito la Siria la peggior crisi umanitaria dei nostri tempi. Più di undici milioni di siriani, il che significa più della metà della popolazione siriana, sono profughi. Centinaia di migliaia si sono riversati in Europa e migliaia sono annegati in mare a causa delle frontiere europee e le politiche di asilo. Ci sono 4.8 milioni di rifugiati in Turchia, Giordania, Libano e nei paesi vicini, mentre 6.6 milioni sono profughi interni in Siria. Più della metà di quei rifugiati sono bambini. Questi rifugiati sono semplicemente vittime di una crisi umanitaria? Da cosa fuggono, e che esperienze si portano dietro?

È ovvio che oltre ad essere una crisi umanitaria, è anche una crisi politica. Non si può capire la questione dei rifugiati senza collegarla al conflitto siriano e alla rivoluzione siriana. E come tale, bisogna collegarla alla storia siriana recente e al processo politico nel Paese.

Questo è uno dei problemi principali. Chi lavora con i rifugiati spesso disconnette la questione dei rifugiati dalla questione più ampia del conflitto siriano. Ha una visione per la maggior parte astorica e apolitica dei rifugiati. Li vede semplicemente come individui che hanno bisogno di aiuto e supporto. Non penso che ciò sia utile. La questione dei rifugiati deriva dalla rivoluzione siriana. È un effetto secondario, dovrebbe essere compresa nel contesto più ampio della rivoluzione siriana, dovrebbe essere politicizzata.

Molti degli attivisti e organizzatori che sostenevano il movimento di base in Siria sono finiti in Turchia e nei paesi vicini in Europa a causa della gravità delle violenze, delle evacuazioni, dell’isolamento politica e così via. Sono un’estensione di quella rivoluzione e molti di loro sono ancora attivi in Europa, e sono, in qualche modo, parte organica della rivoluzione. Questo è il primo problema. L’idea che sia semplicemente una crisi umanitaria che debba essere risolta in quanto tale.

La seconda questione è il modo in cui i rifugiati, siriani e non, sono percepiti come individui con bisogni individuali. Anche questo è un problema serio. C’è bisogno invece di pensare a quei rifugiati come comunità che hanno diritti politici, con culture da salvaguardare e apprezzare. Spesso invece i rifugiati sono dispersi in città e villaggi in giro per l’Europa. Lo si fa perché si crede che disperdendo quelle popolazioni si eviti un’alta concentrazione di musulmani, e quindi di potenziali minacce terroristiche in Europa. Questo è il secondo problema, il fatto che siano considerati come individui e non come comunità.

In terzo luogo, inizialmente c’era molta solidarietà verso i rifugiati, ma poi, dopo diversi attacchi terroristici in Europa e poi negli Stati Uniti, l’opinione pubblica è cambiata, e molti europei e occidentali in generale, sono diventati scettici verso i rifugiati. Molti di loro li considerano potenziali terroristi. Questo è un altro dei problemi da affrontare.

Questo va ad alimentare anche le politiche xenofobe e razziste che stanno producendo una spaccatura tra l’Europa e la regione siriana, uno scontro di civiltà tra gli arabi “barbari”, potenziali “terroristi” da un lato, e dall’altro la cultura occidentale e i valori cristiani. Non c’è via di mezzo. La situazione viene percepita come uno scontro di civiltà, e non si vede altra soluzione che la completa separazione tra le due popolazioni.

Sia in Europa che negli Stati Uniti, il modo in cui la questione dei rifugiati viene usata in campo politico alimenta pensieri razzisti e xenofobi. Anche questo deve essere condannato, specialmente dalla sinistra e dai gruppi e partiti progressisti. Dobbiamo lottare per l’integrazione dei rifugiati. Dovrebbero ricevere gli stessi diritti degli europei occidentali, e dovrebbero essere trattati come parte di una comunità.

Lei ha menzionato la necessità di collegare il problema dei rifugiati con la storia recente. Come descriverebbe il regime siriano e i suoi sviluppi, così da poter avere un’idea più chiara di quello che è successo?

Il regime siriano ha una lunga storia, di almeno quattro decenni. È un regime totalitario, settario e più recentemente, neoliberista. Hafez al-Assad, il padre dell’attuale dittatore, prese il potere nel 1970 e isolò la fazione radicale del partito Ba’th di allora, il gruppo guidato da Salah Jadid. Da allora, dette inizio al processo di de-radicalizzazione del partito Ba’th.

Inizialmente il partito Ba’th aveva l’appoggio della classe media, dei contadini, e dei gruppi socialmente marginalizzati, e si opponeva ai proprietari terrieri, ma quelle politiche iniziali cominciarono a svanire. Hafez al-Assad cominciò a richiedere politiche più conservatrici. Il nazionalismo e l’anticolonialismo degli anni sessanta e settanta furono messi in disparte, e al loro posto Assad cominciò a introdurre sempre più deregolamentazioni economiche.

L’economia era ovviamente più centralizzata all’inizio, ed era percepita da alcuni come una forma di economia socialista con un vasto settore pubblico. Tutti questi elementi furono smantellati dal padre prima e poi dal figlio, Bashar al-Assad e a iniziare dalla metà degli anni novanta ci fu una spinta verso il settori privato e il capitale privato, lo smantellamento di alcuni dei settori pubblici, la fine dei sussidi, e la privatizzazione di un numero sempre più alto di università. Questa  è quello che solitamente viene vista come la svolta neoliberista in Siria.

C’è una sorta di stato di polizia totalitario che praticamente monitora ogni tipo di azione o attività politica. La politica è ovviamente proibita. I sindacati sono stati completamente repressi e smantellati negli anni ottanta, dopo una serie di scioperi tra il 1980 e il 1981. I leader furono imprigionati e molti lasciarono il Paese. A capo di quei sindacati, il regime di Assad mise invece membri del partito Ba’ht. Per parecchi decenni non c’erano nessun spazio politico in Siria.

È anche un regime settario. Utilizza due discorsi diversi. In pubblico si presenta come laico ed inclusivo mentre in realtà porta avanti un discorso molto settario. Credo che ciò sia molto importante perché spesso questo viene frainteso. Alcuni credono che il regime di Assad sia in realtà una potenza socialista e antimperialista nella regione. Ciò non è molto corretto se si guarda alla lunga storia della Siria.

Quanto è laico lo Stato siriano? Che aspetto ha il laicismo sotto Assad?

Il regime di Assad è stato molto intelligente nel presentare un’immagine moderna, laica, inclusiva e non settaria, dove le varie sette e religioni convivevano e condividevano lo spazio politico. Ma ciò è molto lontano dalla realtà.

In realtà Assad ha costruito nei primissimi tempi un equilibrio molto sottile tra i sunniti e gli alauiti, e tra il partito e l’esercito, per consolidare il suo potere. Naturalmente, non lo poteva fare solo con il supporto degli alauiti, aveva bisogno anche del supporto dei sunniti. Lo ottenne concedendo posizioni a certi generali e commercianti, ma ogni volta che c’erano dei conflitti e ad ogni purga, gli alauiti venivano trattati meglio e guadagnavano posizioni sempre più strategiche all’interno dell’esercito, della sicurezza e del partito. Il regime di Assad sfruttò queste contraddizioni favorendo l’opposizione tra la classe urbana e la classe rurale sunnita e i sunniti di altre regioni, approfittando di queste contraddizioni e differenze per consolidare il suo potere.

Quando ci fu uno scontro con i Fratelli Musulmani nei primi anni ottanta, il regime siriano soppresse la ribellione dei Fratelli Musulmani e uccise ad Hama, secondo diverse stime, tra le venti e le quarantamila persone. Per danneggiare il potere dei Fratelli Sunniti, permise ad alcuni sceicchi sauditi di aprire scuole religiose e diffondere le loro ideologie wahhabite tra la popolazione negli anni ottanta. Lo fece con l’approvazione dell’Arabia Saudita, a patto che l’Arabia Saudita accettasse di non appoggiare i Fratelli Musulmani. Giocò su queste diverse contraddizioni e utilizzò discorsi settari tra certi segmenti della popolazione, e allo stesso tempo presentandosi come un regime o potenza moderna e secolare.

Questo tipo di doppio gioco è, tra l’altro, ancora in corso. E ciò sta confondendo molte persone che vedono solo l’aspetto confessionale o solo l’aspetto laico, in base alla loro affiliazione politica o a quello che vogliono vedere, ma entrambi i discorsi sono utilizzati dal regime siriano. Il regime siriano usa il settarismo non come un sistema ideologico, ma piuttosto come uno strumento pragmatico. Per mettere una parte della popolazione contro l’altra e consolidare il suo potere, invece che usare il settarismo come fa l’ISIS, cioè come base del proprio stato.

I sostenitori di Assad affermano anche che ci sia un alto livello di unità tra tutte le componenti della società siriana dietro il loro presidente, che alcuni chiamano il loro presidente “democraticamente eletto”, contro l’invasione straniera del loro paese. Qual è la base del supporto di Assad? Che caratteristiche ha?

Assad ha un certo consenso. Sarebbe sbagliato negarlo, ma il regime di Assad usa una combinazione di egemonia e forza per consolidare il suo potere, per cui parte della popolazione teme il regime. Perciò c’è chi non vuole partecipare a proteste o unirsi alla ribellione per via delle possibili conseguenze. Come ho detto prima, il regime di Assad ha usato diverse strategie per dividere la popolazione rurale e urbana, la classe media ed i poveri che vivono in stanziamenti abusivi.

Usando queste diverse contraddizioni, e mettendo le diverse popolazioni l’una contro l’altra, per esempio cristiani contro ebrei, il regime di Assad è riuscito a placare parte della popolazione e mandare un duplice messaggio. Parte della popolazione teme il regime di Assad, e per questo non vuole unirsi alle proteste e sostenere la rivoluzione. Ciò viene percepito come sostegno perché è la maggioranza silenziosa. Non sostiene, ma non può veramente opporsi al regime siriano con i suoi sistemi di sicurezza e il suo esercito schierato negli spazi urbani.

Parte della popolazione e alcune minoranze credono che il regime siriano sia il loro unico difensore e che per loro sia l’opzione meno peggiore, mentre le altre siano molto più crudeli. Per questo, sono disposte a rimanere in silenzio e non opporsi al regime siriano. Credo anche che tali minoranze siano un gruppo ampio e per questo il regime abbia giocato la carta della protezione delle minoranze. Questo ha poi un buon riscontro in Occidente. Ogni volta che si parla di “proteggere” i cristiani, o qualsiasi minoranza, viene visto come una cosa buona, perché i sunniti sono ovviamente considerati una minaccia. È parte dell’immaginario occidentale. I sunniti sono la maggioranza e perciò sono per definizione una minaccia per le minoranze.

Alcune parti della popolazione traggono beneficio da ciò che sta succedendo, oppure non ne sono direttamente colpite. Ci sono alcune zone benestanti che sono completamente distaccate dall’attuale conflitto e dalle violenze. Non li vedono. Il regime siriano è stato inoltre molto scaltro nell’evitare qualsiasi tipo di conflitto in quelle zone. È stato di solito molto più ambiguo, e ripeto, non disposto a usare la forza in quelle zone, per evitare conflitti o alienare la popolazione.

Direi che sia una combinazione di egemonia e forza da una parte, ma molti alauiti credono che se Assad cadesse, loro potrebbero essere dispersi o minacciati dalla maggioranza sunnita. Per me questo non ha basi solide. Credo solo che il regime stia approfittando delle differenze e contraddizioni per consolidare il suo potere.

Quali sono allora le cause scatenanti che hanno portato alla rivoluzione contro il regime?

Ci sono numerose ragioni, ovviamente, ma la più importante è rappresentata dai quarant’anni e passa di dittatura. Penso che sia stata una combinazione di cause interne relative alla dittatura, una dittatura che ha raggiunto i suoi limiti,  di cause complessive e intrinseche.

Le cause domestiche o interne sono state ampiamente documentate. Il partito Ba’ht aveva un’ideologia nazionalista ed era contro l’imperialismo negli anni sessanta e settanta, ma più tardi si trasformò velocemente in un partito molto più moderato, e cercò di de-radicalizzare e invertire molti degli obiettivi progressisti del vecchio partito Ba’htista implementati dal 1963 fino al 1970.

Il simbolo principale della nuova era è Rami Makhlouf, il cugino di Bashar al-Assad, che è sicuramente un simbolo di corruzione e della nuova ondata di neoliberismo in Siria. Si è detto che la siccità del 2007 e del 2010 abbia avuto un ruolo importante nel dividere la popolazione, nel marginalizzare parte della classe contadina e a spingere parte della popolazione verso le periferie delle grandi città e formare quelle zone di povertà. Io credo che questa sia una delle cause, ma non la causa principale.

Oltre alle cause interne, è importante collegare la rivolta siriana al contesto più ampio delle rivolte arabe. Non si può comprendere la rivolta siriana senza collegarla alla più ampia insurrezione araba. Per molti versi rappresenta la fine dell’ordine totalitario nella regione. L’ordine totalitario ha raggiunto i suoi limiti e non è capace di sopravvivere o andare avanti ancora per molto. È diventato, in qualche modo, obsoleto e deve fronteggiare molte sfide. Per molti versi è la fine dell’ordine totalitario, analogamente al modo in cui il blocco socialista o l’ordine socialista ebbe fine negli anni novanta. È uno smantellamento strutturale di quell’ordine.

Ciò non vuol dire necessariamente che avremo dei governi democratici nella regione. Potremmo avere una nuova versione di quel totalitarismo, un ordine più militarizzato, ma quello che abbiamo avuto per trenta o quarant’anni, a seconda del Paese, dopo la decolonizzazione, non può più sopravvivere. Siamo sostanzialmente ad una nuova congiuntura, che sta dando inizio ad una nuova era nella regione. La Siria vi è connessa strutturalmente. Non può essere separata da quel processo regionale e per questo dovrebbe essere compresa all’interno di quel contesto più ampio.

Infine, c’è il contesto di crisi economica generale, che ha generato numerose reazioni in tutto il mondo e le proteste arabe fanno parte di quelle globali. Ciò non implica necessariamente un collegamento diretto o deterministico tra l’economia e la politica, ma c’è sicuramente una connessione tra i due aspetti. Le politiche neoliberiste nella regione e in Siria hanno avuto importanti ripercussioni. Sicuramente anche la crisi economica e la precedente crisi alimentare, hanno avuto serie conseguenze nel mondo arabo in generale ed anche in Siria. È una combinazione di tutte queste diverse forze che hanno essenzialmente portato alla rivoluzione.

1 continua  Il regime di Assad e la rivoluzione”

Traduzione di Valentina Benivegna

Tratto da:https://www.jacobinmag.com/2017/01/syria-war-crisis-refugees-assad-dictatorship-arab-spring-intervention-russia/

 

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